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15. Serenata francese

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In Francia di notte fa freddo. Le champs elisée, il roquefort, il foile gras non hanno scritto sulla confezione questa cosa.

Siepi ben potate, bungalow, camper, tende. Buio, silenzio assoluto. In sottofondo appena percepibili i sifoni delle piscine e le grida dei tizi in spiaggia. Portate dal vento, sono a malapena una eco. Riesco a sentire il suono delle biciclette dei guardiani con grande preavviso, mi distendo dietro una siepe e sto immobile. Passano. Mi rialzo e continuo a cercare. Ora, non giudicatemi, ma in Francia fa freddo ed io avevo solo una canottiera azzurra ed un paio di bermuda. Uno trova un paio di pantaloni lunghi stesi, poi magari una maglietta, poi un’altra che i ragazzi avranno freddo, ehi guarda che belline ‘ste Puma, un’ora dopo torno alla base e scopro che siamo una compagnia di altruisti.

«Vedo che abbiamo avuto la stessa idea» dico.
«Tanto sono rovinate»
«Questo non gli serve, ne avevano due»
«Io gli ho preso le braghe ma gli ho lasciato le mutande»
«Te cos’hai, lì?»
«Te la do per il borsone dell’Adidas»
«Però mi dai anche la canotta»
«Se dentro il borsone ci metti le foto di tua madre»
I bagni diventano rapidamente un mercato marocchino.

Barattiamo spensierati, quando un vociare all’esterno ci mette in allarme. Scattiamo nei cabinotti dei bagni a schiera in ordine sparso, silenzio assoluto. Arriva un piagnucolìo maschile, due o tre tonfi di porte che sbattono, urla di disperazione mescolate a gorgoglii.

«ODDIO MAI PIU’» piagnucola la voce, in italiano «MAI MAI MAI MAI».
Squaglio di diarrea. Sforzi di vomito. Peti liquidi. Sputi. L’uomo continua a piagnucolare tra un boato e l’altro che risuonano nel silenzio assoluto. Tre minuti, torna la quiete: «Calma» si dice con accento del sud, annaspando «calma calma calma». Rumori, la porta che si apre. Cammina piano verso i rubinetti. Acqua scorre, sputi. Un’altro sforzo di vomito, sputi. «Calmo, Luci, calmo. Mai più. E’ una botta. Hai provato, basta. Mai più. Non sei gay. Non sei gay. Non. Sei. Gay».
Il mondo è cristallizzato nel silenzio.
Seeeeei ricchioooooooneeeeeeeee, sussurra una porta.

«CHI C’E’? C’E’ QUALCUNO?» grida l’uomo.
«SIGNORE, NO, SIGNORE» risponde un urlo «QUI NESSUNO, SIGNORE».

Contro ogni mia volontà esplodo inorridito da me stesso, seguito a ruota da Atza dall’altra parte, poi Solero ed infine Ario. Le porte si spalancano ed usciamo con le convulsioni tra un carnevale di asciugamani, felpe, magliette. Ci troviamo di fronte ad un tizio qualunque, che prima tentenna e poi fugge. Appena riusciamo a riprendere fiato per questo episodio ributtante, decidiamo di mollare la refurtiv gli oggetti abbandonati e ricominciare a cercare in quel campeggio che non fa più paura. Il camper lo trova Atza al secondo giro. Perde una marea di tempo a trovarci tutti. Quando arriviamo davanti a noi c’è la roccia di Odissea nello spazio. La colonna sonora è quella. Perquisiamo inutilmente l’esterno, nulla.

«Potrebbero averlo messo dentro»

Solero sta già scavalcando la finestrella posteriore, perché nel 1997 non esistevano arie condizionate e dormivano tutti a finestre spalancate e zanzariere. Prima intravedo la flebile luce di un accendino, poi quella decisa di una torcia elettrica. Ci sta dentro meno di due minuti senza fare alcun rumore. Mette fuori la testa, la scuote e scende. Non c’è. Siamo incerti sul da farsi e più l’alba si avvicina più il nervosismo sale. Non abbiamo facce che corrispondono ai clienti ideale di un campeggio a quattro stelle in costa azzurra. L’unica è che siano in spiaggia. Avremo un’ora al massimo prima dei primi risvegli, se sono ancora lì saranno fatti come draghi e stanchi. L’importante è uscire dal campeggio prima che il presagio di chiarore diventi un tequila sunrise. Senza dire una parola torniamo nei bagni, ficchiamo tutto nei borsoni e ci dirigiamo verso l’uscita . Percorriamo il vialone dove ci aspetta lo sguardo del guardiano, ma molto meno inquisitorio di quello che lancia a chi entra. Testa bassa, passiamo nell’indifferenza.

Alle cinque di mattina avanziamo noi quattro sulla sabbia, diretti verso l’unico gruppo di ragazzi che ancora strimpella chitarre e bevicchia attorno ad un falò. Siamo davvero stanchi, la sabbia sembra polvere di piombo ed ogni passo ci costa fatica. Una volta lì non so cosa diremo nè cosa succederà, non so nemmeno se siano loro. Mi giro verso il cancello che abbiamo appena passato. Non ho la forza di preoccuparmi, lo dico e basta.

«Fioi, vi ricordate il tizio del bagno?»
«E’ al cancello che parla coi guardiani. Indica verso di noi»
«Non giratevi, tirate dritto» sibila Atza «è ancora troppo buio perché ci vedano, qua in fondo»
«Tanto siamo fuori dal campeggio, non possono farci niente».
«Era vero, se non fosse per la roba che abbiamo in spalla»
Una doccia gelata ci investe.

«Cosa facciamo? Molliamo i borsoni e corriamo?»
«FIOI, COSA FACCIAMO?»
«Auf wiedersehen, adieu, goodbye… ha ha ha, Franz! Bestimmel kartoffeln von krat, ach so! Ha ha ha!» ridacchia il tizio con la chitarra, mezzo morto, a nemmeno sei metri da noi. E’ stravaccato sulla sabbia tra una valanga di cadaveri, bottiglie vuote, legname vario e cartacce. Dal cancello i guardiani vengono nella nostra direzione, uno parla nel walkie talkie. Solero non vede niente di tutto questo.

Vede lo zaino.
Poi tutti i pezzi del puzzle vanno al loro posto.

Il viola è il nuovo rosso



– Noi ci dobbiamo ribellare!
Applausi. 

– …ora decidiamo a cosa – conclude la rappresentante d’istituto. E’ il liceo scientifico G.Bruno di Mestre, secondo anno, aula magna. Centinaia di studenti riuniti osservano con sacro timore quelli che organizzano l’autogestione. Tanti. Grandi. Forti. Adulti, si vede chiaramente perché tutti fumano. 

– Il razzismo? – grida una voce nell’aula gigantesca. 
– Già fatto l’anno scorso.
– La liberalizzazione delle droghe leggere?
– Mah…
– L’antifascismo?
– Ecco, sì. Dove possiamo trovare fascismi?

Al tempo non c’era Berlusconi. 


– La scritta che ha fatto l’MSI al Pacinotti?
– Ma l’han fatta tre anni fa…
– Vabbè in linea di massima ci ribelliamo alle prevaricazioni fasciste. OH, SENTITE TUTTI?
– Seee – coro. 
– LUNEDI’ PROSSIMO AUTOGESTIONE, CHIARO? NO CHE DOPO CI SONO GLI STRONZI CHE ENTRANO, TANTO SAPPIAMO CHI SIETE E VI SPUTTANIAMO –
– Io ho l’interrogazione, c’ho studiato una settimana…» 
– Me ne inculo.
– Chi s’è acceso un razzo?
– La Montenegri.
– Spegnilo, che arriva quello di latino.

L’aula rumoreggia, poi: 

– Siete voi i veri fascisti! –
– COSA? COS’HAI DETTO? –
– Ho detto che siete voi i veri fascisti, scusa, se uno vuole andare a scuola ha il diritto…
– COMPAGNI, AVETE SENTITO? –
– EH, CHE SENTANO ANCHE QUANTO PUZZI!
– RASTABBESTIA MERDA!
– TROIA! –

Dopo mezz’ora gli ormoni prendevano il sopravvento e concludevano la riunione a sberle. Oggi questi tizi hanno cambiato aspetto, hanno una decina di anni di più ma si domandano lo stesso come mai in Italia non ci faccia la rivoluzione. Stan tutti lì in attesa, è una domanda molto diffusa su Google. Perché in Italia non si fa la rivoluzione? Eppure han tutto pronto. Twitter #gosocial, Reflex ed account Flicr pronti per uppare gli sviluppi in tempo reale, Facebook mobile per iscriversi agli eventuali gruppi a sostegno, videofonini e canale youtube pronti a filmare gli abusi della polizia, siti di informazione libera tra i preferiti, manuali di sopravvivenza in PDF già caricati sul loro eReader, Repubblica e Il Fatto alla mano. E’ tutto pronto. L’informazione libera corre sul filo. Hanno fatto il NO B DAY: è stato un momento storico, erano migliaia. Hanno fatto Raiperunanotte: è stato un momento storico, erano migliaia. C’è tutto. 

Guardano fuori, è primavera. Per strada la solita gente va al lavoro. L’anziana signora fa la spesa. Gli operai martellano. Taxi. Autobus. Traffico. Gente al parco, pallavolo, bastoni al cane, passeggini, primi gelati. Studenti che si baciano, zaini abbandonati sull’erba, libri di algebra sottolineati, una margherita come segnalibro. Vaffanculo, ma perché? 

La grande magia dei social network ripropone la grande magia delle assemblee d’istituto: consiste nel crearti un micromondo su misura dove tutti sono d’accordo con te o non esistono. Funziona finché non viene portata nel mondo reale. Poi diventa il tubo Tucker.

San Valentino non aveva trent’anni

Ci sono giorni in cui apro gli occhi e sono felice.
Là fuori qualcuno sta iniziando una petizione online o sta aprendo un gruppo su Facebook ed io non ci sono. La vita è una cosa meravigliosa anche solo per questo: sconosciuti rompicogl ex compagni di scuola non potranno addarmi da nessuna parte. Potrò astenermi dal sottoscrivere il gruppo “fan del tegolino” per poi trovarmi nella lista degli indagati dalla procura di Palermo perché il mio nome appare nel gruppo “Amici di Totò Riina”.

E’ bello.
L’aria è leggera.

L’apocalisse anale della mia vicina di casa sembra darle tregua e dal muro alle mie spalle smettono di provenire peti mostruosi, tonfi di bomba, urla belluine e sciacquoni tirati con isterico orrore. Il ghiaccio dalle strade è sparito.

Non per tutti è così. Nel Vietnam della vita i trenta sono l’Hamburger hill. Ovunque attorno a noi gente convive, si sposa, partorisce. Noi no. I maschi la prendono con alzate di spalle e salvataggi di Playstation. Le donne traballano, pallide. Precipitate fuori dall’università a pieni voti impattano contro una vita che le odia. Perché? Era tutto previsto: laurea, convivenza, lavoro fisso, matrimonio, figli. Qualcosa non ha funzionato. Psicologhe vendono pennette della 3 in stazione e dan ripetizioni di matematica a figli di contadini multimilionari. Perché? Il fidanzato che hanno a fianco comincia a trasformarsi in una belva che demolisce il loro castello d’illusioni mattone dopo mattone:

«Amore, noti niente?» dice lei accarezzando 75 euro di parrucchiere.
«Quei pantaloni ti appiattiscono il culo.»
Clùnk.

«Stasera ho messo il perizoma nero…» flauta maliziosa per strada.
«OH MERDA, E’ USCITO ASSASSINS CREED 2»
Clùnk.

«Ti va se andiamo a vedere una mostra?»
«Ha ha ha haha ha ha ha»
Clùnk.

«Ti amo.»
Rutto.
Clùnk.

Il brillante conversatore da discopub diventa un tizio sovrappeso che passa loro davanti grattandosi la pancia scorreggiando. Si mollano. Famiglie imbarazzate, amici dissolti, rubriche rase al suolo, madri in lacrime: quasi trent’anni e ancora nessuno schizzo utile? Tra qualche anno le sue amiche staranno già divorziando e lei non avrà neanche il coraggio di aprire il suo profilo facebook.

Si guardano allo specchio, tutto sommato non sono da buttare. Convocano l’amica troia, autoradio a palla, entrano nei locali con l’incedere degli antichi gladiatori che ritornano tra i miseri mortali. Spalancano le porte mentre nella volta celeste tuoni e lampi illuminano

VENTENNI.

Pelle di pesca. Cuore in tempesta, occhi d’innocenza, sangue di lava e culi di marmo. Templi viventi della fertilità, ninfe jailbait di passione, potenza del tempo, Viagra di Dio. Ventenni. Dee colorate, rabbiose, felici, commosse, emotive, drogate, ubriache, eccitate, entusiaste. Piccole donne sui tacchi che traballano in centro di sabato pomeriggio, grandi bambine che ridono per il solo fatto di essere vive. Ogni centimetro del loro corpo è impegnato a comunicare una sola cosa: la Natura comanda io mi riproduca adesso.

Solo una trentenne sa come si sente, oggi, un’azienda che produce fax.

Sapendo di non poter competere con delle dee pagane in qualità puntano sulla quantità. Abbassano gli standard, tolgono la selezione all’ingresso mettendo in campo l’esperienza: un uomo va dove scopa prima, non dove scopa meglio. Così il loro buco più sacro da castello delle fiabe diventa privèe, da privèe diventa club, da club diventa discoteca, da discoteca si passa al McDonald e da lì è tutta dritta, guardi, svolta a sinistra e arriva a Roma Termini in un attimo che c’è l’happy hour.

C’han più cazzi per casa che spazzole in bagno.
Trombamici, rimorchiate alcoliche, vibratori, colleghi, mia-familia-povra-aiuta-mia-familia, ex compagni di scuola, personal trainer, baristi, postini, banane. Ognuno di noi ha attraversato le trafficate lenzuola della fase sono pazza e libera, ovvero quando ti trovi ad infilare il tuo pene dentro un’isterica schizoide che oggi ti vuole come amico, domani in lacrime urla il tuo nome sotto la pioggia, nel weekend ti sussurra “dai vienimi in faccia” e lunedì sostiene che deve stare un po’ di tempo da sola.

Poi arriva S.Valentino: tre messaggi, tutti da uomini impegnati.
Tante grazie, Sex and the city.

14. Quattro arditi incursori

La giornata era iniziata bene. Dieci di mattina, un prato francese con un albero. Ci stiamo sbarbando nel sole d’agosto dopo aver preso il necessario in un minimarket. Il parabrezza come specchio, quattro idioti con le Lucky Strike in bocca che si dilaniano la faccia insaponata con acqua dalle bottiglie ricaricate nei cessi. Sole, insetti e fili d’erba fluttuano nella brezza d’estate accompagnati dai nostri peti mattinieri. Distendersi su un prato a godersi il viso sbarbato quando hai tutta la giornata davanti lo rende ancora più piacevole, chiudo gli occhi mentre il bruciore del dopobarba cicatrizza il massacro sanguinolento che ho al posto delle guance. 

Alle mie spalle, all’ombra dell’albero, li sento stronzeggiare in sottofondo. Cicale. Rare macchine distanti. Estate in tutto il suo spensierato splendore. 

«GUARDA, NEBO, GUARDA!» arrivano, gaudenti. 
«Che cosa ce ne facciamo di un ananas, adorabili idioti?» 
«Abbiamo mangiato l’interno e l’abbiamo riempito di batida» 


Ieri avevam fatto spese, ma ero rimasto fuori a fare la guardia al finestrino bucato. 

«Entrate in supermercato e sputtanate la grana del nonno in superalcolici da sbarbi?» 
«Macché, Atza l’ha rubata mentre Solero pagava» 
«E volete bere il coccoananas drink più gay del mondo alle 10 di mattina? Magari pucciandoci dentro la banana? Porca puttana, non ho mai visto niente di così frocio, avete superato voi stessi» 

«Ma chi vuol berla, l’abbiamo trasformato nel bong definitivo» 





«Avete fatto un chilom con un ananas e l’avete riempito di Batida?» 
«Affermativo, comandante»
«Questa specie di monumento alla droga tropicale verrà caricato di superskank made in Holland, collezione privata» dice Solero, stranamente espressivo, mostrando un cellophan da pacchetto di sigarette contenente la perla del nord. Con le lacrime agli occhi, iniziamo. Venti minuti dopo siamo sbiellati come capre che farnetichiamo in stato confusionale. 

«LLLAH SPHAGNA, FRATELLI» biascico sbavando «CIHOE’ SPSCI POTREBBE SCHOPARE PERSINO SILVIO, IL SILVIO DEL CHAZZO, GNAHA HA HAHAH HA HA» 

«Questa è esagerata» 
«Non è vero, potrebbe farcela benissimo. In Spagna mica è come qui. Là trombare è come… non so, tipo stringersi la mano» 
«Sì ma un idiota resta sempre un idiota. Secondo me il padre l’ha cresciuto male apposta per ridere. Cristo, sta in pronto soccorso perché s’è tranciato la lingua con la carta dello yogurt, voglio dire»
«E’ vero?» chiede Solero. 
«Sì. Leccando la stagnola di una confezione di yogurt Silvio è quasi riuscito ad amputarsi la lingua. La cattolicissima madre racconta l’accaduto ai vicini come una disgrazia che poteva capitare a chiunque e che ora sta tutto nelle mani del Signore, che delega al chirurgo» 

«Santo Dio» 

«Sì, mica è nuovo a questo genere di imprevisti, eh? Dio nella sua immensa bontà tentava in tutti i modi di chiamarlo a sé. A sette anni tutti i bambini giocavano con le spadine di plastica, ma lui transitando in cucina notò che il coltello da macellaio della mamma era grande uguale ma brillava di più, così lo sostituì. Quando la madre scoprì il tragico scambio partì con la rabbia di uno scattista nigeriano e riuscì a fermare il figlio un attimo prima che interpretasse davanti ai suoi amici una scena di seppuku da premio oscar» 

«HA HAHAHA HAHAHA SILVIO HAHAHA HAHA ODDIO L’HO SEMPRE SAPUTO» 

«Aspetta. A dieci anni riceve una mountain bike per il compleanno, ci sei? Stava pedalando sul ponte di via Einaudi quando gli viene un’illuminazione, ovvero che se avesse girato il manubrio in fretta di novanta gradi la velocità l’avrebbe fatto ruotare su sé stesso come una trottola!!!11!!!» 

«Solo che… ASPETTA, solo che il momento più opportuno per farlo gli parve mentre alle sue spalle transitava il 21 per Maerne. L’autista vede Silvio che senza motivo apparente viene catapultato verso l’alto dalla propria bicicletta impattando di faccia in centro carreggiata. Per evitarlo sterza invadendo l’altra corsia, disintegra la staccionata ed invade i giardini, son venuti persino i giornalisti della Tribuna di Treviso a far fotografie, ne avranno parlato per una settimana» 

«HAHHA HAHA HA HAHAHA HAHAHA» 

Ripartiamo verso mezzogiorno. La strada scorre tra campagna ordinata e solitaria, il panorama è sempre uguale. A sinistra osserviamo il mare che si perde, isole che lo spezzettano, gabbiani. Quando Solero urla, Ario sbanda. Per la prima volta il contrabbandiere ha cose da dire. Spiega. Nelle mie orecchie c’era solo la risata indotta dal THC mentre lui ci spiegava divertito un’idea geniale indicando un posto da fighetti rincoglioniti. Haha, sembra divertente. Haha, sì, è possibile. Haha, troppo ganzo, bella, sarebbe davvero da ridere. Quando ritorno lucido è sera e siamo distesi su una duna. Osserviamo ragazzi urlare ed ubriacarsi su un molo davanti ad un campeggio privato. La sola luce proviene da un faro puntato sul cancello che porta all’interno del camping. Gente che entra, gente che esce. 

«Non mi preoccupa entrare, alla peggio ci rimbalzano. Quello che mi preoccupa è uscire» 
«Almeno sei sicuro?» 
«Ho la faccia di uno che non è sicuro?» ringhia Solero «Sappiamo che là dentro c’è il camper. Dove c’è il camper, c’è lo zaino» 
«Solero, DEVI essere sicuro» 
«C’ho messo IO lo zaino, ho visto l’adesivo a trenta centimetri dal naso. Stesso disegno, stesso nome. Magari sono qui e magari no. In tutti i casi è l’unica possibilità che abbiamo» 

«Ricapitoliamo, il piano è infiltrarsi in un campeggio che ha il logo uguale ad un adesivo che hai visto sul camper dei teteschi, passare la notte a cercare se c’è, nel caso rapinarlo e fuggire?» 

«Sì. Siamo ragazzi qualsiasi tra ragazzi qualsiasi, non ci sgamano» 
«Siete fuori di testa» 


E’ inutile discutere. Solero parte. Ario lo segue. Io ed Atza possiamo solo aggregarci. In silenzio, a passo svelto, ci accodiamo ad un gruppo di tizi e tizie sbronzi. Saliamo i gradini di pietra, oltrepassiamo il cancello e lo sguardo del guardiano. C’è un pavimento di mattonelle che scende, scompare dietro una siepe e si trasforma in un viale alberato tra fiori, aiuole e piazzole. Lampioncini e steccati in legno. Piscina. Questo posto è gigantesco. Continuiamo a camminare tra gente che non parla la nostra lingua. Vediamo un TOILETTE ed abbiamo tutti e quattro la stessa idea. C’è un intera costruzione finto caraibica per i bagni, una fila interminabile di rubinetti e specchi, wc e docce. Atza ha in mano un depliant stropicciato che ha raccolto da terra. 

«Gesù» sussurro «quanto grande è ‘sto posto, par Gardaland» 
«150.000 metri quadrati, da quel che capisco di inglese» balbetta, passandomelo. 
Guardo. 

«Quanti posti ha?» domanda Solero. 
Io non ci volevo venire in Spagna. 

«Nebo? Quanti posti ha?» 
«3.700 persone» 
«QUANTE?!» 
«Eh» 
«Calcolando che sono le 23, abbiamo una macchina nascosta nella pineta, siamo intrusi in un camping a quattro stelle sconsiglio di stare qui dentro fino alla mattina dopo. Finché è notte e c’è gente in giro siamo irriconoscibili, appena vanno a letto siamo fottuti»
«Sullo scartafaccio c’è una mappa?» 
«Una specie» 
«Fa vedere» 

Studiamo per qualche minuto. 

«Va bene, è divisa in settori. Noi siamo qui, ai cessi. Ci dividiamo e ci ritroviamo ogni ora per assicurarci di essere vivi, svegli e sapere quando abbiamo trovato i bastardi» 
«E se non li troviamo?» 
«Continuiamo a cercare» dice Solero piantandomi occhi di ghiaccio nell’anima «Nebo, tu vai qui » 
«Perché io?» 
«Perché sei tu che hai avuto l’idea della madonna» 

Me ne vado domandandomi se si riferisse alla dogana o al viaggio. Me ne vado attraverso il buio di una terra sconosciuta, in una notte straniera, senza amici né donne o parenti, armato solo dei miei diciassette anni. In francia un italiano che sta andando in spagna cerca dei tedeschi, mormoro. La luna piena, nel cielo, aspetta la fine della barzelletta.

Tieni quei bottoni lontani da me



Trieste o la ami o la odi, io l’ho amata fin dal primo giorno. 

Ti trovi all’interno di questa piccola roccaforte tra mare e montagne fatta di palazzi decadenti, parcheggi inesistenti, strade con salite e discese da pista nera, malati mentali ovunque e bora a 180 chilometri orari. 

A Trieste per strada una donna potrebbe cominciare ad urlare che le dovete ridare i venti milioni che vi ha prestato. Un vecchio cammina, vi guarda, scuote la testa, rallenta, poi scatta di testa contro il muro, cade per terra sanguinante e in lacrime: così imparate, svizzeri maledetti, piange rotolando per terra.



La vita universitaria a Trieste nel 2001 era nulla. A parte minuscoli locali che venivano smantellati in breve tempo da anziani incattiviti la sola possibilità di vita sociale erano le cene. Quella sera la mia ragazza dell’epoca, Sara, mi ferma sulla soglia del suo nuovo appartamento. 

– Aspetta – dice iniziando a togliermi la giacca – Ha bottoni, alla Gioia fanno paura.
– Gna ha ha ha ha –
– Non sto scherzando. Ha la koumpounofobia –
– Sì, vabbè –
– KOUMPOUNOPHOBIA, la paura dei bottoni. Esiste. Adesso ti prego, evita d… EHI! –

Come il miglior Pelè la dribblo strappandole di mano la giacca, entro correndo e piombo nel salotto dove trovo Stanlio e Ollio versione femminile e una ragazza e io non so chi sia e improvviso e impugno la giacca e mostro il bottone e lo sporgo in avanti e AAAAGH, grida una. Mani sul viso, respirazione affannata e piagnucolante, hiiiii hiiii, per favore, hiiiii, hiiii, mi fanno paura. Rido felice. Sara mi tira per il braccio, ringhia insulti a denti stretti. Sono una bestia insensibile. Devo vergognarmi. Non posso capire. Non si ride dei più sfortunati, non sta bene. 

Pochi minuti dopo sono un lord inglese, ascolto la mia voce che si scusa tantissimo e che pensava fosse uno scherzo e che gli dispiace così tanto ma dentro di me sento l’aria sulla quarta corda di Bach, ho un cappello da esploratore sulla testa e guardo con eccitato appetito l’attrazione della serata: lei, Gioia da Treviso. Alta un metro ed un citofono, nervi che sembrano “00:03 TAGLIA IL CAVO ROSSO PER L’AMOR DI DIO”, Gioia è un paffuto bocconcino paranoide che durante la cena sussurra nulla con voce flebile. Le altre donne presenti sono Paolona, un pachidermico utero oltre il quintale iscritta a scienze dell’interculturalità e Silvia, uno stecco che non ricordo cosa studiasse ma 


– Principalmente sono batterista in un complesso noise, facciamo cover dei Marlene Kunz –
– Ah, bello!
– Daaaai, conosci i Marlene Kuntz?!

Temporeggio bevendo cabernet: – Sì, bè, il loro album precedente era più, come dire… ma perché parlare di cose settoriali, non trascuriamo Gioia – dico girandomi – o ti scoccia che attacco bottone, ha ha ha!

– No.
– Bene! Cosa studi, Gioia?
– Scienze politiche.
– Insomma vuoi finire nella stanza dei bottoni, eh?

La Sara stringe la forchetta fino a sbiancarsi le nocche. Tra atmosfera e mobilità la tavola sembra un crash test coi manichini dentro una cella frigorifera. Sento respirare una zanzara al terzo piano. 

– Divertente.
– Ma hai paura solo dei bottoni dei vestiti o anche di quelli tipo ascensore..? –
– Solo dei vestiti.
– E da quando?
– Da piccola.
– E’ una cosa innata o è legata a traumi tipo induzione Pavloviana, sai i cani che attaccano a sbavare quando sentono il campanello…

– Preferirei non parlarne.
– Eh, difatti mi sembri abbottonataaaaAHAHAHAHA ODDIO HA HA HA HAHAHAH

Sara porta pollice, indice e medio al setto nasale, poi chiude gli occhi. Fa un’espressione d’intenso dolore. Marlene Kunz smette di masticare e appoggia lentamente la forchetta sul piatto. La cicciabomba sarà tre volte che prova a dire qualcosa senza riuscirci. Mentre mi sbattevano fuori sono riuscito a tirarmi dietro la bottiglia di cabernet, faccio due passi, giro l’angolo ed eccomi qua –

Verso nel bicchiere di plastica, poi bevo un sorso direttamente dalla bottiglia.

– Bottoni, dici – ripete una voce roca.
– E tu invece come sei finito qui? – domando.
– A me m’hanno rapito i russi nell’89 – dice con tono greve Gino, barbone pazzo di parco della madonnina – facevo il giostraio.
– Racconta –

Trieste o la ami o la odi, io l’ho amata fin dal primo giorno.