15. Serenata francese

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In Francia di notte fa freddo. Le champs elisée, il roquefort, il foile gras non hanno scritto sulla confezione questa cosa.

Siepi ben potate, bungalow, camper, tende. Buio, silenzio assoluto. In sottofondo appena percepibili i sifoni delle piscine e le grida dei tizi in spiaggia. Portate dal vento, sono a malapena una eco. Riesco a sentire il suono delle biciclette dei guardiani con grande preavviso, mi distendo dietro una siepe e sto immobile. Passano. Mi rialzo e continuo a cercare. Ora, non giudicatemi, ma in Francia fa freddo ed io avevo solo una canottiera azzurra ed un paio di bermuda. Uno trova un paio di pantaloni lunghi stesi, poi magari una maglietta, poi un’altra che i ragazzi avranno freddo, ehi guarda che belline ‘ste Puma, un’ora dopo torno alla base e scopro che siamo una compagnia di altruisti.

«Vedo che abbiamo avuto la stessa idea» dico.
«Tanto sono rovinate»
«Questo non gli serve, ne avevano due»
«Io gli ho preso le braghe ma gli ho lasciato le mutande»
«Te cos’hai, lì?»
«Te la do per il borsone dell’Adidas»
«Però mi dai anche la canotta»
«Se dentro il borsone ci metti le foto di tua madre»
I bagni diventano rapidamente un mercato marocchino.

Barattiamo spensierati, quando un vociare all’esterno ci mette in allarme. Scattiamo nei cabinotti dei bagni a schiera in ordine sparso, silenzio assoluto. Arriva un piagnucolìo maschile, due o tre tonfi di porte che sbattono, urla di disperazione mescolate a gorgoglii.

«ODDIO MAI PIU’» piagnucola la voce, in italiano «MAI MAI MAI MAI».
Squaglio di diarrea. Sforzi di vomito. Peti liquidi. Sputi. L’uomo continua a piagnucolare tra un boato e l’altro che risuonano nel silenzio assoluto. Tre minuti, torna la quiete: «Calma» si dice con accento del sud, annaspando «calma calma calma». Rumori, la porta che si apre. Cammina piano verso i rubinetti. Acqua scorre, sputi. Un’altro sforzo di vomito, sputi. «Calmo, Luci, calmo. Mai più. E’ una botta. Hai provato, basta. Mai più. Non sei gay. Non sei gay. Non. Sei. Gay».
Il mondo è cristallizzato nel silenzio.
Seeeeei ricchioooooooneeeeeeeee, sussurra una porta.

«CHI C’E’? C’E’ QUALCUNO?» grida l’uomo.
«SIGNORE, NO, SIGNORE» risponde un urlo «QUI NESSUNO, SIGNORE».

Contro ogni mia volontà esplodo inorridito da me stesso, seguito a ruota da Atza dall’altra parte, poi Solero ed infine Ario. Le porte si spalancano ed usciamo con le convulsioni tra un carnevale di asciugamani, felpe, magliette. Ci troviamo di fronte ad un tizio qualunque, che prima tentenna e poi fugge. Appena riusciamo a riprendere fiato per questo episodio ributtante, decidiamo di mollare la refurtiv gli oggetti abbandonati e ricominciare a cercare in quel campeggio che non fa più paura. Il camper lo trova Atza al secondo giro. Perde una marea di tempo a trovarci tutti. Quando arriviamo davanti a noi c’è la roccia di Odissea nello spazio. La colonna sonora è quella. Perquisiamo inutilmente l’esterno, nulla.

«Potrebbero averlo messo dentro»

Solero sta già scavalcando la finestrella posteriore, perché nel 1997 non esistevano arie condizionate e dormivano tutti a finestre spalancate e zanzariere. Prima intravedo la flebile luce di un accendino, poi quella decisa di una torcia elettrica. Ci sta dentro meno di due minuti senza fare alcun rumore. Mette fuori la testa, la scuote e scende. Non c’è. Siamo incerti sul da farsi e più l’alba si avvicina più il nervosismo sale. Non abbiamo facce che corrispondono ai clienti ideale di un campeggio a quattro stelle in costa azzurra. L’unica è che siano in spiaggia. Avremo un’ora al massimo prima dei primi risvegli, se sono ancora lì saranno fatti come draghi e stanchi. L’importante è uscire dal campeggio prima che il presagio di chiarore diventi un tequila sunrise. Senza dire una parola torniamo nei bagni, ficchiamo tutto nei borsoni e ci dirigiamo verso l’uscita . Percorriamo il vialone dove ci aspetta lo sguardo del guardiano, ma molto meno inquisitorio di quello che lancia a chi entra. Testa bassa, passiamo nell’indifferenza.

Alle cinque di mattina avanziamo noi quattro sulla sabbia, diretti verso l’unico gruppo di ragazzi che ancora strimpella chitarre e bevicchia attorno ad un falò. Siamo davvero stanchi, la sabbia sembra polvere di piombo ed ogni passo ci costa fatica. Una volta lì non so cosa diremo nè cosa succederà, non so nemmeno se siano loro. Mi giro verso il cancello che abbiamo appena passato. Non ho la forza di preoccuparmi, lo dico e basta.

«Fioi, vi ricordate il tizio del bagno?»
«E’ al cancello che parla coi guardiani. Indica verso di noi»
«Non giratevi, tirate dritto» sibila Atza «è ancora troppo buio perché ci vedano, qua in fondo»
«Tanto siamo fuori dal campeggio, non possono farci niente».
«Era vero, se non fosse per la roba che abbiamo in spalla»
Una doccia gelata ci investe.

«Cosa facciamo? Molliamo i borsoni e corriamo?»
«FIOI, COSA FACCIAMO?»
«Auf wiedersehen, adieu, goodbye… ha ha ha, Franz! Bestimmel kartoffeln von krat, ach so! Ha ha ha!» ridacchia il tizio con la chitarra, mezzo morto, a nemmeno sei metri da noi. E’ stravaccato sulla sabbia tra una valanga di cadaveri, bottiglie vuote, legname vario e cartacce. Dal cancello i guardiani vengono nella nostra direzione, uno parla nel walkie talkie. Solero non vede niente di tutto questo.

Vede lo zaino.
Poi tutti i pezzi del puzzle vanno al loro posto.