Dio mi è apparso in sogno, e portava con sé una torta al limone.



Riso in bianco. Insalata. Pollo. Olio centellinato. Burro d’arachidi biologico. Tabelle d’allenamento, massimali, percentuali, ripetizioni negative, superserie, serie a circuiti, tempi di recupero, picchi d’insulina. E’ difficile spiegare perché mi sto sottoponendo a tutto questo, visto che la mia vita sessuale è anche troppo soddisfacente. 

La vita me l’ha cambiata il lavoro manuale.



Quando stavo in falegnameria o in cantiere avevo delle soddisfazioni enormi. Arrivavano i camion con la legna, la segavamo, piallavamo, inchiodavamo e voilà: una settimana dopo vedevi uscire cinquanta armadi. Li avevi fatti tu dal niente, li conoscevi chiodo per chiodo ed erano un tuo piccolo parto. Lavoravamo dalle sei di mattina alle cinque di pomeriggio. In base a dove t’avevano messo sapevi cosa ti aspettava: scarico camion e seghe? Spalle e schiena massacrati. Pialla, verniciatura e cambio aspiratori? Braccia intorpidite che per farti una sega dovevi alternarli. La pausa pranzo durava un’ora, dalle 12 alle 13. Era un momento speciale. Pieni di fame, tutti appoggiati dove capitava, ognuno tirava fuori quello che aveva e mangiavi ascoltando le cagate di qualcuno a turno. C’erano polvere e segatura dappertutto, l’odore della legna, dolciastro e penetrante, era onnipresente. Fumavo Lucky Strike solo per non sentirlo. Dopo sei ore di quell’odore il profumo del cibo ti mandava in fibrillazione. C’era Giovanni, un vecchio artigiano, che si portava la gamella di acciaio con le robe preparate dalla moglie. Le scaldava con l’accendino, un vecchio Zippo della Marina militare. Mario aveva i Tupperware con robe salutiste dopo essere sopravvissuto ad un cancro all’intestino. Alessandro era il fighetto di turno ed aveva una specie di corredo da pic nic con tanto di posate di plastica e bicchierino. Christian mangiava quattro merendine ed un cappuccino solubile. Dopo pranzo fumavamo MS senza filtro prendendo il sole fuori in cortile.   In autobus al ritorno mi addormentavo, c’era una vecchia che si era affezionata a furia di vedermi isterico perché avevo perso la fermata. Ogni giorno, per due anni, mi ha sgorlato il bavero della maglietta quando eravamo in vista di Mestre. Ringraziavo e uscivo. Non ho mai saputo il suo nome. Quando arrivavo a casa avevo imparato a cambiarmi ma a non fare la doccia, perché rilassava i muscoli e crollavo addormentato alle otto prima ancora di cenare.

Poi le cose sono cambiate.
Il lavoro è cambiato.

Meno ripetitivo, più creativo, più rilassante, più sporadico. Le spalle allo specchio si sono abbassate, hanno smesso di essere aggressive. Le braccia si sono sgonfiate. Le gambe che una volta spostavano travi hanno cominciato a diventare molli e pigre. Non mi piaceva l’andazzo che stavo prendendo, così ho provato a fare sport. A basket sono una sega. A calcio non ne parliamo, manco riesco a guardarlo in TV. A rugby, col Mirano, ho fatto due mesi e poi ho capito che non faceva per me. Così ho scoperto i pesi, la sola cosa che somigliava al mio vecchio lavoro; sollevi oggetti fino a sfinirti, torni a casa, fine.

La palestra è un mondo esilarante. Ha una fauna tutta sua che va dal colosso imbottito di steroidi all’ultimo dei topi da ufficio che ti supplica di dirgli come perdere 80 chili in quattro settimane. La donna truccata con orecchini che se suda va a rifarsi il trucco, le amiche che cazzeggiano in attesa del rimorchio, il personal trainer obeso che pontifica sui benefici degli integratori. A me non interessava. Entravo, sollevavo cose, uscivo. Solo che dopo tre anni e mezzo qualunque cosa un uomo faccia si eleva. L’esperienza si forma in tutte le cose, dal pornodivo al barman. La prima volta è un disastro, dopo tre anni sei un artista. Così pian piano mi ha preso. Ho trovato un senso in tutto quel sollevare, una specie di disciplina catartica che il mio corpo associa ancora al lavoro manuale. Ogni giorno è un piccolo passo in più nel tuo piccolo mondo immaginario. Un po’ come un nuovo livello nei videogiochi. Son cagate ma ti danno soddisfazione, quando ci riesci. Più il livello è avanzato, più i progressi sono difficili – a patto tu non scelga di usare i cheats.


Ora sto ad una mia piccola sfida personale.
Solo che per ottenerla devo tenere sotto controllo un tale numero di variabili che ho la testa impegnatissima. Non come quando giocavo a Gothic 2, ma molto vicino. Mi diverte mettere alla prova la mia autodisciplina, il mio istinto e la mia capacità di sopportazione. Sto imparando molto di me, dei meccanismi inconsci che ho e di come il cervello tenti costantemente di raccontarmi palle. A volte ci caschi e ricominci a fumare, a volte tieni duro e passi impassibile davanti ad una pasticceria veneziana durante il carnevale. Il bello di tutto questo è che, per riflesso, mi fa scoprire nuovi lati delle persone che ho attorno.

Avrei novità da raccontare, ma devo pesarmi le proteine.
Vi lascio con Alexis Amore.