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Due chiacchiere sugli F-35

Molti anni fa l’Italia traboccava di ebefrenici che ridevano come gibboni alla parola “bombe intelligenti” non sapendo assolutamente di che diavolo si parlasse. Quando dicevi che una bomba intelligente faceva la differenza tra un quartiere massacrato ed una sola abitazione distrutta ti guardavano rispondendo “GU?!”, ma tutti ridevano alla battuta di Zelig “la bomba è intelligente, ma se chi la lancia è un pirla?”. Siccome il livello di merda concernente l’acquisto degli F-35 ha oramai superato il livello di guardia ho deciso di scriverci un post. Volevo farlo in occasione della “giornata nazionale di mobilitazione contro gli F-35“, ma ho preferito far rivedere e correggere il testo da un pilota dell’aeronautica militare italiana, oggi colonnello. 


Colonnello, innanzitutto: cos’è un caccia F-35? 
E’ un caccia multiruolo di quinta generazione dotato di tecnologia stealth. 


Non ho capito un cazzo. 
E’ un caccia fighissimo che gli autovelox non possono vedere perché si è messo i CD sul cruscotto. 


Ok. Cosa vuol dire “multiruolo”? 
Prendi i bombardieri dei film che sganciavano 93838383 bombe. Ora prendi i biplani che sparavano con la mitraglietta, sommali a quelli di Pearl Harbour che sganciavano un solo siluro in acqua e scappavano, mettili tutti insieme ed avrai l’F-35. In pratica è in grado di A) Pattugliare i cieli ed intervenire rapidamente B) fare bombardamenti piccoli e mirati C) scortare e proteggere aerei da trasporto truppe 


Perché ce ne sono tre versioni? 
Perché dipende dove li usi. Se vai in montagna metti le gomme termiche, se vai sulla sabbia le sgonfi, se vai su sterrato pigli un fuoristrada con le ridotte. Dove dobbiamo usare questo aereo? Su una pista d’atterraggio comune? Su una portaerei? Su una portaelicotteri? Nella passera di Belen? Si fanno varie versioni: l’F-35A decolla normalmente, l’F-35B è a decollo corto e/o verticale, l’F-35C è fatto apposta per le portaerei. Per quello di Belen dicono ci sia troppo rischio di vuoti d’aria. Alla nostra aeronautica interessano 110 modelli “A” mentre alla nostra marina ne servono 21 modello “B”.


Quanto costano? 
Siamo sui 100-120 milioni di dollari, in euro saranno 90 milioni che per un caccia come l’F-35 è congruo. 


A me sembrano tanti soldi, in clima di recessione. 
E non hai visto gli alimenti che passo a mia moglie. In realtà non sono soldi veri, occhio. Tanti tornano o nemmeno escono, in questo caso. 


Non capisco. 
Gli F-35 hanno un ritorno economico per l’Italia. Le ali di tutti gli F-35 verranno costruite qui da Alenia Aeronautica (gruppo Finmeccanica). I caccia verranno tutti assemblati e collaudati a Cameri. L’industria della Difesa italiana ha grosse partecipazioni nel programma, non si tratterà solo di sborsar soldi agli USA. Tanti soldi resteranno qui da noi, anche perché questo programma ha un’anomalia. 


Ferma tutto: un F-35 non viene montato tutto in un posto? 
Manco per niente. Un paese dichiara “ho bisogno di un caccia nuovo, i miei sono da rigattiere “. Tutte le industrie aeronautiche del mondo progettano dei prototipi e li propongono. Questo giro ha vinto la Lockheed Martin, ma non è in grado di costruire da sola migliaia di caccia. Si fanno altre gare di appalto. L’azienda che garantisce tempi, standard e prestazioni migliori si aggiudica la costruzione delle ruote, un’altra quella delle ali, un’altra quello del software e così via. Poi si prendono tutti i pezzi e si mandano all’azienda scelta per assemblarli. Oggi è così per tutto. 


Perché non investiamo nella ricerca di nuovi tipi di aereo, tipo l’ornitottero? 
Devo risponderti?


Il meraviglioso ornitottero.

Senta, lei prima parlava di un’anomalia. Sarebbe? 
Di solito l’azienda vincitrice dell’appalto sceglie i subfornitori in base alla provenienza. Del tipo: “noi siamo auaragana, we want materiali and industrie from auaragana”. E’ stato così per i progetti dei Tornado e degli Eurofighter, il che ha moltiplicato i costi. Questo giro le subforniture verranno assegnate da Lockheed Martin solo ed esclusivamente in funzione della competitività dell’offerta. Un esempio per tutti: se Oto Melara presenterà la migliore offerta per il cannone riceverà il contratto per i cannoni di tutti gli F-35, non solo per quelli italiani. Il che, capisci bene, contiene di molto i costi di sviluppo e produzione. E’ una valanga di soldi e di lavoro che ci piove addosso. 


In Internet molti dicono che sia una mezza cagata di aereo. 
Sì, anche secondo me gli studenti di filosofia hanno troppo tempo libero. 


Riformulo: siti d’informazione anche seri dicono che l’F-35 abbia un sacco di magagne e che non possa competere con altri aerei tipo il SU-35 russo. 
Cazzate. Forse i prototipi, ma credimi. E’ un caccia strepitoso. 


Senta, abbiamo davvero bisogno di ‘sti F-35? 
Sì. La nostra aeronautica è bravissima a risparmiare, ma non si può chiederle di più. Per dirti, invece di comprare gli F-16 preferisce noleggiarli per tot ore di volo al termine delle quali li restituisce. Conviene. Per addestrare i piloti usa il più possibile i simulatori per risparmiare sul carburante avio. Le esercitazioni sono ridotte al minimo. Il punto è che la nostra flotta aerea ormai è da robivecchi. Abbiamo gli AMX che sono superati, i Tornado che si son comportati bene in Libia ma sono limitati nelle prestazioni e per finire gli Harrier sulla Cavour che sono ridotti ad un grumo di ruggine. Scusa, pensaci un attimo: tu per andare in vacanza ti fideresti a salire su un aereo di linea del 1970? 


Ricordo quando la nostra aeronautica aveva l’F-104 Starfighter, venivano definiti “le bare volanti”. 
No. Bare volanti viene dai giornalisti tedeschi di metà anni ’60, a quell’epoca arrivarono in un paio d’anni in otto paesi d’Europa qualcosa come 1200 F-104 supersonici, di classe e prestazion ben superiore ai velivoli militari della generazione precedente, per cui all’inizio si ebbero molti incidenti ma in quantità statisticamente non significativa.



F-104 Starfighter
In giro si dice che l’F-104 fosse un catorcio. 
Macchè. Il bilancio complessivo di 40 anni di utilizzo è molto positivo, con un rateo incidenti che è metà del Phantom, un quarto dei Mirage ed un decimo di Harrier e simili. Praticamente tutti coloro che hanno volato sul 104 ne hanno un ricordo molto positivo: chi ne parlava male o non ci aveva volato, oppure l’aveva fatto e si era cacato sotto. 


Lei ci ha volato? 
Parecchio. 


Mi racconta un aneddoto? 
Allora, devi sapere che ogni aereo – inclusi i civili – ha per motivi strutturali un maximum landing weight, ossia un peso massimo consentito per atterrare. E’ molto inferiore al peso di decollo, per cui non puoi fare altro che consumare carburante in volo prima di atterrare. 


Altrimenti? 
Esplodi. 


ESPLODI? 
Sì. Bum. Se ti ricordi nel ’99 c’era la guerra del Kosovo e gli F-16 all’atterraggio sganciavano i serbatoi ausiliari e/o le bombe d’avanzo in mare proprio per quello. Il problema erano i pescatori che le tiravano su con le reti e cercavano di aprirle per ciulare l’esplosivo, con prevedibili quanto pirotecnici risultati. 


Non ne so molto, colonnello, avevo 19 anni. Trombavo sbarbate e mi drogavo.
E perché hai smesso? 


Torniamo all’aneddoto. 
Già. Orbene, una mattina il maggiore XXXXX, napoletano, parte per un giro di ricognizione. Non appena l’aereo si solleva da terra la capote si stacca. Letteralmente, si stacca e vola via. Il maggiore si trova in piena accelerazione con il vento in faccia seduto su un missile tipo il Dottor Stranamore. Abbastanza alterato comunica alla torre di controllo il problema non senza difficoltà, giacché senza capote a 860 chilometri all’ora c’è qualche spiffero. La torre risponde che non può atterrare per le prossime due ore; carico di carburante com’è nove su dieci appena tocca terra diventa una palla di fuoco. Il maggiore non ha altre possibilità che volare in cerchio attorno alla base per due ore senza capote. 


Ma veramente? 
Eh, che doveva fare? Eiettarsi e buttare nel cesso uno dei nostri pochi caccia? Costicchiano. 


Mi dica che è finita bene. 
Sìsì. Ha fatto un atterraggio da manuale, è uscito dalla carlinga, ha lanciato via il casco e si è messo carponi a baciare la pista di atterraggio. Quando il medico della base gli è corso incontro da vero napoletano gli ha fatto i corni urlando “vade retro, dottòre”. Altre non sono finite così bene, ma capisci che se vogliamo far parte dell’Europa dobbiamo essere all’altezza. Non possiamo presentarci modalità Fantozzi che blinda la 500. Con gli F-35 siamo coperti fino al 2050. Altrimenti la volta che i caccia libici invece che sconfinare a Malta sconfinano in Sicilia gli mandiamo uno squadrone di ornitotteri disarmati e speriamo che i piloti nemici non riescano a mirare per le risate. 


Colonnello, grazie per il suo tempo. 
Te tromba, però, che se io avessi oggi la minchia che avevo alla tua età altro che articoli sugli F-35.

Una notte al Decadence fetish hospital



Arriviamo all’ingresso verso l’una. Io sono vestito da dottore, la Leo e la Fra da porno infermiere con tacco 569 e due miei amici che non hanno capito un cazzo e sono in camicia elegante con sopra un camice. In strada c’è una dark raggomitolata in posizione fetale, coperta da un cappotto. La coccola un emo dall’aria stravolta. In fila c’è uno con una calzamaglia a scacchi che gli copre il viso, un berretto da ufficiale nazista, bastone settecentesco e stivali borchiati. Escono due ragazzine sui 19-20 con addosso solo un perizoma, stivali di lattice, reggicalze e bustino. Una ha nastro isolante per coprirsi i capezzoli. Si mettono a fumare, ignorate da tutti.

– Dovete fare la tessera, vero? Di qua – fa il buttafuori indicando una porticina secondaria.



Dentro ci accoglie una mummia coperta di sangue con un collare di siringhe, due aghi che gli trafiggono le sopracciglia ed il cervello di fuori. A fianco c’è uno in pannolino e capelli blu, entrambi molto cordiali. Fotocopiano i documenti, ci fanno compilare il modulo e ci spediscono all’ingresso vero e proprio. Questo giro due travoni in abbigliamento da regine del deserto pigliano 20 euro a testa e rilasciano regolare tesserino.


– Signori buonasera, mi fate vedere il vostro abbigliamento, per favore? – chiede una donna.


Apriamo le giacche, ci ispeziona rapidamente, fa segno di entrare. Per capire l’atmosfera dovete immaginare Marilyn Manson che scopa Lady Gaga sul set di Mad Max. Ovunque infermieri e dottori sporchi di sangue, pazienti in fuga con cuore ed organi vari scoperti, zombie, un vero paralitico in sedia a rotelle, tizi vestiti in una versione gay di Neo, donne uscite da set di film porno, fruste, catene, aghi, ganci, tatuaggi. Dopo una fila per il guardaroba dietro a tre tizi vestiti da incursori raggiungiamo il bancone. Un havana cola 5 scudi. Sono appoggiato in attesa di pagare quando una donna al mio fianco mi avverte di stare attento al suo cane. Guardo verso il basso e c’è un tizio a quattro zampe con addosso solo una maschera da dobermann ed un paio di mutande in pelle nera. Prima che io riesca a dire qualcosa lei se ne va tirandoselo dietro per il guinzaglio. Lui la segue gattonando in mezzo al cacaio che c’è in terra.



– E’ tipo il posto più figo dell’universo – urla la Leo.

La Francesca è a bocca aperta, occhi sbarrati, sorriso estasiato ed occhio lucido della ventenne che ha appena avuto una botta ormonale. 

– Le cose che farei a quel dobermann – sogghigna.
Non approfondisco. 

Paolo e Frank li ho già persi nella calca. Armati di cocktail raggiungiamo la prima stanza dove una colonna sonora psicotica fa da cornice ad uno spettacolo non meglio definito. Ci saranno un centinaio di persone in cerchio. Dal mio metro e ottantatrè riesco vedere solo la faccia di una tizia che urla dal dolore, un ragazzo con camice e volto tatuato che armeggia su di lei e, sulla destra, un vero paramedico del SUEM che osserva il tutto. Chiedo ad uno spilungone vestito da spartano che stanno facendo.

– Operazioni senza anestesia –

Mi faccio largo tra la folla con il metodo diagonale, incredulo. La tizia sul tavolo operatorio è una moretta sui 25 anni con più piercing che capelli. Ha il braccio trafitto da una cinquantina di aghi, una ferita aperta ed il tipo che ci armeggia dentro con un bisturi. Le grida di lei sono coperte dalle casse che sparano suoni distorti e grotteschi. Il vero spettacolo è la faccia delle persone presenti. Su tutte spicca quella dell’unico vero infermiere del SUEM; occhi spaesati e perplessi di chi tra qualche minuto dovrà spiegare per telefono al chirurgo cardiovascolare cos’è successo prima che la tizia muoia dissanguata per essersi fatta recidere l’arteria brachiale per giuoco. 




Trascino via le ragazze e troviamo una stanza dove apparentemente si può ballare. La musica è trance o come cazzo si chiama, i tentativi di rimorchio sono pochi e garbati. Mi aspettavo le care vecchie scazzottate del 2001 all’Odissea di Quarto d’Altino, ma dopo mezz’ora che balliamo capisco che qui non potrebbe succedere niente del genere. Son tutti personaggi tranquilli di un’età che va dai 18 ai 50+. Abbastanza provati ritroviamo Frank e Paolo che si stanno rimorchiando due lolite goth. Li lasciamo lavorare e vaghiamo esplorando. C’è uno coperto di catene con un cilicio che sanguina. Una vestita da suora con il culo di fuori. Decine di dark dall’aria assente. Passando, uno in giacca e torso nudo mi annusa. Saliamo una scala e dopo cinque minuti di attesa entriamo nella bondage room, musica rilassata ed una donna sui 40 legata con otto milioni di corde ad una gabbia d’acciaio. Un individuo dall’aria sinistra la gira, le frusta la fica, la appende. Uno vestito da militare sta ciucciando i capezzoli di una quarantenne aggrappata ad una ringhiera. Attorno le persone bevono e chiacchierano, disinteressate. 

Nei posti che ho frequentato una cosa del genere avrebbe scatenato un putiferio di urla, insulti, derisioni ed inevitabili risse. Qui no, forse perché sotto tutto quel trucco ci son davvero occhi miti e intelligenti. Ci sono buone probabilità io sia l’unico non laureato in tutto il locale.




La barista, una lesbo hardcore con la testa rasata e le lenti a contatto rosse, la sta buttando alla Leo insistentemente. la tiro via per l’orecchio. Scendiamo le scale e troviamo una ressa composta ma scalpitante di fronte all’entrata di una stanza guardata da due travestiti che indicano e ripetono insistentemente questo:



– Voi quanti siete? – domanda.
– Tre –
– Falli passare. Entrate, entrate –
– Momento, che c’è là dentro? – chiedo.

Mi sorride: – Dai, dottore, non farmi l’ingenuo, eh? Hahahaha!

Ha, ha, ha. Cazzo ride? La stanza è piccola, musica tecno bassa, separée e penombra quasi impenetrabile. Sui divanetti vedo un tizio grosso come un armadio che si tromba a pecorina una alta si e no un metro e cinquanta. Un uomo con la cresta sta facendo un pompino ad un altro con una maschera da cavallo. Cerco le ragazze che si sono messe contro il muro. Le raggiungo stando attento a dove metto i piedi.

– Guarda, non è per cattiveria, ma nel culo proprio non mi entra – spiega scocciata una voce femminile alla mia destra. 

Guardo. Sta cavalcando un paziente fasciato. L’altro, un goth coi capelli lunghi, rinuncia alla doppia penetrazione, torna davanti e le mette il pistone dell’amore in bocca. Tutto è bene quel che finisce bene. Usciamo dalla darkroom dopo una decina di minuti. Ho un improvviso bisogno di bere e di fumare, così piglio un gin lemon e raggiungo l’uscita dove trovo i miei due compagni che proseguono la loro opera rimorchiatoria. Bisogna dire che qui dentro è un terno al lotto, non puoi mai sapere se poi finite in bagno e quella papparappà, ha la sorpresa.





Alle 5.20 di mattina ho la malsana idea di andare da solo nel bagno delle scale, dove c’è una versione hardcore della darkroom e qualunque cosa viva scopa qualunque altra cosa viva su qualunque posto. C’è una seduta a gambe aperte su un orinale che si sta facendo sifonare dalla copia sputata dello storpio di Pulp fiction. Ci credo che non si può entrare con animali, qui dentro dopo una certa ora rischi che si scopino pure quelli.

Arriviamo in albergo barcollanti, di Paolo e Frank non abbiamo notizie fino al mattino dopo quando ci telefonano dicendo che è andato tutto bene, erano donne.


Nel complesso concordo con la Leo: è il posto più figo dell’universo. Fanno eventi in media ogni due settimane. Appena posso ci torno.

Non mi sto evirando, sto facendo poesia in movimento.



Nel 1970 l’umanità era ingenua.
Per “ingenua” non intendo le universitarie che nel 2012 deridono quella che non ha ancora provato la doppia penetrazione. Era ingenua del tipo “se nei film la gente vola si può volare davvero”.

Quando al cinema sbarcarono i primi film su arti marziali e combattimenti vari ai monaci del tibet iniziarono a piovere lettere che supplicavano di imparare a lanciare onde energetiche, fermare spade con le mani e saltare cascate. A nulla valsero le smentite o le notizie sui giornali di un idiota che si era ucciso tentando di fermare un treno col pensiero. La gente voleva credere a quello che aveva visto al cinema perché lo aveva visto. Si chiama wishful thinking: ciò che vorresti fosse vero, che sarebbe bello fosse vero, diventa vero.


Oggi parliamo del parkour. 

Nel 2005 tra un gatto che suona il pianoforte, una petizione online ed un documentario indipendente che smaschera complotti iniziano a circolare video di tizi che fuggono da una parte all’altra della città eseguendo piroette, capriole, balzi spettacolari. “Ooh, merdaviglioso, ma km fanno?!” si domanda il popolo. La risposta “con il montaggio” non viene presa in considerazione. No, da qualche parte nel mondo devono esistere uomini che impiegano le loro giornate a correre per le città imparando a dominare gli elementi urbani. Guerrieri della notte, acrobati, ladri guasconi che scippano i ricchi per poi sparire nella giungla di cemento rimbalzando tra carcasse di automobili e palazzoni abbandonati. I video raggiungono un numero mostruoso di visualizzazioni.

“E’ lo sport del nuovo millennio” tuonano blogger ed opinionisti.

E’ vero.

Così come noi palestrati chiamiamo sport quello che in realtà è il più bieco narcisismo spesso condito da insicurezze e tendenze compulsivo ossessive, il parkour è il passo successivo. Non mi sforzo nemmeno di sollevare me stesso o un peso: fuggo. Sì, fuggo. La fuga come scelta di vita. La fuga nel senso più epico del termine. La fuga che oltrepassa buonsenso, intelligenza, razionalità, giudizio. La fuga che riporta l’uomo allo stato scimmiesco, quando davanti al predatore urlava “ho moglie e figli, mangiati loro” e fuggiva per chilometri ferendosi, mutilandosi e fratturandosi pur di essere altrove. La fuga del pianista della Costa Concordia, il quale appena sono saltate le luci è scattato attraversando la plancia facendosi largo a testate, ha guadagnato il parapetto massacrando coppiette, si è tuffato dall’undicesimo piano atterrando in acqua a cazzo dritto, ha percorso 150 metri a nuoto emergendo sull’isola con un sonoro “WAAAAA!” ed è entrato in un bar chiedendo se poteva telefonare a Schettino, che era ancora a bordo. Tempo totale impiegato, 3 minuti. In una sola azione quell’uomo ha polverizzato Usain Bolt, Tania Cagnotto e Federica Pellegrini. Questo è lo spirito del parkour.

Non deve quindi stupire che tale disciplina abbia origine dall’esercito francese. 

– Questo è il mio sport, dice il precario.

– Anch’io posso essere così, dice il cicciottenne vergine.
– Fuggire, sempre, pensa la commessa H&M che ha lasciato l’università.

Stregati da questi capolavori di montaggio video i migliori idioti del mondo decidono di alzarsi dal mac e fuggire. Le città ed i parchi si popolano di ebefrenici che corrono nel modo più faticoso possibile scavalcando ringhiere, infilando finestre, rimbalzando sui muri, saltando dai tetti, scivolando sui cofani, dribblando siringhe e creando scompiglio tra famiglie e coppiette. Hollywood inserisce il parkour in film tipo Banlieu 13 o Casino Royale e per un anno tutti si impegnano ad emulare la giornata media di uno spacciatore magrebino, ma senza i carabinieri dietro. Escono videoclip spettacolari con musica incalzante e parole romantiche. Il parkour è “poesia in movimento”.
Poi, il dramma.
Su youtube cominciano a circolare le versioni non montate. Mostrano imbecilli che tentano di saltare da un cassonetto all’altro decine di volte senza successo. Su tre, uno finisce nella monnezza, uno deraglia contro la ringhiera e precipita nel vuoto, il terzo aggredisce lo spigolo con i denti riuscendone sconfitto. Una donna tenta un’agile capriola contro un muro e con un piede decapita un bambino, con l’altro si fracassa a terra mentre il padre del pargolo la raggiunge con un randello per finirla. Un ciccione tenta il colpaccio saltando la piscina vuota con una piroetta, in sette a tentare di disincagliarlo dalle maioliche. Giggino detto “o’ marrano” fa il brillante su per una grondaia che si stacca di netto facendolo precipitare nel canile sottostante con rumore di bomba. Gli abusi edilizi diventano teatro di tragedie evitabili quanto esilaranti, dove centinaia di studenti fuoricorso incontrano il loro destino impalandosi su ringhiere, piallandosi il naso, castrandosi in modo acrobatico e rimbalzando fuoricampo dove trovano la morte. I video che testimoniano questa carneficina di focomelici aumentano di numero fino a superare quelli della “poesia in movimento”. 
Improvvisamente il parkour non è più così attraente. Hollywood decide di non metterlo più nei film. I geni che si erano inventati la professione “maestro di parkour” tornano a fare la professione iniziale, chi il topo d’appartamento, chi lo spacciatore, chi lo stupratore.
La poesia in movimento trova il suo posto nel dimenticatoio vicino ai negri ammazzati dal fascio, al ragazzino che gridava “sono un collega”, a Sakineh e al motivo per cui qualcuno ha un angolo del proprio avatar colorato.
E’ un giorno qualunque, in Internet.

Alla monta delle contadine di Codroipo vado solo per ballare

 

Tra le innumerevoli palle che una donna dice ad un uomo nel corso della vita la più longeva è io vado in discoteca solo per ballare. Generazioni di padri hanno visto le loro figliuole andare al Camerun festival “solo per ballare” e con quale sconvolto afflato hanno poi tenuto loro la mano al pronto soccorso mentre il medico spiegava che il prolasso anale è ormai irreparabile ed urge operare, giacché la piccina rischia di cacarsi l’intestino nelle mutandine di Gucci.

“Com’è possibile?” tuonano i giornali, scandalizzati. Com’è potuto succedere che una studentessa con le amiche a Ibiza sia tornata con il perimetro della fica pari alla falla della Costa Concordia? Com’è possibile che il responsabile sia poi fuggito con una moldava? Tragiche fatalità, il sistema, la società degenerata? Certo. Ma non bisogna sottovalutare che se la figlia avesse una password alla fica sarebbe “password” ed assieme alle amiche “12345” e “admin” hanno deciso di entrare ad una convention di programmatori Linux. Non bisogna sottovalutare che in discoteca si va solo per drogarsi e scopare.

Il problema è che la verità sta alle donne come la Guardia di finanza a Cortina. Le donne hanno orrore della verità. Quando ci esci la prima volta dicono che non vogliono figli, dicono “decidi tu, è lo stesso”, dicono che in un uomo guardano “le mani e gli occhi”, che le dimensioni non contano, che hanno avuto solo 7 morosi e che dopo cena vogliono pagare la loro parte.

Dicono anche di guardare Spartacus per la trama.

 

 

 

tumblr_mxx92vwAeF1ra8bl1o1_500La trama.

 

Secondo questo principio indossano minigonne da colonoscopia, nastro isolante al posto del reggiseno, tacchi uso Excalibur, tanga commestibile, trucco ispirato alla bukkake marathon international award 2009 ed al posto della cintura una bandoliera di preservativi con cui si fanno autoscatti mimando di avere un microfono in mano, ma sia chiaro: vanno in discoteca solo per ballare.

Se sei un gestore lo sai.

Per riempire la tua bettola bisogna salvare le apparenze. Non puoi chiamare il tuo locale “drogatoio 69” o “la monta delle contadine di Codroipo” perché nessuna donna ci metterà piede. Devi usare nomi tipo Showroom, VIP club, Deca-dance, King’s, Mojito, Just Cavalli. Se fai serate a tema nessuna verrà ad un titolo come “le mie palle, il tuo mento” perché ti rovina il finale. Se però la chiami “notti d’oriente” falangi di ventitroienni si catapulteranno all’interno seguite da ogni maschio in età riproduttiva disposto a giocarsi lo stipendio un gin lemon dopo l’altro. D’altra parte cosa potrebbe spingere impiegati con suv a rate trentennali in questi posti, se non la danza? Il leggero suono dei passi sul pavimento, le melodie celestiali, gli sguardi che in un lampo comprendono il passo, ne improvvisano le traiettorie, si intersecano in un turbinio di braccia e gesti senza tempo.

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La vita delle donne che bazzicano questi luoghi è un inferno di sensi di colpa. Non solo perché a trent’anni sono talmente usurate da accorgersi di aver partorito solo quando inciampano nel cordone ombelicale, non solo perché al posto del vibromassaggiatore ormai devono usare dildosauri, ma perché trovare giustificazioni morali diventa via via più difficile. L’ultima linea di difesa è che un vestito o un atteggiamento “non vogliono dire niente”. Certo. Immaginate di essere per strada, davanti a voi dei tizi escono da una banca sparando. Vi riparate dietro un angolo e vedete un poliziotto che sta controllando la patente ad uno. Gli correte incontro.

– Presto! Stanno facendo una rapina, sono armati!
– E perché lo dice a me?

– Lei è un poliziotto!
– Oh? E perché? Perché ho una divisa? Perché ho una pistola? Certo, a quelli come lei basta vedermi in uniforme e subito pensate che io debba PER FORZA essere un poliziotto, giusto? Invece sorpresa, sono il meccanico dell’officina Favazzi&figli.
– Ma… controllava le patenti!
– Perché, non si può? A me piace chiedere alle persone di farmi vedere la loro patente. E’ il mio hobby, va bene?
– Aveva la divisa!

– Io mi vesto come mi pare e piace, se permette. E’ un problema SUO se non sa riconoscere un poliziotto vero da uno finto. Arrivederci.

C’è una sola cosa che le donne odiano più della realtà.
La logica.

Made in Libia



















WTF, Libia?
I nostri Servizi segreti continuano ad organizzare pizzate per capire come mai non sono riusciti a prevedere che ai nordafricani scoreggiasse il cervello. Gli sarebbe bastato andare in qualunque discoteca. Le condizioni della Libia pre guerra sono ottime. Il regime nel 1970 usa il petrolio per costruire un welfare coi controcazzi. Case, auto, posti di lavoro, benefici. Perfino quelle fighette dell’UNICEF dicono che la Libia sta bene. L’aspettativa di vita è di 74 anni per gli uomini e di 77 per le donne. Il tasso di alfabetizzazione è del 95% tra gli uomini e del 78% tra le donne. La spesa complessiva annua passa dai 27,7 MLD$ del 1998 ai 93,2 MLD$ nel 2009. Nella graduatoria dello sviluppo umano passa dalla 182° posizione alla 55°.
Non sono dati da guerra civile. 
Per entrate, la Libia ha lo stesso PIL della Norvegia. 
Solo che gli stronzi non sono mai contenti e la stampa invece di guardare i progressi fatti rispetto al passato fa paragoni con altri stati arabi. Essendo loro appena 6 milioni e avendo sotto il culo un patrimonio in petrolio dovrebbero essere “come e meglio di quello che crediamo sia Dubai dai depliant turistici dai contrasti elevati e le modelle con l’airbrush”. La corruzione dilaga assieme alla sensazione il governo preferisca favorire stati esteri invece del proprio. Molti libici fanno almeno due lavori per vivere, uno dei quali è quasi sempre statale dove gli stipendi sono congelati al 1981. Non ci sono case, ne servirebbero almeno 540,000 in più. 
Nel 2003 le sanzioni ONU vengono sospese. Tutti i benefici derivati finiscono a figli e parenti di Gheddafi che monopolizzano salute, edilizia, turismo ed energia. L’umore dell’opinione pubblica peggiora quando Wikileaks rivela come i Gheddafi’s attingano dal tesoro per cazzeggiare in alberghi a sette stelle con troie e champagne. 
Basta questo a scatenare una rivoluzione?
Direi di no, altrimenti in Italia staremmo a spararci dal ’92. 

Secondo i nostri i motivi della rivolta libica vanno cercati nel razzismo e nell’avidità. La Libia non è mai diventata uno stato moderno che fotografa gatti e litiga su Facebook. Oggi come cento anni fa è suddivisa in clan, dette “cabile”, che si scannano per la spartizione dei soldi provenienti dal petrolio. Non c’entra nulla l’Islam. Per quarant’anni tribù e famiglia di Gheddafi dominano le rivali, poi negli ultimi anni i rapporti s’imputtanano. A Bengasi, città che tradizionalmente lo detesta, il raiss nel 1996 reprime una rivolta causando 1200 morti e nel 2006 ne aggiunge altri 14. Un nome incarna tutte le cose che Gheddafi detesta, quello dell’avvocato Fethi Tàrbel, un attivista per i diritti umani che da anni chiede un risarcimento per le famiglie delle vittime delle stragi. 


Gli rispondono di fare moderata attività fisica e bere molta acqua.



Come inizia? 

Il 15 febbraio l’avvocato Tarbel viene arrestato con una scusa qualunque, tipo che ha rubato un Mars in tabaccheria. I bengasini s’incazzano ed esaltati da quello che sta succedendo in Egitto si presentano al commissariato chiedendone la liberazione. La polizia risponde qualcosa tipo “il più grande è Allah, di Dio ce n’è uno/Tàrbel sta qua, voi andate affanculo”. Quelli fanno un sit-in fino a tarda notte, poi finisce in scazzottata come tutte le serate interculturali. 
Il 17 febbraio visto che l’altra volta si sono tanto divertiti decidono di replicare, ma questo giro si presentano armati di Kalashnikov, RPG e granate: aprono il fuoco contro la Guardia Presidenziale e crepano in sessanta. La Libia cessa di esistere in quel momento.

Dove hanno preso le armi? 

Le hanno grattate. Molti reparti dell’esercito appartengono alla stessa cabila dei ribelli o sono gli stessi militari che cambiano bandiera. Gheddafi, tuttavia, è un ottimo stratega, conosce bene il proprio paese ed i suoi uomini. Sa che l’esercito è inaffidabile, così in questi anni l’ha addestrato male apposta per ridere. Gli lascia dei rottami, non li addestra e lascia proliferare corruzione e assenteismo. Sa che in caso di problemi ci sarà la sua guardia presidenziale, un’élite di fedelissimi a cui nel 2008 ha regalato 5 milioni di euro tra fucili e pistole dal Belgio. I primi scontri sono perlopiù soldati che accoppano soldati e straccioni che partecipano con entusiasmo perché “ce sta da fà m’po’ de casino”. Poi sai come vanno queste cose, l’entusiasmo si propaga, un drink tira l’altro, a volte tua figlia torna dalla Spagna incinta, a volte in Libia scoppia la guerra civile.

La guerra 

Il 20 febbraio è ormai chiaro al mondo che non si tratta di un matrimonio troppo vivace. Fonti esterne parlano di un centinaio di morti, altre di diecimila. Saif al Islam, il figlio più scemo di Gheddafi, dice in TV che verranno fatte delle riforme importanti per il paese. La gente lo ignora. Quando anche a Tripoli iniziano a scoppiare focolai di rivolta il variopinto raiss in persona fa un discorso breve e conciso: “Potete manifestare dove volete, tranne che nelle strade e nelle piazze o vi ammazzo tutti”. A quel punto il mix di disertori, voltagabbana e ribelli danno fuoco alla sede della TV cantando “ma che ce fregaaa, ma che ce ‘mportaaaa” e dal 21 febbraio i caccia libici iniziano a bombardare le scettiche piazze trasformandole in un’enorme grigliata mista. Il bilancio dei morti sale. Due aerei disertano e, armati di tutto punto, invadono lo spazio aereo di Malta atterrando e chiedendo asilo politico. 
L’ONU si riunisce per far due chiacchiere sull’argomento mentre in Libia si sparano pure tra salotto e tinello. 
Il 24 febbraio Tripoli è assediata su due fronti, ma proprio quando sembra che il casino si concluderà per l’ora dello spritz Gheddafi riesce a reclutare un gruppo di mercenari, detti “dogs of war”. Sono un misto di miliziani del Ciad, ex berretti rossi di Milosevic e qualche scarto della Legione Straniera. Gente abituata a saccheggiare, uccidere, stuprare, rubare e distruggere. Pigliano 30.000$ per ogni giorno di battaglia e 10.000-12.000$ per ogni ribelle ucciso. Hanno a disposizione arsenali di prim’ordine come aerei, carri, batterie missilistiche e antiaeree, artiglieria pesante. 
In una settimana dei ribelli rimane un po’ di marmellata.
Gheddafi si fa vedere in TV dicendo che la Libia è perfettamente calma e promette un bagno di sangue se un solo occidentale metterà piede in Libia. Gli aerei continuano a bombardare i nostri amati straccioni, decimandoli. Si fa largo la possibilità che i ribelli non ce la facciano. L’occidente capisce che a parte fargli le multine e togliergli l’amicizia da facebook bisogna sporcarsi le mani. Comincia a lavorare per l’istituzione di una no-fly zone, che di fatto interromperebbe i bombardamenti sui civili. 

Cos’è una no fly zone? 

E’ un ombrello. Prendo la cartina, ci faccio un cerchio, tutto attorno sistemo batterie antiaeree, fregate o portaerei e ti dico che se voli qui dentro ti raccolgono col cucchiaino. Funziona? Dipende. Buona parte della guerra oggi è basata sul bluff. Con la Libia che ha schierati dalla sua parte Russia e Cina non è il caso di mettersi ad abbattergli quei cessi con cui volano. L’obiettivo è farglielo credere. Quelli si avvicinano e testano le difese, ci provano ma poi scappano, via così. Questo giocondo “un due tre stella” a base di missili dovrebbe distrarli dal bombardare i ribelli che da soli al massimo gli tiravano sassi usando i preservativi come fionda. 
Il 28 febbraio il Pentagono riposiziona parte della propria flotta al largo delle acque territoriali libiche. Sono lenti e i ribelli non si stanno divertendo. I francesi (dichiareranno solo dopo) paracadutano al largo di Misurata acqua, viveri e 36 tonnellate di armi e munizioni.

Servono a poco, da sole.

E noi che facciamo? 

Noi? Per ora niente, smacchiamo coccinelle con aria distratta e quando nessuno ci vede recuperiamo i nostri connazionali sul suolo libico, sennò poi arrivano i peggio rincoglioniti tipo Gino Strada a dire che bisognerebbe lasciar fare Gheddafi perché la guerra è sempre brutta. Siamo tutti consapevoli che un mondo senza armi è possibile, che il dialogo, la tolleranza ed il rispetto reciproco sono la sola cosa giusta da fare e che noi italiani non siamo assolutamente portati per fare operazioni di infiltrazione, sabotaggio ed assassinio in territorio straniero. Siamo portatori di pace.

Davvero?

Sì. Pace eterna. Gli mandiamo le nostre forze speciali.
L’articolo per L’Espresso inizia da qui.
Incursore del COMSUBIN dopo 72 ore di scontri a fuoco
ininterrotti a Bala Murghab, Afghanistan, agosto 2010
Nicolai Lilin dopo un servizio fotografico per Vanity Fair.