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Non mi sto evirando, sto facendo poesia in movimento.



Nel 1970 l’umanità era ingenua.
Per “ingenua” non intendo le universitarie che nel 2012 deridono quella che non ha ancora provato la doppia penetrazione. Era ingenua del tipo “se nei film la gente vola si può volare davvero”.

Quando al cinema sbarcarono i primi film su arti marziali e combattimenti vari ai monaci del tibet iniziarono a piovere lettere che supplicavano di imparare a lanciare onde energetiche, fermare spade con le mani e saltare cascate. A nulla valsero le smentite o le notizie sui giornali di un idiota che si era ucciso tentando di fermare un treno col pensiero. La gente voleva credere a quello che aveva visto al cinema perché lo aveva visto. Si chiama wishful thinking: ciò che vorresti fosse vero, che sarebbe bello fosse vero, diventa vero.


Oggi parliamo del parkour. 

Nel 2005 tra un gatto che suona il pianoforte, una petizione online ed un documentario indipendente che smaschera complotti iniziano a circolare video di tizi che fuggono da una parte all’altra della città eseguendo piroette, capriole, balzi spettacolari. “Ooh, merdaviglioso, ma km fanno?!” si domanda il popolo. La risposta “con il montaggio” non viene presa in considerazione. No, da qualche parte nel mondo devono esistere uomini che impiegano le loro giornate a correre per le città imparando a dominare gli elementi urbani. Guerrieri della notte, acrobati, ladri guasconi che scippano i ricchi per poi sparire nella giungla di cemento rimbalzando tra carcasse di automobili e palazzoni abbandonati. I video raggiungono un numero mostruoso di visualizzazioni.

“E’ lo sport del nuovo millennio” tuonano blogger ed opinionisti.

E’ vero.

Così come noi palestrati chiamiamo sport quello che in realtà è il più bieco narcisismo spesso condito da insicurezze e tendenze compulsivo ossessive, il parkour è il passo successivo. Non mi sforzo nemmeno di sollevare me stesso o un peso: fuggo. Sì, fuggo. La fuga come scelta di vita. La fuga nel senso più epico del termine. La fuga che oltrepassa buonsenso, intelligenza, razionalità, giudizio. La fuga che riporta l’uomo allo stato scimmiesco, quando davanti al predatore urlava “ho moglie e figli, mangiati loro” e fuggiva per chilometri ferendosi, mutilandosi e fratturandosi pur di essere altrove. La fuga del pianista della Costa Concordia, il quale appena sono saltate le luci è scattato attraversando la plancia facendosi largo a testate, ha guadagnato il parapetto massacrando coppiette, si è tuffato dall’undicesimo piano atterrando in acqua a cazzo dritto, ha percorso 150 metri a nuoto emergendo sull’isola con un sonoro “WAAAAA!” ed è entrato in un bar chiedendo se poteva telefonare a Schettino, che era ancora a bordo. Tempo totale impiegato, 3 minuti. In una sola azione quell’uomo ha polverizzato Usain Bolt, Tania Cagnotto e Federica Pellegrini. Questo è lo spirito del parkour.

Non deve quindi stupire che tale disciplina abbia origine dall’esercito francese. 

– Questo è il mio sport, dice il precario.

– Anch’io posso essere così, dice il cicciottenne vergine.
– Fuggire, sempre, pensa la commessa H&M che ha lasciato l’università.

Stregati da questi capolavori di montaggio video i migliori idioti del mondo decidono di alzarsi dal mac e fuggire. Le città ed i parchi si popolano di ebefrenici che corrono nel modo più faticoso possibile scavalcando ringhiere, infilando finestre, rimbalzando sui muri, saltando dai tetti, scivolando sui cofani, dribblando siringhe e creando scompiglio tra famiglie e coppiette. Hollywood inserisce il parkour in film tipo Banlieu 13 o Casino Royale e per un anno tutti si impegnano ad emulare la giornata media di uno spacciatore magrebino, ma senza i carabinieri dietro. Escono videoclip spettacolari con musica incalzante e parole romantiche. Il parkour è “poesia in movimento”.
Poi, il dramma.
Su youtube cominciano a circolare le versioni non montate. Mostrano imbecilli che tentano di saltare da un cassonetto all’altro decine di volte senza successo. Su tre, uno finisce nella monnezza, uno deraglia contro la ringhiera e precipita nel vuoto, il terzo aggredisce lo spigolo con i denti riuscendone sconfitto. Una donna tenta un’agile capriola contro un muro e con un piede decapita un bambino, con l’altro si fracassa a terra mentre il padre del pargolo la raggiunge con un randello per finirla. Un ciccione tenta il colpaccio saltando la piscina vuota con una piroetta, in sette a tentare di disincagliarlo dalle maioliche. Giggino detto “o’ marrano” fa il brillante su per una grondaia che si stacca di netto facendolo precipitare nel canile sottostante con rumore di bomba. Gli abusi edilizi diventano teatro di tragedie evitabili quanto esilaranti, dove centinaia di studenti fuoricorso incontrano il loro destino impalandosi su ringhiere, piallandosi il naso, castrandosi in modo acrobatico e rimbalzando fuoricampo dove trovano la morte. I video che testimoniano questa carneficina di focomelici aumentano di numero fino a superare quelli della “poesia in movimento”. 
Improvvisamente il parkour non è più così attraente. Hollywood decide di non metterlo più nei film. I geni che si erano inventati la professione “maestro di parkour” tornano a fare la professione iniziale, chi il topo d’appartamento, chi lo spacciatore, chi lo stupratore.
La poesia in movimento trova il suo posto nel dimenticatoio vicino ai negri ammazzati dal fascio, al ragazzino che gridava “sono un collega”, a Sakineh e al motivo per cui qualcuno ha un angolo del proprio avatar colorato.
E’ un giorno qualunque, in Internet.

Alla monta delle contadine di Codroipo vado solo per ballare

 

Tra le innumerevoli palle che una donna dice ad un uomo nel corso della vita la più longeva è io vado in discoteca solo per ballare. Generazioni di padri hanno visto le loro figliuole andare al Camerun festival “solo per ballare” e con quale sconvolto afflato hanno poi tenuto loro la mano al pronto soccorso mentre il medico spiegava che il prolasso anale è ormai irreparabile ed urge operare, giacché la piccina rischia di cacarsi l’intestino nelle mutandine di Gucci.

“Com’è possibile?” tuonano i giornali, scandalizzati. Com’è potuto succedere che una studentessa con le amiche a Ibiza sia tornata con il perimetro della fica pari alla falla della Costa Concordia? Com’è possibile che il responsabile sia poi fuggito con una moldava? Tragiche fatalità, il sistema, la società degenerata? Certo. Ma non bisogna sottovalutare che se la figlia avesse una password alla fica sarebbe “password” ed assieme alle amiche “12345” e “admin” hanno deciso di entrare ad una convention di programmatori Linux. Non bisogna sottovalutare che in discoteca si va solo per drogarsi e scopare.

Il problema è che la verità sta alle donne come la Guardia di finanza a Cortina. Le donne hanno orrore della verità. Quando ci esci la prima volta dicono che non vogliono figli, dicono “decidi tu, è lo stesso”, dicono che in un uomo guardano “le mani e gli occhi”, che le dimensioni non contano, che hanno avuto solo 7 morosi e che dopo cena vogliono pagare la loro parte.

Dicono anche di guardare Spartacus per la trama.

 

 

 

tumblr_mxx92vwAeF1ra8bl1o1_500La trama.

 

Secondo questo principio indossano minigonne da colonoscopia, nastro isolante al posto del reggiseno, tacchi uso Excalibur, tanga commestibile, trucco ispirato alla bukkake marathon international award 2009 ed al posto della cintura una bandoliera di preservativi con cui si fanno autoscatti mimando di avere un microfono in mano, ma sia chiaro: vanno in discoteca solo per ballare.

Se sei un gestore lo sai.

Per riempire la tua bettola bisogna salvare le apparenze. Non puoi chiamare il tuo locale “drogatoio 69” o “la monta delle contadine di Codroipo” perché nessuna donna ci metterà piede. Devi usare nomi tipo Showroom, VIP club, Deca-dance, King’s, Mojito, Just Cavalli. Se fai serate a tema nessuna verrà ad un titolo come “le mie palle, il tuo mento” perché ti rovina il finale. Se però la chiami “notti d’oriente” falangi di ventitroienni si catapulteranno all’interno seguite da ogni maschio in età riproduttiva disposto a giocarsi lo stipendio un gin lemon dopo l’altro. D’altra parte cosa potrebbe spingere impiegati con suv a rate trentennali in questi posti, se non la danza? Il leggero suono dei passi sul pavimento, le melodie celestiali, gli sguardi che in un lampo comprendono il passo, ne improvvisano le traiettorie, si intersecano in un turbinio di braccia e gesti senza tempo.

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La vita delle donne che bazzicano questi luoghi è un inferno di sensi di colpa. Non solo perché a trent’anni sono talmente usurate da accorgersi di aver partorito solo quando inciampano nel cordone ombelicale, non solo perché al posto del vibromassaggiatore ormai devono usare dildosauri, ma perché trovare giustificazioni morali diventa via via più difficile. L’ultima linea di difesa è che un vestito o un atteggiamento “non vogliono dire niente”. Certo. Immaginate di essere per strada, davanti a voi dei tizi escono da una banca sparando. Vi riparate dietro un angolo e vedete un poliziotto che sta controllando la patente ad uno. Gli correte incontro.

– Presto! Stanno facendo una rapina, sono armati!
– E perché lo dice a me?

– Lei è un poliziotto!
– Oh? E perché? Perché ho una divisa? Perché ho una pistola? Certo, a quelli come lei basta vedermi in uniforme e subito pensate che io debba PER FORZA essere un poliziotto, giusto? Invece sorpresa, sono il meccanico dell’officina Favazzi&figli.
– Ma… controllava le patenti!
– Perché, non si può? A me piace chiedere alle persone di farmi vedere la loro patente. E’ il mio hobby, va bene?
– Aveva la divisa!

– Io mi vesto come mi pare e piace, se permette. E’ un problema SUO se non sa riconoscere un poliziotto vero da uno finto. Arrivederci.

C’è una sola cosa che le donne odiano più della realtà.
La logica.

Made in Libia



















WTF, Libia?
I nostri Servizi segreti continuano ad organizzare pizzate per capire come mai non sono riusciti a prevedere che ai nordafricani scoreggiasse il cervello. Gli sarebbe bastato andare in qualunque discoteca. Le condizioni della Libia pre guerra sono ottime. Il regime nel 1970 usa il petrolio per costruire un welfare coi controcazzi. Case, auto, posti di lavoro, benefici. Perfino quelle fighette dell’UNICEF dicono che la Libia sta bene. L’aspettativa di vita è di 74 anni per gli uomini e di 77 per le donne. Il tasso di alfabetizzazione è del 95% tra gli uomini e del 78% tra le donne. La spesa complessiva annua passa dai 27,7 MLD$ del 1998 ai 93,2 MLD$ nel 2009. Nella graduatoria dello sviluppo umano passa dalla 182° posizione alla 55°.
Non sono dati da guerra civile. 
Per entrate, la Libia ha lo stesso PIL della Norvegia. 
Solo che gli stronzi non sono mai contenti e la stampa invece di guardare i progressi fatti rispetto al passato fa paragoni con altri stati arabi. Essendo loro appena 6 milioni e avendo sotto il culo un patrimonio in petrolio dovrebbero essere “come e meglio di quello che crediamo sia Dubai dai depliant turistici dai contrasti elevati e le modelle con l’airbrush”. La corruzione dilaga assieme alla sensazione il governo preferisca favorire stati esteri invece del proprio. Molti libici fanno almeno due lavori per vivere, uno dei quali è quasi sempre statale dove gli stipendi sono congelati al 1981. Non ci sono case, ne servirebbero almeno 540,000 in più. 
Nel 2003 le sanzioni ONU vengono sospese. Tutti i benefici derivati finiscono a figli e parenti di Gheddafi che monopolizzano salute, edilizia, turismo ed energia. L’umore dell’opinione pubblica peggiora quando Wikileaks rivela come i Gheddafi’s attingano dal tesoro per cazzeggiare in alberghi a sette stelle con troie e champagne. 
Basta questo a scatenare una rivoluzione?
Direi di no, altrimenti in Italia staremmo a spararci dal ’92. 

Secondo i nostri i motivi della rivolta libica vanno cercati nel razzismo e nell’avidità. La Libia non è mai diventata uno stato moderno che fotografa gatti e litiga su Facebook. Oggi come cento anni fa è suddivisa in clan, dette “cabile”, che si scannano per la spartizione dei soldi provenienti dal petrolio. Non c’entra nulla l’Islam. Per quarant’anni tribù e famiglia di Gheddafi dominano le rivali, poi negli ultimi anni i rapporti s’imputtanano. A Bengasi, città che tradizionalmente lo detesta, il raiss nel 1996 reprime una rivolta causando 1200 morti e nel 2006 ne aggiunge altri 14. Un nome incarna tutte le cose che Gheddafi detesta, quello dell’avvocato Fethi Tàrbel, un attivista per i diritti umani che da anni chiede un risarcimento per le famiglie delle vittime delle stragi. 


Gli rispondono di fare moderata attività fisica e bere molta acqua.



Come inizia? 

Il 15 febbraio l’avvocato Tarbel viene arrestato con una scusa qualunque, tipo che ha rubato un Mars in tabaccheria. I bengasini s’incazzano ed esaltati da quello che sta succedendo in Egitto si presentano al commissariato chiedendone la liberazione. La polizia risponde qualcosa tipo “il più grande è Allah, di Dio ce n’è uno/Tàrbel sta qua, voi andate affanculo”. Quelli fanno un sit-in fino a tarda notte, poi finisce in scazzottata come tutte le serate interculturali. 
Il 17 febbraio visto che l’altra volta si sono tanto divertiti decidono di replicare, ma questo giro si presentano armati di Kalashnikov, RPG e granate: aprono il fuoco contro la Guardia Presidenziale e crepano in sessanta. La Libia cessa di esistere in quel momento.

Dove hanno preso le armi? 

Le hanno grattate. Molti reparti dell’esercito appartengono alla stessa cabila dei ribelli o sono gli stessi militari che cambiano bandiera. Gheddafi, tuttavia, è un ottimo stratega, conosce bene il proprio paese ed i suoi uomini. Sa che l’esercito è inaffidabile, così in questi anni l’ha addestrato male apposta per ridere. Gli lascia dei rottami, non li addestra e lascia proliferare corruzione e assenteismo. Sa che in caso di problemi ci sarà la sua guardia presidenziale, un’élite di fedelissimi a cui nel 2008 ha regalato 5 milioni di euro tra fucili e pistole dal Belgio. I primi scontri sono perlopiù soldati che accoppano soldati e straccioni che partecipano con entusiasmo perché “ce sta da fà m’po’ de casino”. Poi sai come vanno queste cose, l’entusiasmo si propaga, un drink tira l’altro, a volte tua figlia torna dalla Spagna incinta, a volte in Libia scoppia la guerra civile.

La guerra 

Il 20 febbraio è ormai chiaro al mondo che non si tratta di un matrimonio troppo vivace. Fonti esterne parlano di un centinaio di morti, altre di diecimila. Saif al Islam, il figlio più scemo di Gheddafi, dice in TV che verranno fatte delle riforme importanti per il paese. La gente lo ignora. Quando anche a Tripoli iniziano a scoppiare focolai di rivolta il variopinto raiss in persona fa un discorso breve e conciso: “Potete manifestare dove volete, tranne che nelle strade e nelle piazze o vi ammazzo tutti”. A quel punto il mix di disertori, voltagabbana e ribelli danno fuoco alla sede della TV cantando “ma che ce fregaaa, ma che ce ‘mportaaaa” e dal 21 febbraio i caccia libici iniziano a bombardare le scettiche piazze trasformandole in un’enorme grigliata mista. Il bilancio dei morti sale. Due aerei disertano e, armati di tutto punto, invadono lo spazio aereo di Malta atterrando e chiedendo asilo politico. 
L’ONU si riunisce per far due chiacchiere sull’argomento mentre in Libia si sparano pure tra salotto e tinello. 
Il 24 febbraio Tripoli è assediata su due fronti, ma proprio quando sembra che il casino si concluderà per l’ora dello spritz Gheddafi riesce a reclutare un gruppo di mercenari, detti “dogs of war”. Sono un misto di miliziani del Ciad, ex berretti rossi di Milosevic e qualche scarto della Legione Straniera. Gente abituata a saccheggiare, uccidere, stuprare, rubare e distruggere. Pigliano 30.000$ per ogni giorno di battaglia e 10.000-12.000$ per ogni ribelle ucciso. Hanno a disposizione arsenali di prim’ordine come aerei, carri, batterie missilistiche e antiaeree, artiglieria pesante. 
In una settimana dei ribelli rimane un po’ di marmellata.
Gheddafi si fa vedere in TV dicendo che la Libia è perfettamente calma e promette un bagno di sangue se un solo occidentale metterà piede in Libia. Gli aerei continuano a bombardare i nostri amati straccioni, decimandoli. Si fa largo la possibilità che i ribelli non ce la facciano. L’occidente capisce che a parte fargli le multine e togliergli l’amicizia da facebook bisogna sporcarsi le mani. Comincia a lavorare per l’istituzione di una no-fly zone, che di fatto interromperebbe i bombardamenti sui civili. 

Cos’è una no fly zone? 

E’ un ombrello. Prendo la cartina, ci faccio un cerchio, tutto attorno sistemo batterie antiaeree, fregate o portaerei e ti dico che se voli qui dentro ti raccolgono col cucchiaino. Funziona? Dipende. Buona parte della guerra oggi è basata sul bluff. Con la Libia che ha schierati dalla sua parte Russia e Cina non è il caso di mettersi ad abbattergli quei cessi con cui volano. L’obiettivo è farglielo credere. Quelli si avvicinano e testano le difese, ci provano ma poi scappano, via così. Questo giocondo “un due tre stella” a base di missili dovrebbe distrarli dal bombardare i ribelli che da soli al massimo gli tiravano sassi usando i preservativi come fionda. 
Il 28 febbraio il Pentagono riposiziona parte della propria flotta al largo delle acque territoriali libiche. Sono lenti e i ribelli non si stanno divertendo. I francesi (dichiareranno solo dopo) paracadutano al largo di Misurata acqua, viveri e 36 tonnellate di armi e munizioni.

Servono a poco, da sole.

E noi che facciamo? 

Noi? Per ora niente, smacchiamo coccinelle con aria distratta e quando nessuno ci vede recuperiamo i nostri connazionali sul suolo libico, sennò poi arrivano i peggio rincoglioniti tipo Gino Strada a dire che bisognerebbe lasciar fare Gheddafi perché la guerra è sempre brutta. Siamo tutti consapevoli che un mondo senza armi è possibile, che il dialogo, la tolleranza ed il rispetto reciproco sono la sola cosa giusta da fare e che noi italiani non siamo assolutamente portati per fare operazioni di infiltrazione, sabotaggio ed assassinio in territorio straniero. Siamo portatori di pace.

Davvero?

Sì. Pace eterna. Gli mandiamo le nostre forze speciali.
L’articolo per L’Espresso inizia da qui.
Incursore del COMSUBIN dopo 72 ore di scontri a fuoco
ininterrotti a Bala Murghab, Afghanistan, agosto 2010
Nicolai Lilin dopo un servizio fotografico per Vanity Fair.

Metterti le piume nel culo non fa di te una gallina

Scrivere un articolo su un’azione del COMSUBIN è ambizioso e difficile.

Da un lato si rischia di scadere nella retorica da istituto Luce, dall’altra di affondare nell’abisso dei tecnicismi tanto cari ai fanatici di armi ma che annoiano tremendamente le persone normali.

Come si fa? Semplice. Si prende un giornalista con esperienza nel settore e lo si affianca ad un consulente militare. Se il giornalista è bravo ed il consulente è competente può venire un pezzo della madonna.

Oggi, però, non corriamo questo rischio.

La redazione dell’Espresso, per raccontare la missione dei nostri incursori, ha scelto l’elite del giornalismo estero: Nicolai Lilin, un tatuatore ceceno residente a Cuneo le cui millanterie sono già state irrise. Siccome il giornalismo italiano già di suo ha l’affidabilità di un diciottenne che scopa senza preservativo, integrare questo esperto non può che suscitare ilarità.

Leggiamo insieme.

“Quella notte di fine agosto nella città presa dai combattimenti tutto era particolarmente cupo, tombale.

Nell’abisso della ragnatela dei vicoli stretti non arrivava nemmeno un vago raggio di luna, nessun riflesso del cielo, anche se quella notte era così ricca di stelle che sembrava un tappeto persiano con ricami d’oro.

[…]Ogni tanto il soffio del caldo vento africano, una leggera corrente accarezzava la pelle vicino ai passaggi che conducevano a un sistema di comunicazione segreto, collegando i cortili interni e i sotterranei di tutta la città.

Da qualche parte in quei vicoli oscuri, nascosti dentro le nicchie, aspettavano la loro ora i vendicatori di Muammar Gheddafi: cecchini stranieri, killer venuti da tutto il mondo per fare soldi impugnando i fucili contro il popolo in rivolta.”

È un inizio della madonna per il quarto capitolo di Sex and the city con Samantha che si fa montare da qualche ragazzino a pagamento. O per l’ennesimo libro etnico che fa sgrillare le cinquantenni radical chic tutte cibo equosolidale e marito milionario.

L’atmosfera è fascinosa ed inquietante, ideale per una tresca harmony. La giovane e bellissima Karima El Mahrug si fa strada per raggiungere l’alcova del suo amante, invece sorpresa! entra un incursore e li ammazza tutti.

Contro di loro bombe e missili erano inutili, anzi peggio: avrebbero solo fatto strage di civili tra le case dove si appostavano come forse è accaduto diverse volte nella guerra di Libia”.

In che senso?

Forse è accaduto una, forse duemila, forse mai?

Siamo forse di fronte alla nuovra frontiera del giornalismo: l’informazione ipotetica? Perché se è così, allora Repubblica era avanti di trent’anni rispetto agli standard. Proviamo ad applicare questa formula a un problema di tutti i giorni:

– Tesoro, ti sei trombata il panettiere?
– Caro, forse è successo molte volte.

“C’era un solo modo per toglierli di mezzo: sfidarli a duello, uomo contro uomo, fucile contro fucile”.

Se state inorridendo davanti a quest’aberrazione di retorica machista è perché manca la frase “pene contro pene”.

I più scafati diranno “hey, ma questo non era su Il nemico alle porte? Sì, ma state leggendo le fantasie omomilitariste di un tatuatore ceceno su L’Espresso.

Cosa v’aspettavate?

“Tra loro c’erano anche militari italiani, a cui è stata affidata una missione di cui nessuno vuole parlare e che nessuno confermerà mai: ufficialmente il governo Berlusconi ha mandato in Libia solo 20 addestratori. Invece Ale, un incursore della Marina Militare, ha combattuto tra i palazzi di Tripoli “

COCOCOCOSA? Operatori delle forze speciali italiane sono impiegati in Libia? No, impossibile. Come fa a saperlo? Dopotutto ne ha parlato l’anno scorso soltanto la Gazzetta del mezzogiorno, Affari italiani, Internazionale, Sole 24 Ore, La Stampa, il New York Times e a questo punto probabilmente pure il Papersera. Lilin deve avere fonti pazzesche. Del resto questo è il giornalismo 2.0, dove se c’è la parola BERLUSCONI è fondamentale dire la qualunque, tanto è molto probabile sia andata così.

Ale è un operatore del COMSUBIN, i leggendari commandos italiani: non aspettatevi un colosso con i muscoli scolpiti, come tutti gli uomini del suo reparto sa nascondere le sue virtù

“[…]I cinque avevano sempre serrati nelle mani i mitragliatori Ar 15 con silenziatori di ultima generazione: ogni raffica è poco più di un sibilo perché nell’umidità libica il vento trasporta i rumori molto velocemente e può tradire la posizione di chi spara.”

Tralasciamo l’utilità di questa informazione. Tralasciamo che confondere una scarica di fagioli con una raffica di AR 15 mi sembra difficile. Ma che il vento faccia muovere il suono più in fretta mi sembra azzardato, mastro Tatuator. Dico per me, eh? Però, a spanna, la frase “la velocità del suono è 331 m/s con vento favorevole” mi suona un po’… cecena, diciamo.

Ma magari sbaglio.

Magari sono lì, mi sto facendo tatuare il triangolo di Daiapolon sopra il cazzo, e lui alza la testa dicendo “sai, la velocità del suono è relativa”, io ho una crisi di meteorismo sconvolgente, mormoro “l’oscurità splendente diverrà con te” e svengo tra le sue braccia.

Chissà.

Quegli Ar 15 però servono solo per evitare sorprese; i ferri del mestiere sono altri, custoditi in zaini saldati sulle spalle: potentissimi fucili con mirino ottico.

Ah, un mirino ottico. E non, come un profano potrebbe pensare, un mirino olfattivo o uditivo. Questi straordinari fucili hanno un complicatissimo sistema che spara dove guardi.

“Bisogna attraversare cortili ed entrare nelle case, facendo attenzione a non strappare il filo con il quale è fissato il detonatore delle bombe a mano che spesso i civili lasciano sulle porte delle loro abitazioni prima di andare a dormire per paura di lealisti e sciacalli”.

Nononono ferma. Aspetta.

In Libia, ogni sera prima di andare a dormire, collegano una bomba a mano alla propria casa? Cioè questi vivono in case di fango con porte di cartone e mobili in guano, però siccome hanno paura che gli rubino i tappeti di capra collegano una bomba alla porta?

È la cosa più simile al deterrente nucleare delle baraccopoli che ho mai sentito. Se il ladro apre la porta kaWHAM! non esiste più il salotto, il crollo del tetto ha sterminato i tuoi 23455 figli ma hey, almeno muori seppellito con il tuo prezioso tappeto.

Sono curioso di conoscere le tecniche anticoncezionali, a ‘sto punto.

Tu pensa il figlio guerrigliero. Corre a casa, apre la porta: “Papà! Sono tornato! La guerra è finiWHAM! Oppure la moglie. Deve andare a pisciare fuori a tarda notte, è assonnata, apre senza pensare, WHAM! Una tempesta di sabbia che fa sbattere la porta, WHAM!

“Era necessario muoversi leggeri ma anche evitare di farsi ammazzare dai ribelli, in preda all’euforia della rivoluzione: ogni straniero era sospetto. Davanti a tutti camminava il legionario francese, che parla l’arabo e conosce le parole d’ordine degli insorti”

«Chi è?»
«Ouì, je suis unne legionaire, abbiamo Nutella, je ripetè, abbiamo Nutella. Permesso?»
«NO!»
WHAM

“I cecchini si erano dedicati al loro gioco preferito: colpivano una persona alla gamba sparando altri proiettili a vuoto, in modo da non mostrare la loro abilità e far sottovalutare il pericolo.

Poi aspettavano che qualcuno si muovesse per soccorrere il ferito e lo centravano; sempre alla gamba, sempre simulando tiri inesperti.

In situazioni del genere, quando vedi un amico che implora aiuto mentre perde fiotti di sangue, si fatica a ragionare.

Ma in questa maniera i cecchini riescono a decimare interi plotoni: solo alla fine, sfoggiano la loro perizia e finiscono le vittime con un colpo alla fronte”.

«Oh Dio, hanno ferito Jussuf! Vado ad aiutarlo!»
BANG!
«Oh Dio, hanno ferito Ahmed che andava ad aiutare Jussuf! Vado ad aiutarlo!»
BANG!
«Oh Dio, hanno ferito Said che andava ad aiutare Ahmed che… aspetta, non mi freghi, mi nasconderò dietro quella port
WHAM!

A questo punto i libici sono la risposta umana del Dodo.

Se è vero che interi plotoni si sono fatti fucilare come tante paperette uno dietro l’altro e i civili si autodistruggono la casa, forse la Libia era destinata ad essere popolata solo da scorpioni e cammelli.

Il trucco del cecchino è vero e plausibile, ma quando hanno impallinato due tizi con lo stesso modo persino Renzo Bossi fiuterebbe il trappolone.

Non in Libia. Oh, no. I libici procedono ordinati, compatti. Uno dietro l’altro, facendo buffe coreografie, i ribelli si ammassano uno sopra l’altro. Magari è vero, che ne so io.

“Bisognava eliminarli prima dell’alba. […]Ale e i suoi sono passati in fretta attraverso l’ultimo spiazzo, accompagnati con sguardi pieni di curiosità e una specie di solidarietà dei ribelli, poi si sono divisi”.

Ma non ho capito, ‘sti ribelli sono contenti o no? È una cosa legata alle mestruazioni? Cioè, prima devi stare attento a non farti vedere, poi ti guardano con curiosità e solidarietà, poi ti sterminano a mitragliate?

“La coppia di marines si è piazzata sul tetto, il francese e l’inglese sono entrati in un altro cortile.

Ale si è spostato più avanti di tutti.

E’ entrato in un appartamento con il mitra spianato e si è trovato davanti una famiglia terrorizzata: li ha tranquillizzati con qualche parola d’arabo ed è salito al secondo piano”

Secondo me la famiglia era terrorizzata perché non sapeva se Ale aveva disinnescato la porta d’ingresso. Momenti drammatici con questo che entra, dice “nutella, nutella” e se ne va di sopra con loro che si aspettano da un momento all’altro l’intero edificio esploda.

“In fondo a un corridoio buio e stretto si è imbattuto nel cadavere di una vecchia donna abbattuta davanti alla finestra, che stringeva tra le mani una coperta. Probabilmente la poveretta aveva tentato di coprire il vetro ma il cecchino si arrabbia sempre quando si accorge che qualcuno vuole fregarlo e l’ha ammazzata”

Adoro come ogni singola frase sia una speculazione, un’illazione o una semplice fantasia.

Cioè, con questo livello di fatti, l’articolo lo poteva scrivere un Kookaburra.

Ora a quanto pare, in Libia, le vecchie con una coperta fanno incazzare i cecchini. Se invece fai il bravo, i cecchini ti lanciano caramelle e ti lasciano in pace, ma guai a rifare il letto. Muori lì, con la coperta in mano.

IL MAESTOSO KOOKABURRA

“Era ora di prepararsi al duello. Con una fatica enorme, ha spostato il corpo della donna e lo ha coperto con un tappeto.” 

Lilin qui non descrive il volto rigato di lacrime dell’incursore. “Questa è per te, sconosciuta vecchia” sussurra coprendola con l’unico patrimonio della famiglia, il tappeto di capra per cui generazioni di cammellieri hanno dovuto far detonare la propria abitazione assieme a braccia e gambe di vicini che chiedevano zucchero, zii in visita e gatti troppo intraprendenti.

È il momento del duello, ora.

“Poi ha messo un comodino accanto alla finestra, vi ha poggiato la sua arma – una Remington 700 Police – e si è seduto nella sua posizione di tiro.

Ha appoggiato il calcio sulla spalla e ha provato il cannocchiale: tutta la facciata della casa di fronte si vedeva perfettamente.

Ha calcolato distanze, umidità, vento e poi ha dato il via libera: “Sono pronto”.

Il silenzio è importantissimo, ma Ale è un incursore del Comsubin e detesta l’arredamento mal disposto.

Decide di passare all’azione.

I colleghi col dito sul grilletto, i nemici nella casa di fronte ma no, quel comodino lì non deve stare. È orribile. Telefona col satellitare criptato alla sede del comando Ikea trasmettendo l’immagine.

Confermano, così non va.

Lì non esalta lo spazio, frena la luce e contravviene alle regole del feng shui. Bisogna spostarlo sotto la finestra. Ale lo prende, tira svegliando tutto il quartiere che dorme: lllà, perfetto.

Ora appoggia il calcio del fucile sulla spalla e non se lo inserisce nel culo come molti potrebbero pensare. Per Lilin la frase “imbracciare il fucile” era troppo KU KU KU KAW KAW KAW KAW KAW.

Vi state chiedendo perché uno dei nostri migliori reparti abbia acconsentito a farsi ritrarre da costui?

Non siete i soli. Poi m’è venuta in mente la risposta più logica: quante volte ha intervistato il Papa, Scalfari? Decine. Quante erano vere? Nessuna. È cambiato mai qualcosa? No. Qualcuno l’ha deriso o ha protestato? No.

Perché i giornali non li legge più nessuno? Mistero.

“I nemici si sentivano tranquilli e sparavano più volte prima di cambiare finestra: un errore madornale.

Dal tetto l’ufficiale dei marines ha assegnato i bersagli: uno per ogni tiratore, che avrebbe aspettato la prima sparatoria dei ribelli per aprire il fuoco senza tradirsi”

Non tradirsi?

Se li ammazzo tutti contemporaneamente, da chi è che non mi devo far sgamare? Dalla famigliola di sotto che mi ha visto salire con un fucile? Secondo me già sospettano Ale non sia l’uomo delle pulizie.

Poi non è il suono che ti fa sgamare, è il lampo dello sparo. Se per strada sento un colpo e un tizio cade per terra senza testa non ho idea da dove abbiano sparato; il suono rimbalza, ha eco, riverberi.

Se vedo la fiamma sì.

“Pochi attimi dopo si è librata nell’aria una lunga raffica di mitragliatrice pesante, che l’imperizia dei ribelli ha diretto in alto illuminando il cielo con le scie folgoranti dei traccianti confuse tra le stelle.

Ale non ha visto quell’uomo, lo ha percepito: una sagoma opaca nel buio profondo, che anni di addestramento gli avevano insegnato a distinguere”

Lo ha… percepito. Il marines quando gli ha indicato il bersaglio ha detto “uè, spaghettios, punta la strumentazione auditiva verso la cascina dei baluba là, come percepisci una roba spara a cazzo, cumprì?” e Ale ha puntato verso l’ipotetica direzione.

Come ha percepito un’ombra ha sparato.

Questi non sono incursori, è il sig. Bianchi di anni 86 con un fucile da caccia che trucida la nipotina in salotto convinto che sia un immigrato.

“Ha mirato al petto, ha trattenuto il respiro per un attimo e ha premuto il grilletto del suo fucile molto piano.

L’arma ha fatto un rumore profondo e potente e l’ombra nel mirino si è dissolta, come se fosse stata spazzata via da un vento compatto e denso.

Nell’auricolare quasi all’unisono i membri della squadra hanno confermato di aver colpito i loro bersagli, come se avessero sincronizzato pensieri, decisioni e movimenti”

I bagni della caserma incursori devono essere un bel casino.

“La notte arrivava alla sua fine, lontano all’orizzonte appariva la prima e sottile linea della debole luce.

Era il tempo di muoversi verso un altro bunker dei gheddafiani, per aprire un’altra porta alla rivoluzione.

Ale camminava per la strada, portando dietro le spalle l’arma e un enorme trafila di ricordi legati ai posti come quello, dove ogni giorno e notte qualcuno come lui impegnava le proprie forze e capacità per poter sentire sulla propria pelle il dolce soffio del vento della libertà. 

Un’altra notte, un’altra missione che né lui né i suoi compagni avrebbero mai potuto raccontare”.

…tranne a un tatuatore di Cuneo, chiaro.

La mia ipotesi

Uno dei millemila mitomani che gravitano attorno al mondo delle forze armate è andato a farsi fare un tatuaggio. Qui ha incontrato il tatuatore a sua volta millantatore, e per tutta la durata del tatuaggio si sono rimbalzati cazzate clamorose.

Al termine, il tatuatore è andato da L’Espresso dicendo di conoscere segreti segretissimi degli assaltincursori del Colle Moschino. E siccome aveva l’accento dell’est, a L’Espresso gli hanno creduto. Così ecco qui un ottimo copione, se fossimo nella Hollywood del 1987.

Al Varignano, probabilmente, qualcuno ha le mani nei capelli.

La merda arriva sempre all’improvviso, preceduta da un arcobaleno




– Ogni mattina prima di entrare in ufficio bevo un caffè al bar di fronte con i colleghi. Due giorni fa decido che ho voglia di un cappuccino. Siccome sono in ritardo lo bevo in due sorsate, pago, esco. 

Appena metto piede fuori dal bar sento che qualcosa che non va. Forse è il gelo, forse è la fretta, forse un Alien durante la notte m’ha stuprato nella bocca, fatto sta che ho il fiato corto, un vago malessere all’altezza dello stomaco e strani gorgoglii. Minimizzo, attraverso la strada ed entro in sede. Prendo l’ascensore. Al terzo piano comincio ad avere delle fitte, nausea, sudori freddi. Al quinto ho i crampi allo stomaco e riesco a sentire chiaramente l’intestino sciogliersi. 

Letteralmente.
Proprio sento tutto il suo interno che diventa acqua. Tuoni al mio interno mi fanno capire che gli Oompa Loompa si sono ribellati e stanno mettendo a ferro e fuoco la mia fabbrica di cioccolato. 


Il mio ufficio è riadattato da un appartamento, il bagno è quello di una casa con tanto di vasca e bidet. Lo usano uomini e donne. Non posso permettermi di arrivare in ritardo, barricarmi nel cesso e nel silenzio generale emettere boati inequivocabili percepibili come scossa tellurica fino in Tessaglia. Tra l’altro Lorena, due tette e due labbra su un cervello da nutria, ha appeso festose decorazioni e simpatici gadget profumati al mughetto che mi scoccerebbe radere al suolo con il mio arsenale batteriologico. 

Specie se voglio ancora sperare di chiavarmela.

Faccio per girarmi, l’ascensore è già ripartito. Capisco di non poter aspettare o quant’è vero Dio mi cago addosso davanti a tutti. Prendo le scale, le faccio mentre sale il panico. Arrivo al piano terra che oramai grondo sudore, tengo il culo stretto che potrei strizzarci limoni e corro fuori. Il bar ha lo stesso problema dell’ufficio. L’unica soluzione è la sede del comune, di fianco. Dentro ci sono i cessi all’americana, quelli in fila separati solo da una tavoletta che lascia mezzo metro aperto sotto e sopra. Vanno benissimo. Mi precipito dentro e in una sola manovra degna di Houdinì spicco il volo: spalanco il portoncino, mi sbottono per atterrare già pronto alla deflagrazione… ed è il dramma. 

Avendo il culo sudatissimo appena tocco la tavoletta scivolo. Faccio per tenermi al bordo e la mano finisce dentro la tazza, incastrandosi. Con il braccio bloccato finisco per terra e il culo si pianta sotto il separée di sinistra dove, con un suono che mi ricorderò per tutta la vita, suona le trombe dell’apocalisse. Una cosa tipo BA-BAA. In quel momento dall’altra parte una donna urla, io non so cosa fare e urlo anch’io. Tonfi, rumori, strilli, passi di corsa, non riesco a capire né fare niente. Sono un cannone umano. Dopo trenta secondi d’inferno il culo borbotta, sputacchia, tace. Sto disteso in un cesso pubblico col polso fratturato che ansimo per qualche secondo, poi il cuore torna a ritmi umani, il dolore delle botte comincia a farsi sentire e mi rialzo. A fatica libero la mano. L’odore è intollerabile, saturo, disgustoso. Giusto per sapere cos’è successo do un’occhiata nell’altro bagno e rimango sconvolto.

Pare ci sia esplosa una bomba. 

Ogni centimetro della parete è contaminato, tranne – e qui te lo giuro su mia madre – la figura della donna. Il contorno. Tutta la parete è verdastro marrone tranne la sagoma di una accucciata sul water. Ma perfetta. Vedi gambe, busto, spalle, testa. Una fotografia. Intravedi persino che stava tenendo il telefono in mano. Mi pulisco con il terrore che qualcuno entri, sgattaiolo fuori e c’è un gruppo di persone che parlottano in corridoio. Capisco che sono preoccupati per qualcuno, siccome mi danno le spalle prendo l’uscita di destra e sono fuori. Però non mi lamento. Cioè, a quella donna è andata peggio. Sei in bagno del tuo ufficio, stai guardando Internet per i fatti tuoi e tutto ad un tratto dal nulla appare un culo che ti esplode merda addosso.










Io e la Leo lo fissiamo a bocca aperta.

– Ma è successo veramente? – chiede lei.
– No – stringe le spalle Lorenzo, il mio amico banchiere – mi son slogato il polso cadendo dalla moto. Ma mi hai chiesto tu di spiegarti la crisi economica in modo semplice.