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San Valentino non aveva trent’anni

Ci sono giorni in cui apro gli occhi e sono felice.
Là fuori qualcuno sta iniziando una petizione online o sta aprendo un gruppo su Facebook ed io non ci sono. La vita è una cosa meravigliosa anche solo per questo: sconosciuti rompicogl ex compagni di scuola non potranno addarmi da nessuna parte. Potrò astenermi dal sottoscrivere il gruppo “fan del tegolino” per poi trovarmi nella lista degli indagati dalla procura di Palermo perché il mio nome appare nel gruppo “Amici di Totò Riina”.

E’ bello.
L’aria è leggera.

L’apocalisse anale della mia vicina di casa sembra darle tregua e dal muro alle mie spalle smettono di provenire peti mostruosi, tonfi di bomba, urla belluine e sciacquoni tirati con isterico orrore. Il ghiaccio dalle strade è sparito.

Non per tutti è così. Nel Vietnam della vita i trenta sono l’Hamburger hill. Ovunque attorno a noi gente convive, si sposa, partorisce. Noi no. I maschi la prendono con alzate di spalle e salvataggi di Playstation. Le donne traballano, pallide. Precipitate fuori dall’università a pieni voti impattano contro una vita che le odia. Perché? Era tutto previsto: laurea, convivenza, lavoro fisso, matrimonio, figli. Qualcosa non ha funzionato. Psicologhe vendono pennette della 3 in stazione e dan ripetizioni di matematica a figli di contadini multimilionari. Perché? Il fidanzato che hanno a fianco comincia a trasformarsi in una belva che demolisce il loro castello d’illusioni mattone dopo mattone:

«Amore, noti niente?» dice lei accarezzando 75 euro di parrucchiere.
«Quei pantaloni ti appiattiscono il culo.»
Clùnk.

«Stasera ho messo il perizoma nero…» flauta maliziosa per strada.
«OH MERDA, E’ USCITO ASSASSINS CREED 2»
Clùnk.

«Ti va se andiamo a vedere una mostra?»
«Ha ha ha haha ha ha ha»
Clùnk.

«Ti amo.»
Rutto.
Clùnk.

Il brillante conversatore da discopub diventa un tizio sovrappeso che passa loro davanti grattandosi la pancia scorreggiando. Si mollano. Famiglie imbarazzate, amici dissolti, rubriche rase al suolo, madri in lacrime: quasi trent’anni e ancora nessuno schizzo utile? Tra qualche anno le sue amiche staranno già divorziando e lei non avrà neanche il coraggio di aprire il suo profilo facebook.

Si guardano allo specchio, tutto sommato non sono da buttare. Convocano l’amica troia, autoradio a palla, entrano nei locali con l’incedere degli antichi gladiatori che ritornano tra i miseri mortali. Spalancano le porte mentre nella volta celeste tuoni e lampi illuminano

VENTENNI.

Pelle di pesca. Cuore in tempesta, occhi d’innocenza, sangue di lava e culi di marmo. Templi viventi della fertilità, ninfe jailbait di passione, potenza del tempo, Viagra di Dio. Ventenni. Dee colorate, rabbiose, felici, commosse, emotive, drogate, ubriache, eccitate, entusiaste. Piccole donne sui tacchi che traballano in centro di sabato pomeriggio, grandi bambine che ridono per il solo fatto di essere vive. Ogni centimetro del loro corpo è impegnato a comunicare una sola cosa: la Natura comanda io mi riproduca adesso.

Solo una trentenne sa come si sente, oggi, un’azienda che produce fax.

Sapendo di non poter competere con delle dee pagane in qualità puntano sulla quantità. Abbassano gli standard, tolgono la selezione all’ingresso mettendo in campo l’esperienza: un uomo va dove scopa prima, non dove scopa meglio. Così il loro buco più sacro da castello delle fiabe diventa privèe, da privèe diventa club, da club diventa discoteca, da discoteca si passa al McDonald e da lì è tutta dritta, guardi, svolta a sinistra e arriva a Roma Termini in un attimo che c’è l’happy hour.

C’han più cazzi per casa che spazzole in bagno.
Trombamici, rimorchiate alcoliche, vibratori, colleghi, mia-familia-povra-aiuta-mia-familia, ex compagni di scuola, personal trainer, baristi, postini, banane. Ognuno di noi ha attraversato le trafficate lenzuola della fase sono pazza e libera, ovvero quando ti trovi ad infilare il tuo pene dentro un’isterica schizoide che oggi ti vuole come amico, domani in lacrime urla il tuo nome sotto la pioggia, nel weekend ti sussurra “dai vienimi in faccia” e lunedì sostiene che deve stare un po’ di tempo da sola.

Poi arriva S.Valentino: tre messaggi, tutti da uomini impegnati.
Tante grazie, Sex and the city.

14. Quattro arditi incursori

La giornata era iniziata bene. Dieci di mattina, un prato francese con un albero. Ci stiamo sbarbando nel sole d’agosto dopo aver preso il necessario in un minimarket. Il parabrezza come specchio, quattro idioti con le Lucky Strike in bocca che si dilaniano la faccia insaponata con acqua dalle bottiglie ricaricate nei cessi. Sole, insetti e fili d’erba fluttuano nella brezza d’estate accompagnati dai nostri peti mattinieri. Distendersi su un prato a godersi il viso sbarbato quando hai tutta la giornata davanti lo rende ancora più piacevole, chiudo gli occhi mentre il bruciore del dopobarba cicatrizza il massacro sanguinolento che ho al posto delle guance. 

Alle mie spalle, all’ombra dell’albero, li sento stronzeggiare in sottofondo. Cicale. Rare macchine distanti. Estate in tutto il suo spensierato splendore. 

«GUARDA, NEBO, GUARDA!» arrivano, gaudenti. 
«Che cosa ce ne facciamo di un ananas, adorabili idioti?» 
«Abbiamo mangiato l’interno e l’abbiamo riempito di batida» 


Ieri avevam fatto spese, ma ero rimasto fuori a fare la guardia al finestrino bucato. 

«Entrate in supermercato e sputtanate la grana del nonno in superalcolici da sbarbi?» 
«Macché, Atza l’ha rubata mentre Solero pagava» 
«E volete bere il coccoananas drink più gay del mondo alle 10 di mattina? Magari pucciandoci dentro la banana? Porca puttana, non ho mai visto niente di così frocio, avete superato voi stessi» 

«Ma chi vuol berla, l’abbiamo trasformato nel bong definitivo» 





«Avete fatto un chilom con un ananas e l’avete riempito di Batida?» 
«Affermativo, comandante»
«Questa specie di monumento alla droga tropicale verrà caricato di superskank made in Holland, collezione privata» dice Solero, stranamente espressivo, mostrando un cellophan da pacchetto di sigarette contenente la perla del nord. Con le lacrime agli occhi, iniziamo. Venti minuti dopo siamo sbiellati come capre che farnetichiamo in stato confusionale. 

«LLLAH SPHAGNA, FRATELLI» biascico sbavando «CIHOE’ SPSCI POTREBBE SCHOPARE PERSINO SILVIO, IL SILVIO DEL CHAZZO, GNAHA HA HAHAH HA HA» 

«Questa è esagerata» 
«Non è vero, potrebbe farcela benissimo. In Spagna mica è come qui. Là trombare è come… non so, tipo stringersi la mano» 
«Sì ma un idiota resta sempre un idiota. Secondo me il padre l’ha cresciuto male apposta per ridere. Cristo, sta in pronto soccorso perché s’è tranciato la lingua con la carta dello yogurt, voglio dire»
«E’ vero?» chiede Solero. 
«Sì. Leccando la stagnola di una confezione di yogurt Silvio è quasi riuscito ad amputarsi la lingua. La cattolicissima madre racconta l’accaduto ai vicini come una disgrazia che poteva capitare a chiunque e che ora sta tutto nelle mani del Signore, che delega al chirurgo» 

«Santo Dio» 

«Sì, mica è nuovo a questo genere di imprevisti, eh? Dio nella sua immensa bontà tentava in tutti i modi di chiamarlo a sé. A sette anni tutti i bambini giocavano con le spadine di plastica, ma lui transitando in cucina notò che il coltello da macellaio della mamma era grande uguale ma brillava di più, così lo sostituì. Quando la madre scoprì il tragico scambio partì con la rabbia di uno scattista nigeriano e riuscì a fermare il figlio un attimo prima che interpretasse davanti ai suoi amici una scena di seppuku da premio oscar» 

«HA HAHAHA HAHAHA SILVIO HAHAHA HAHA ODDIO L’HO SEMPRE SAPUTO» 

«Aspetta. A dieci anni riceve una mountain bike per il compleanno, ci sei? Stava pedalando sul ponte di via Einaudi quando gli viene un’illuminazione, ovvero che se avesse girato il manubrio in fretta di novanta gradi la velocità l’avrebbe fatto ruotare su sé stesso come una trottola!!!11!!!» 

«Solo che… ASPETTA, solo che il momento più opportuno per farlo gli parve mentre alle sue spalle transitava il 21 per Maerne. L’autista vede Silvio che senza motivo apparente viene catapultato verso l’alto dalla propria bicicletta impattando di faccia in centro carreggiata. Per evitarlo sterza invadendo l’altra corsia, disintegra la staccionata ed invade i giardini, son venuti persino i giornalisti della Tribuna di Treviso a far fotografie, ne avranno parlato per una settimana» 

«HAHHA HAHA HA HAHAHA HAHAHA» 

Ripartiamo verso mezzogiorno. La strada scorre tra campagna ordinata e solitaria, il panorama è sempre uguale. A sinistra osserviamo il mare che si perde, isole che lo spezzettano, gabbiani. Quando Solero urla, Ario sbanda. Per la prima volta il contrabbandiere ha cose da dire. Spiega. Nelle mie orecchie c’era solo la risata indotta dal THC mentre lui ci spiegava divertito un’idea geniale indicando un posto da fighetti rincoglioniti. Haha, sembra divertente. Haha, sì, è possibile. Haha, troppo ganzo, bella, sarebbe davvero da ridere. Quando ritorno lucido è sera e siamo distesi su una duna. Osserviamo ragazzi urlare ed ubriacarsi su un molo davanti ad un campeggio privato. La sola luce proviene da un faro puntato sul cancello che porta all’interno del camping. Gente che entra, gente che esce. 

«Non mi preoccupa entrare, alla peggio ci rimbalzano. Quello che mi preoccupa è uscire» 
«Almeno sei sicuro?» 
«Ho la faccia di uno che non è sicuro?» ringhia Solero «Sappiamo che là dentro c’è il camper. Dove c’è il camper, c’è lo zaino» 
«Solero, DEVI essere sicuro» 
«C’ho messo IO lo zaino, ho visto l’adesivo a trenta centimetri dal naso. Stesso disegno, stesso nome. Magari sono qui e magari no. In tutti i casi è l’unica possibilità che abbiamo» 

«Ricapitoliamo, il piano è infiltrarsi in un campeggio che ha il logo uguale ad un adesivo che hai visto sul camper dei teteschi, passare la notte a cercare se c’è, nel caso rapinarlo e fuggire?» 

«Sì. Siamo ragazzi qualsiasi tra ragazzi qualsiasi, non ci sgamano» 
«Siete fuori di testa» 


E’ inutile discutere. Solero parte. Ario lo segue. Io ed Atza possiamo solo aggregarci. In silenzio, a passo svelto, ci accodiamo ad un gruppo di tizi e tizie sbronzi. Saliamo i gradini di pietra, oltrepassiamo il cancello e lo sguardo del guardiano. C’è un pavimento di mattonelle che scende, scompare dietro una siepe e si trasforma in un viale alberato tra fiori, aiuole e piazzole. Lampioncini e steccati in legno. Piscina. Questo posto è gigantesco. Continuiamo a camminare tra gente che non parla la nostra lingua. Vediamo un TOILETTE ed abbiamo tutti e quattro la stessa idea. C’è un intera costruzione finto caraibica per i bagni, una fila interminabile di rubinetti e specchi, wc e docce. Atza ha in mano un depliant stropicciato che ha raccolto da terra. 

«Gesù» sussurro «quanto grande è ‘sto posto, par Gardaland» 
«150.000 metri quadrati, da quel che capisco di inglese» balbetta, passandomelo. 
Guardo. 

«Quanti posti ha?» domanda Solero. 
Io non ci volevo venire in Spagna. 

«Nebo? Quanti posti ha?» 
«3.700 persone» 
«QUANTE?!» 
«Eh» 
«Calcolando che sono le 23, abbiamo una macchina nascosta nella pineta, siamo intrusi in un camping a quattro stelle sconsiglio di stare qui dentro fino alla mattina dopo. Finché è notte e c’è gente in giro siamo irriconoscibili, appena vanno a letto siamo fottuti»
«Sullo scartafaccio c’è una mappa?» 
«Una specie» 
«Fa vedere» 

Studiamo per qualche minuto. 

«Va bene, è divisa in settori. Noi siamo qui, ai cessi. Ci dividiamo e ci ritroviamo ogni ora per assicurarci di essere vivi, svegli e sapere quando abbiamo trovato i bastardi» 
«E se non li troviamo?» 
«Continuiamo a cercare» dice Solero piantandomi occhi di ghiaccio nell’anima «Nebo, tu vai qui » 
«Perché io?» 
«Perché sei tu che hai avuto l’idea della madonna» 

Me ne vado domandandomi se si riferisse alla dogana o al viaggio. Me ne vado attraverso il buio di una terra sconosciuta, in una notte straniera, senza amici né donne o parenti, armato solo dei miei diciassette anni. In francia un italiano che sta andando in spagna cerca dei tedeschi, mormoro. La luna piena, nel cielo, aspetta la fine della barzelletta.

Tieni quei bottoni lontani da me



Trieste o la ami o la odi, io l’ho amata fin dal primo giorno. 

Ti trovi all’interno di questa piccola roccaforte tra mare e montagne fatta di palazzi decadenti, parcheggi inesistenti, strade con salite e discese da pista nera, malati mentali ovunque e bora a 180 chilometri orari. 

A Trieste per strada una donna potrebbe cominciare ad urlare che le dovete ridare i venti milioni che vi ha prestato. Un vecchio cammina, vi guarda, scuote la testa, rallenta, poi scatta di testa contro il muro, cade per terra sanguinante e in lacrime: così imparate, svizzeri maledetti, piange rotolando per terra.



La vita universitaria a Trieste nel 2001 era nulla. A parte minuscoli locali che venivano smantellati in breve tempo da anziani incattiviti la sola possibilità di vita sociale erano le cene. Quella sera la mia ragazza dell’epoca, Sara, mi ferma sulla soglia del suo nuovo appartamento. 

– Aspetta – dice iniziando a togliermi la giacca – Ha bottoni, alla Gioia fanno paura.
– Gna ha ha ha ha –
– Non sto scherzando. Ha la koumpounofobia –
– Sì, vabbè –
– KOUMPOUNOPHOBIA, la paura dei bottoni. Esiste. Adesso ti prego, evita d… EHI! –

Come il miglior Pelè la dribblo strappandole di mano la giacca, entro correndo e piombo nel salotto dove trovo Stanlio e Ollio versione femminile e una ragazza e io non so chi sia e improvviso e impugno la giacca e mostro il bottone e lo sporgo in avanti e AAAAGH, grida una. Mani sul viso, respirazione affannata e piagnucolante, hiiiii hiiii, per favore, hiiiii, hiiii, mi fanno paura. Rido felice. Sara mi tira per il braccio, ringhia insulti a denti stretti. Sono una bestia insensibile. Devo vergognarmi. Non posso capire. Non si ride dei più sfortunati, non sta bene. 

Pochi minuti dopo sono un lord inglese, ascolto la mia voce che si scusa tantissimo e che pensava fosse uno scherzo e che gli dispiace così tanto ma dentro di me sento l’aria sulla quarta corda di Bach, ho un cappello da esploratore sulla testa e guardo con eccitato appetito l’attrazione della serata: lei, Gioia da Treviso. Alta un metro ed un citofono, nervi che sembrano “00:03 TAGLIA IL CAVO ROSSO PER L’AMOR DI DIO”, Gioia è un paffuto bocconcino paranoide che durante la cena sussurra nulla con voce flebile. Le altre donne presenti sono Paolona, un pachidermico utero oltre il quintale iscritta a scienze dell’interculturalità e Silvia, uno stecco che non ricordo cosa studiasse ma 


– Principalmente sono batterista in un complesso noise, facciamo cover dei Marlene Kunz –
– Ah, bello!
– Daaaai, conosci i Marlene Kuntz?!

Temporeggio bevendo cabernet: – Sì, bè, il loro album precedente era più, come dire… ma perché parlare di cose settoriali, non trascuriamo Gioia – dico girandomi – o ti scoccia che attacco bottone, ha ha ha!

– No.
– Bene! Cosa studi, Gioia?
– Scienze politiche.
– Insomma vuoi finire nella stanza dei bottoni, eh?

La Sara stringe la forchetta fino a sbiancarsi le nocche. Tra atmosfera e mobilità la tavola sembra un crash test coi manichini dentro una cella frigorifera. Sento respirare una zanzara al terzo piano. 

– Divertente.
– Ma hai paura solo dei bottoni dei vestiti o anche di quelli tipo ascensore..? –
– Solo dei vestiti.
– E da quando?
– Da piccola.
– E’ una cosa innata o è legata a traumi tipo induzione Pavloviana, sai i cani che attaccano a sbavare quando sentono il campanello…

– Preferirei non parlarne.
– Eh, difatti mi sembri abbottonataaaaAHAHAHAHA ODDIO HA HA HA HAHAHAH

Sara porta pollice, indice e medio al setto nasale, poi chiude gli occhi. Fa un’espressione d’intenso dolore. Marlene Kunz smette di masticare e appoggia lentamente la forchetta sul piatto. La cicciabomba sarà tre volte che prova a dire qualcosa senza riuscirci. Mentre mi sbattevano fuori sono riuscito a tirarmi dietro la bottiglia di cabernet, faccio due passi, giro l’angolo ed eccomi qua –

Verso nel bicchiere di plastica, poi bevo un sorso direttamente dalla bottiglia.

– Bottoni, dici – ripete una voce roca.
– E tu invece come sei finito qui? – domando.
– A me m’hanno rapito i russi nell’89 – dice con tono greve Gino, barbone pazzo di parco della madonnina – facevo il giostraio.
– Racconta –

Trieste o la ami o la odi, io l’ho amata fin dal primo giorno.

Martina cuore Davide



Mestre d’estate è una copia di Racoon City: silenzio, deserto, corpi per terra, pochi zombie arrancano gemendo nell’umidità al 92% con 30°. Gli umani sono a Jesolo, un mondo migliore dove il mojito è la bevanda dei campioni e se giri in mezzo alla gente la conversazione femminile più colta è “questa settimana ho succhiato così tanti uccelli che sto cominciando a sudare sperma”. L’estate scorsa c’era una seminuda che tra le risate delle amiche tastava il cazzo ai passanti urlando “solo il più valoroso di voi cavalieri avrà il privilegio di scortarmi al castello”. 


Incontro Martina alle 10 che sto andando in spiaggia ed è tutto un MACCIAO e MADDAI e MASSAI, cosa fai, come stai? Haha! Bello! Io invece sai, haha, bello! E le vacanze? Haha, hai più rivisto i vecchi compagni di scuola? Te la ricordi la Manuela, che faceva ballo fin da bambina, quella coi capelli rossi? Haha, sì, quella! 

– Sì!
– S’è suicidata!
Morte. 

– Eh, ma era diventata strana, naziskin, per me era un po’ lesbica.
– Cosa vuol dire naziskin un po’ lesbica?
– Che si era tagliata i capelli tipo te, faceva paura.. 
– Vabbè ma scusa, cosa c’entra ch
– Dei capelli? Chemioterapia.
Silenzio. 


– E’ un farmaco contro la depressione – spiega.

Annuisco. Stiamo zitti qualche istante. 

– M… – inizio. Mi fermo, ci penso: – Ti va un caffè?
– Ma è tutto chiuso!
– Abito qua dietro.
Silenzio. 

– Tranquilla, non ti copio i compiti.
Niente. 

– Scherzavo?
– AAAHahahahah!

Il culo è miracolosamente intatto, penso sfiorandone l’accesso principale con il medio. Ci sono persone che appena le guardi in faccia sai che sbaglieranno casello per il Telepass. Martina, corporatura esile, capelli biondi stopposi e finissimi incorniciano uno sguardo ottuso, bestiale. Quando ti ascolta sporge la testa in avanti, labbra lievemente schiuse a far vedere i dentini. Sbatte le palpebre ripetutamente. Vacui, assenti occhi da poiana ti scrutano senza capire. Come un cane abbandonato in autostrada, il cervello di Martina vede idee e pensieri sfiorarla a 230 chilometri orari. Lei tenta di inseguirli abbaiando, ma vanno troppo veloci. Lenta, serena, annusa una carcassa sul ciglio della strada. Si domanda cos’è, come è arrivata lì e perché ha del pelo così uguale al suo: “Forse ho capito” pensa. VRROOOAAAAAM. 

No. 
Niente. 
Proviamo aVRROOOAAAAAM. 

E’ impossibile trombare Martina senza sentire una qualche affinità con Buck di Kill Bill, ma profani il più sacro dei suoi buchi dicendoti che su carta è legale. E’ maggiorenne, consenziente e tecnicamente in grado di intendere e di volere. Fai scempio del suo utero dicendoti che è per il suo bene, perché in giro non c’è un’anima e questa sarebbe capace di commettere gesti inconsulti tipo noleggiare film di Vanzina o calarla a chiunque le rivolga la parola senza insultarla. Andiamo avanti tutto il pomeriggio in due posizioni e varianti, ma pecorina no perché è da puttana. Quando la riaccompagno a casa in 600 le dico che potremmo rivederci qualche volta. Risponde che è improbabile perché ha il ragazzo. 

– Scusa?
– Te lo ricordi Davide, quello della 5°F?
– State ancora insieme?
– A-ha.
– Maa…

Mento, palpebre. Flap flap flap flap. 

– Vabbè, fa niente, allora –

Chiude la portiera della mia 600 nel bel mezzo dell’estate 2004. La guardo andare via nel fresco della sera. Oggi un’amica comune mi informa che a marzo la dolce coppietta convolerà a nozze. Congratulazioni, Davide!!1!

13. Maracaibo

La mattina è un cinguettare di rumori domestici, odore di albergo e caldo estivo. Dormire in un letto dopo quattro giorni di sedili d’auto è la cosa più bella vi possa capitare. Fuori non c’è una nuvola, il cielo è azzurro come solo l’estate di un diciassettenne sa dipingere. Mi sveglia Ario, calci sul fianco. Postpongo con un cazzotto in centro petto. Si allontana. Cinque minuti dopo ritorna alla carica gettandomi un gatto addosso. Prendo la bestia e la rilancio verso la porta. Gnaulìo offeso.

«Gli altri?» mugugno contro il cuscino.
«Fan colazione.»
«Con?»
«Caffè su moka ed è grasso che cola» dice girando l’angolo.

M’infilo in fretta nei vestiti, scendo. La colazione è silenziosa, baciata dal sole del mattino e vigilata dallo sguardo del padrone. Facciamo qualche battuta per ridurre l’eccitazione del pagare qualcosa lavorando lì, sul momento, lontano chilometri da casa. Prima la legnaia, perché il fresco della mattina ancora resiste. Già alle 11 sarebbe stata dura. Organizziamo i compiti in modo meccanico, siamo ancora addormentati. Ci tiene compagnia una radiolina che manda pezzi qualsiasi di musica italiana permettendoci di fare gli idioti più del solito. Dopo un’ora ho legna fin nelle tasche ed i bicipiti che pulsano quando Ario esordisce: «Che dice la tizia?»

«Quale?»
«La musica, il testo, cosa dice?»
Ascolto: «E’ Maracaibo. Raffaella Carrà.»
«Noo-o-o, è di Lu Colombo» interviene Atza.
«Sì, ma il testo di che parla?»
«Cosa ne so, AC/DC per sempre.»
«E le Spice?»
«Vaffanculo.»
«MI DITE DI COSA PARLA ‘STO PEZZO O NO?»

«Allora» sospira Solero «Maracaibo è in Venezuela.»
«E fin lì…»
«Fin lì cosa, Nebo, te è un miracolo se sai che Berlino è in Germania.»
«C’è questa tizia che balla nuda al Barracuda, un locale che te lo raccomando. Si suppone lei faccia la puttana ma non è così; sta sotto copertura, parla inglese e francese e traffica armi con Cuba, probabilmente guerriglieri indipendentisti e roba simile» continua Solero.

«Salta fuori che è sua madre» sussurra Atza.

«E’ innamorata di un certo Miguel, che però sta sempre in Cordigliera.»
«Una sala giochi?»
«Montagne. I trafficanti si nascondevano nelle grotte tra le ande, sennò li sgamavano e li fucilavano»

«Sì, ma c’era Pedro»
«Appunto, siccome Miguel sta in montagna lei se la fa tenere calda da Pedro, probabilmente un cubano che le lappava la passera sulle casse di nitroglicerina.»
«Questa te la sei inventata.»
«Tu scoperesti sulla nitroglicerina? No, fai casino, ti agiti ed esplodi»
«Quindi?»
«Quindi o lei gli staccava bocchini o lui le lucidava il grilletto, ma tant’è»

«Forse era rispetto, insomma lui non la scopava davvero, stavamo sui preliminari.»
«Se uno scartabella le grandi labbra a tua morosa t’incazzi di meno se invece te la tromba?»
«Bè, tecnicament
«STICAZZI, tanto Miguel li sgama e spara quattro colpi alla tizia.»

Esce dalla porta il padrone, piove il silenzio, il volume di lavoro aumenta. Sta a guardarci, ci informa che se vogliamo bere c’è la pompa dell’acqua. Ringraziamo.

«L’ha presa bene, il buon Miguel.»
«Eh, lei però sopravvive.»
«Con quattro colpi in petto?»
«Sennò la canzone finiva, ti pare? Lei decide di scappare perché appena Miguel verrà a sapere che è ancora viva la cercherà per finirla. Il mare è impraticabile però lei s’imbarca. La nave non ce la fa, si spezza l’albero e finisce in acqua.»
«Ma è una tragedia, pare Pollyanna!»
«In acqua c’è un pescecane.»
«Pure.»
«Il pescecane la morde, non l’uccide. Lei riesce a tornare a terra. Tempo più avanti la ritroviamo che pesa 130 chili, fa la pappona, gestisce uno strip bar con 23 mulatte e nuota nel rum e nella cocaina. Ancora oggi se sei gentile con lei ti fa vedere la ferita dello squalo. O forse ti si scopa, per quanto scopare 130 chili sfregiati non debba essere come impalare Pamela Anderson.»
«Pareva tanto allegra…»
«Anche questo viaggio pareva tanto bello prima che diventassimo i protagonisti di un film sul contrabbando di droga e il lavoro minorile.»
«Si dice minorato, mia madre ne parla sempre» corregge Atza.
«E ti guarda dritto negli occhi, vero?»

A mezzogiorno abbiamo sistemato la legnaia che pare un plastico in miniatura. Un piatto di pasta, coca e caffè, la pausa pranzo è allegra e socievole mentre fuori qualche turista mangia toast e gelati. Non abbiamo molto da dire, impegnati come siamo a metabolizzare le curiose sensazioni che proviamo. A metà pomeriggio la cantina è ordinata e gli sguardi dei proprietari sono molto più benevoli. E’ strano come vedere qualcuno che fa fatica lo renda rispettabile. Le carte d’identità ci vengono restituite. Spingiamo fuori la 127 che somiglia sempre più ad un rottame, la coppietta sta sul davanzale a salutarci. Appena le molle del sedile sprigionano l’odore di muffa, piedi e fumo tutto mi torna alla mente. Il viaggio. Il finestrino rotto. L’inseguimento. La dogana. Lo zaino. La

«La… Aspetta» dico.

Macchina ferma, la coppia dei gestori sulla porta, tutto immobile.
«Cos’hai?»
«Mi sembra di ricordar qualcosa che dovevo… ieri sera, prima di addormentarmi.»
«I soldi? I vestiti? Il gatto? Atza che russava? Io, me l’hai succhiato che dormivo?»
«No, era qualcosa di diverso…»
«I bagagli? L’auto? La Francia di merda?»
«I TEDESCHI!»
«Che tedeschi?»

Apro la portiera. Corro a vedere il parcheggio sul lato destro della locanda. Niente. Entro. Chiedo alla cicciabomba che mi guarda confusa: se c’erano tedeschi? Sì, sono partiti la mattina sulle 11 mentre noi facevamo la legnaia. Per dove? Non sa. Addio. Adesso abbiamo quasi un giorno di distanza, non sono certo fossero loro e chissà dove stanno andando. Rientro in macchina senza dare spiegazioni. La locanda sul porto ci saluta dal lunotto posteriore alle 16 di pomeriggio del quinto giorno. La 127 arranca in salita, risale sulla strada principale, il fiume di macchine c’inghiotte.

Nel mio curriculum vitae la prima esperienza lavorativa è magazziniere presso la locanda La belle oie, Montecarlo, Monaco, agosto 1997.