Non mi sto evirando, sto facendo poesia in movimento.



Nel 1970 l’umanità era ingenua.
Per “ingenua” non intendo le universitarie che nel 2012 deridono quella che non ha ancora provato la doppia penetrazione. Era ingenua del tipo “se nei film la gente vola si può volare davvero”.

Quando al cinema sbarcarono i primi film su arti marziali e combattimenti vari ai monaci del tibet iniziarono a piovere lettere che supplicavano di imparare a lanciare onde energetiche, fermare spade con le mani e saltare cascate. A nulla valsero le smentite o le notizie sui giornali di un idiota che si era ucciso tentando di fermare un treno col pensiero. La gente voleva credere a quello che aveva visto al cinema perché lo aveva visto. Si chiama wishful thinking: ciò che vorresti fosse vero, che sarebbe bello fosse vero, diventa vero.


Oggi parliamo del parkour. 

Nel 2005 tra un gatto che suona il pianoforte, una petizione online ed un documentario indipendente che smaschera complotti iniziano a circolare video di tizi che fuggono da una parte all’altra della città eseguendo piroette, capriole, balzi spettacolari. “Ooh, merdaviglioso, ma km fanno?!” si domanda il popolo. La risposta “con il montaggio” non viene presa in considerazione. No, da qualche parte nel mondo devono esistere uomini che impiegano le loro giornate a correre per le città imparando a dominare gli elementi urbani. Guerrieri della notte, acrobati, ladri guasconi che scippano i ricchi per poi sparire nella giungla di cemento rimbalzando tra carcasse di automobili e palazzoni abbandonati. I video raggiungono un numero mostruoso di visualizzazioni.

“E’ lo sport del nuovo millennio” tuonano blogger ed opinionisti.

E’ vero.

Così come noi palestrati chiamiamo sport quello che in realtà è il più bieco narcisismo spesso condito da insicurezze e tendenze compulsivo ossessive, il parkour è il passo successivo. Non mi sforzo nemmeno di sollevare me stesso o un peso: fuggo. Sì, fuggo. La fuga come scelta di vita. La fuga nel senso più epico del termine. La fuga che oltrepassa buonsenso, intelligenza, razionalità, giudizio. La fuga che riporta l’uomo allo stato scimmiesco, quando davanti al predatore urlava “ho moglie e figli, mangiati loro” e fuggiva per chilometri ferendosi, mutilandosi e fratturandosi pur di essere altrove. La fuga del pianista della Costa Concordia, il quale appena sono saltate le luci è scattato attraversando la plancia facendosi largo a testate, ha guadagnato il parapetto massacrando coppiette, si è tuffato dall’undicesimo piano atterrando in acqua a cazzo dritto, ha percorso 150 metri a nuoto emergendo sull’isola con un sonoro “WAAAAA!” ed è entrato in un bar chiedendo se poteva telefonare a Schettino, che era ancora a bordo. Tempo totale impiegato, 3 minuti. In una sola azione quell’uomo ha polverizzato Usain Bolt, Tania Cagnotto e Federica Pellegrini. Questo è lo spirito del parkour.

Non deve quindi stupire che tale disciplina abbia origine dall’esercito francese. 

– Questo è il mio sport, dice il precario.

– Anch’io posso essere così, dice il cicciottenne vergine.
– Fuggire, sempre, pensa la commessa H&M che ha lasciato l’università.

Stregati da questi capolavori di montaggio video i migliori idioti del mondo decidono di alzarsi dal mac e fuggire. Le città ed i parchi si popolano di ebefrenici che corrono nel modo più faticoso possibile scavalcando ringhiere, infilando finestre, rimbalzando sui muri, saltando dai tetti, scivolando sui cofani, dribblando siringhe e creando scompiglio tra famiglie e coppiette. Hollywood inserisce il parkour in film tipo Banlieu 13 o Casino Royale e per un anno tutti si impegnano ad emulare la giornata media di uno spacciatore magrebino, ma senza i carabinieri dietro. Escono videoclip spettacolari con musica incalzante e parole romantiche. Il parkour è “poesia in movimento”.
Poi, il dramma.
Su youtube cominciano a circolare le versioni non montate. Mostrano imbecilli che tentano di saltare da un cassonetto all’altro decine di volte senza successo. Su tre, uno finisce nella monnezza, uno deraglia contro la ringhiera e precipita nel vuoto, il terzo aggredisce lo spigolo con i denti riuscendone sconfitto. Una donna tenta un’agile capriola contro un muro e con un piede decapita un bambino, con l’altro si fracassa a terra mentre il padre del pargolo la raggiunge con un randello per finirla. Un ciccione tenta il colpaccio saltando la piscina vuota con una piroetta, in sette a tentare di disincagliarlo dalle maioliche. Giggino detto “o’ marrano” fa il brillante su per una grondaia che si stacca di netto facendolo precipitare nel canile sottostante con rumore di bomba. Gli abusi edilizi diventano teatro di tragedie evitabili quanto esilaranti, dove centinaia di studenti fuoricorso incontrano il loro destino impalandosi su ringhiere, piallandosi il naso, castrandosi in modo acrobatico e rimbalzando fuoricampo dove trovano la morte. I video che testimoniano questa carneficina di focomelici aumentano di numero fino a superare quelli della “poesia in movimento”. 
Improvvisamente il parkour non è più così attraente. Hollywood decide di non metterlo più nei film. I geni che si erano inventati la professione “maestro di parkour” tornano a fare la professione iniziale, chi il topo d’appartamento, chi lo spacciatore, chi lo stupratore.
La poesia in movimento trova il suo posto nel dimenticatoio vicino ai negri ammazzati dal fascio, al ragazzino che gridava “sono un collega”, a Sakineh e al motivo per cui qualcuno ha un angolo del proprio avatar colorato.
E’ un giorno qualunque, in Internet.