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La strepitosa vita di uno stragista

LA MADRE

Shahla Mateen

Shahla Mateen è una estetista. Nel salone dove lavora, le colleghe la definiscono “scontrosa e paranoica”. C’è stata una volta in cui Shahala s’è presentata in salone urlando che una collega le aveva lanciato uova marce contro casa e le aveva tagliato le gomme dell’auto. Spesso si assentava dicendo “ho problemi familiari, ciao”. Non si presenta mai agli incontri coi professori anche quando il figlio inizia a venire sospeso per liti a sfondo religioso. In vent’anni di matrimonio diventa sempre più violenta col marito finché, nel 2002, viene arrestata per averlo menato. Viene incarcerata con una cauzione di 5000 dollari, ma il marito ritira la denuncia e lei torna a casa.

Dopotutto, se una donna picchia un uomo non lo picchia davvero, dai.

 

 

 

IL PADRE

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Seddique Mateen si considera un importante analista e politico di spicco. Sul suo canale YouTube sostiene che il Pakistan stia inviando negli Stati Uniti dei sicari per ucciderlo. Via satellite tiene una trasmissione dove farnetica contro il Pakistan, parla con Obama o gli scrive lettere aperte, sostiene i Talebani siano patrioti e crea un’organizzazione no-profit per finanziarli. Intestata alle figlie. Poi registra al comune il PROVISIONAL GOVERNMENT OF AFGHANISTAN (allego foto).

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In Afghanistan comunque lo conoscono e lo reputano un divertente imbecille alla stregua di Andrea Diprè. Si candida alla presidenza dell’Afghanistan (no, sul serio) mentre nel mondo reale vende polizze assicurative. Lui e la moglie vengono denunciati tre volte per non aver saldato dei debiti, e altre quatto volte sono loro che provano a truffare l’assicurazione o i datori di lavoro, prendendola clamorosamente nel culo. Ecco quindi come si svolge una normale conversazione a casa Mateen durante il pranzo.

Padre: «Amore, com’è andata al lavoro?»
Madre: «Le mie colleghe cospirano, le sento camminare nel buio, lì fuori.»
Padre: «No, potrebbero essere i sicari pakistani.»
Figlio: «QUEI FROCI»

 

 

IL FIGLIO

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A scuola, Omar cerca di mettersi in mostra coi ragazzi dichiarando che suo zio Osama Bin Laden in persona gli ha insegnato a usare il mitra. Stranamente, invece di cazzo prende un sacco di botte. Opta quindi per Jack’d e Grindr, app per incontri gay e va a spettacoli di drag show. Tutto questo di nascosto dal padre, che però inizia a sospettare al figlio piaccia la banana. Omar deve dissimulare, così si sposa Sitora Yusufiy. La pesta per motivi risibili, tipo perché non ha fatto la lavatrice. O perché lei sa stare sui tacchi e lui no. Quando il padre li va a trovare, chiama il figlio “frocio”. Nella costante lotta per mascherare la propria identità, Omar si iscrive in palestra e tenta di entrare in polizia. Va in moschea quattro volte a settimana, scrive su Facebook insulti all’occidente e loda i terroristi. Nel 2013 riesce a diventare una guardia giurata. Non ha però perso il vizio di spararle grosse, così dice ai colleghi di essere in contatto con membri di Al-Qaeda.

È vero? No.
Però finalmente possiamo introdurre il vero, assoluto idolo della vicenda.

 

 

 

L’FBI

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2013
La sala interrogatori del Federal Bureau of Investigation è grigia, coi muri imbottiti di pelle, un tavolo d’acciaio inchiodato al pavimento, due sedie, un faretto incassato nel soffitto, una telecamera nell’angolo e un grande specchio. Omar è seduto con le manette ai polsi. Dietro lo specchio, le migliori menti degli Stati Uniti lo studiano con attenzione mentre i monitor registrano la sua temperatura corporea. Monitor e sensori si alternano a tazze di caffè di Starbucks. Una ventina di agenti speciali è in attesa di ordini.

«Allora, signori, ricapitoliamo» dice l’agente capo «il signor Mateen ha un padre pazzo che parla a favore dei talebani e pensa di essere in contatto con Barak Obama. Il figlio ha dichiarato ai colleghi di essere collegato ad Al Qaeda e la sua bacheca Facebook è un tripudio di insulti all’occidente e giuramenti di fedeltà agli hezbollah, ai talebani, all’Isis e agli eldiani che dei terrestri son nemici alieni
«Parrebbe confuso» osa un’agente in tailleur gessato «Al-Qaeda e Isis si odiano. Di recen… scusi» arrossisce l’agente, abbassando la testa.
«Ecco, meglio. Il mondo è fatto di buoni e cattivi. Non partire con le cazzate tipo uahhabiti, falafeliti o roba incasinata che poi finisce come Syriana.»

«Com’è finita con Syriana?» domanda un agente.
«Guarda l’autofill di Google.»

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«Chiaro? Buoni e cattivi, o nessuno capisce un cazzo. Ora mandate dentro l’agente speciale McCallan.

McCallan, completo grigio antracite e cravatta blu, è sulla trentina. Sull’occhiello porta la bandiera USA. Prende la sedia con studiata lentezza, si siede, incrocia le dita e fissa Omar: «Signor Mateen» dice «nell’assoluto rispetto e senza alcun pregiudizio di natura razziale, religiosa o sessuale, basandomi sul mio ruolo, sul mio addestramento e sulla mia esperienza come agente del bureau, consapevole della mia colpa di essere un biomaschio di razza bianca eteros
«Può saltare il disclaimer?» fa Omar.
«Sei un terrorista?»
«No.»
«Ah ok»
Lo rilasciano.

 

 

2014
L’FBI riceve una telefonata da un commesso di un negozio di armi. Il tipo racconta di un arabo che s’è presentato chiedendo tre giubbotti antiproiettile e munizioni varie, poi ha parlato al telefono dicendo “Allah u akbar” e se n’è andato. L’FBI indaga e scopre che si tratta di Mateen. Lo stesso che in una conversazione con un collega guardia giurata dice che “se l’FBI uccidesse mia moglie e mio figlio sarei libero di diventare un martire.”

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È tipo “se la Polonia mi invadesse sarei libero di invaderla”, credo.

Questa volta l’FBI prova un approccio diverso e lo mette sotto sorveglianza digitale. I g-man scoprono che era amico di Mohammad Abusalha, recentemente autodetonatosi in Siria, ma non ci vedono niente di strano perché Omar è arabo, e alla fine gli arabi si conoscono tutti. Omar frequenta il Pulse, club gay di Orlando dove gorgoglia che a casa sua moglie e suo padre gli impediscono di bere, poi si sbronza e scatena risse. Ma questo lo rende un buon americano. Dopotutto a gente così fanno pilotare gli Jaeger, ricordiamo.

Nella realtà Omar di giorno parla con la moglie di fare attentati, va con lei a Disneyland pianificando una strage e si fa addirittura accompagnare a comprare l’AR-15 in armeria. La sera, però, esce a farsi carotare il trinciastronzi da quelli che di giorno insulta e disprezza. Tutto questo continuando a scrivere su Facebook cazzate deliranti su tutto quello che somiglia al terrorismo. L’FBI, memore della prima volta, questa volta lo richiama con una nuova strategia.

«Omar, sei un terrorista?»
«No.»
«Sicuro?»
«Sì.»
Lo rilasciano.

Dopo tre anni che Omar va al club Pulse a rimorchiare, il 18 giugno ci entra con pistola, mitra, esplosivi. Inizia quindi un’escalation di ritardo mentale senza alcun precedente nella storia del pianeta. E se siete persone particolarmente sensibili, non andate oltre. Perché tutto quello che state per leggere vi farà accapponare la pelle.

LA STRAGE

Alle 2.02 un poliziotto armato dentro il club sente gli spari. All’inizio pensa facciano parte della canzone. Quando sente gente urlare e vede gente fuggire, capisce. Dichiara di sentirsi “outgunned” e scappa fuori. Chiama aiuto. Due SWAT di passaggio arrivano, sparano a Omar in mezzo al casino generale. Omar si barrica in cesso dove trova decine di clienti e li stermina come zanzare.

Alle 2.07 Eddie Jamoldroy Justice scrive alla madre di essere nascosto in bagno e che sta per morire perché qualcuno spara. Lei prima gli chiede se l’attentatore è un poliziotto, poi prova a telefonargli perché se tuo figlio è nascosto, fargli squillare il telefono è un’idea eccezionale e conclude con ANSWER THE DAMN PHONE. Non “ti voglio bene”. Non qualcosa di dolce, di materno, di umano.

I’m calling them now
U still in there
Answer our damn phone
Call them
call me

Alle 2.09 la pagina del club Pulse pubblica lo status “uscite tutti dal Pulse e correte”. Perché? A cosa serve? Se sono fuori, non mi serve. Se sono dentro il Pulse so già che c’è una sparatoria e comunque non mi metto a leggere Facebook mentre volano proiettili, ti pare? Il post, comunque, è un successo.

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E io immagino la gente a casa col mouse fermo sopra il like, straziata dalla decisione se mettere la faccina triste o quella a bocca aperta. Deve fare in fretta, è questione di secondi. Sotto, i commenti.

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Alle 2.22, mentre fuori un popolo di scimmie analfabete emette grugniti, Omar telefona al 911 e dichiara fedeltà all’Isis, poi tira in mezzo i bombaroli della maratona di Boston, un suo amico che s’è fatto schioppare in Siria e conclude dicendo che gli USA devono smettere di bombardare il suo paese.

«Ma signore, la guerra in Afghanistan è finita nel 2014.»
«VABBÈ COMUNQUE»

Alle 2.45 Omar telefona a News 13, parla con il produttore Matt Gentili e dichiara di averlo fatto per l’Isis. Poi – sempre continuando a sterminare gente – posta su Facebook e si assicura i social parlino di lui.

Alle 3.58 la polizia arriva coi mezzi necessari. Dentro, un testimone dichiara di aver visto e sentito Omar telefonare alla moglie e dirle che lui è il quarto terrorista, ma che nel club ce ne sono altri tre e anche una donna con un giubbotto esplosivo. Inizia la trattativa coi poliziotti.

Alle 4.57 gli SWAT fanno esplodere un ordigno per fare un buco nel muro, ma non gli viene bene. Allora usano i veicoli corazzati per allargarlo, ma questo li porta solo nella stanza principale. Omar è barricato nel cesso, e ha tutto il tempo d’incazzarsi e sterminare gli ostaggi. A fatica, gli SWAT rimuovono i detriti e avanzano dentro la discoteca col mezzo corazzato. Arrivati al bagno lo buttano giù ammazzando tutto quello che c’è dentro. Camerieri, clienti, cubisti, DJ, ballerini. E Omar. Non che sia strano. Vedete, la polizia in queste situazioni considera gli ostaggi vittime di omicidio temporaneamente vive.

 

 

 

 

 

CONCLUSIONI

Più guardo la vita di questi presunti “attentatori”, più mi convinco che l’Islam non c’entri niente. Né qui, né a Parigi, né in Belgio. Hanno dato la colpa all’integralismo, al degrado delle periferie, al razzismo. All’omosessualità repressa. A me colpisce come Omar abbia mentito a sua moglie fino all’ultimo. Come le abbia raccontando di essere integrato in chissà che gruppo di spaccaculi mentre invece era solo, circondato da cadaveri, in una discoteca che un po’ rappresentava il suo mondo interiore. E nei suoi ultimi istanti di vita non ha parlato con Dio.

Ha guardato Facebook.

Così ho pensato che forse oggi Dio sono gli altri. La rete. Il web. I like, le condivisioni, gli iscritti. Una massa ascesa a entità, in grado di giudicare gli esseri umani come nessun altro ha fatto prima: 10,000 like hanno lo stesso valore per un israeliano e un palestinese. Per la prima volta, l’umanità ha creato un Dio indiscutibile, numerico e inequivocabile. E chi ha una mente semplice farà qualsiasi cosa per averne l’approvazione. C’è chi si suicida su Periscope. Chi per farsi un selfie muore su Instagram. Chi vende la verginità su eBay. Chi si masturba su cam4. Chi ammazza su Facebook. Chi chiede gli auguri, chi supplica condivisioni. Mi viene in mente l’AMMIRAMI gridato dai figli della guerra di Mad Max. O il 42 di Guida Galattica per autostoppisti. Un Dio da venerare mostrandoti e che ti giudica a numeri. Che roba, sarebbe. Che cosa squallida, disperata e immensa.

Ma dopotutto sono uno che scrive vaccate rigonfio di bourbon alle tre di mattina, quindi meglio se la pianto.

In difesa della famiglia tradizionale

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Tuut.

Tuut.

Tuu-
«Pronto?»
«Buongiorno, mi chiamo Nebo, ho trovato il suo numero in Internet per un annuncio d
«Sìsìsìsì, capito. Vieni qui che ne parliamo di persona. Da dove parti?»
Il dolce profumo della ricettazione mi solletica le narici.

«Alùra, fai via Vulva in direzione Maciachini, che è una traversa di
«Non serve, ho il GPS.»
«Giri a destra, fai un paio di chilometri, salti il fossato coi coccodrilli e noterai una targa di pietra seminascosta dalla vegetazione.»

Subito.it, eBay, Kijiji, sono casa mia. Tutto ciò che ho addosso e attorno l’ho comprato lì. È un’abitudine che m’è rimasta dai tempi in cui vivevo in un garage subaffittato a sala prove. Mai buttare via qualcosa, c’è sempre qualcuno disposto a pagarla. Viceversa, mai comprare qualcosa se prima non hai verificato se esiste in Internet. A volte mi chiedo se avendo un reddito decente mi risparmierei tutta ‘sta trafila, ma non credo. Ti regala momenti di umanità sublime, come quando a Mestre rimasi chiuso in una cameretta di un cinquantenne ad ascoltare le sue poesie sulla morte, mentre giù in salotto lo stereo suonava radio Maria.

«Ho il GPS, mi basta l’indirizzo!» dico.
«Prosegui fino al terzo semaforo, giri a destra, sinistra, sinistra destra, Jeremy e Jenny storia d’amore, tra le racchette, le corse e il sudore. A quel punto…»

Appoggio il telefono, metto in vivavoce, lavo i piatti. Il cumenda conclude dicendo indirizzo e campanello da suonare e mezz’ora dopo salgo le scale di un condominio anonimo fino al terzo piano. Sulla soglia trovo un uomo sulla quarantina in ciabatte, pantaloni della tuta, maglietta Nike. Mi squadra con aria dubbiosa. Alza la mano: «Spè» dice «sei italiano?»
«Tantissimo.»
Mi fa cenno di entrare.

La casa è un appartamento qualsiasi. Nessun libro, quadri dell’Ikea, lenzuola bianche coprono divani di pelle bianca ancora nel vecchio cellophane, una MILF con trucco picchiatissimo, tacco 15, calze autoreggenti a rete larga, short di jeans strappati, un top in spandex sopra una mastoplastica additiva di lusso che mi viene incontro.

 

Johnny-Depp-Shock

 

Il cervello travasa il sangue nel cazzo e mi lascia immobile uso zombie. Sorride con lo sguardo di una che vuole dartela davvero, non fa finta.
«Lei è la Gilda» dice l’uomo alle mie spalle.
«Cococomplimenti» balbetto.
«Se ti va sono 300 rose.»

 

 

 

 

 

Cosa.

 

 

«Cosa?» domando, riscuotendomi.
«Non sei qui per l’annuncio su Bakekaincontri?»
«No. Di Subito.it.»
Gelo.

 

 

A Gilda si scioglie la faccia: «Ennio, quello dell’argenteria» dice.
«Aaaah, è vero» fa lui «vendevamo anche l’argenteria, vero.»
Anche.

«Bè ma già che ci sei…» osa Ennio, che probabilmente su Facebook lavora presso sé stesso.
«Guardi, apprezzo tantissimo l’offerta, ma no, grazie.»
«Vabbè Ennio, se non gli va non gli va» dice Gilda, incrociando le braccia.
«Aspetta, voglio capire. Non ti piace mia moglie?»
«Noooo, mi piace, è che l’annuncio…»
«Sì ho capito, dopo la vedi ‘sta argenteria, ma prima non ti va? Trecento euro è una cifra regalo, per una non pro.»

 

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«Mmmmnon usiamo termini azzardati» sibilo.
«Cosa, “non pro”? Vatti a leggere su Gnoccatravel quanto prende una così.»
«Vecchio, per quella cifra ti rimedio un duplex con due matricole, dai.»
«Seh, ma slave!»
Ennio si svela un fine conoscitore della materia.

«N-non è detto» dico, vago.
«Lei qui ti fa Rai1, Rai2 e Rai3 senza fretta e mi fai storie per 300 euro? Dai, ormai s’è vestita, truccata…»
«Oh che palle, io vado di là» sbuffa Gilda, sculettando «quando avete deciso chiamatemi.»
«Senti, non ho trecento euro» concludo.
«E quanto hai?»
«Ma che ne so» dico, aprendo il portafogli «centoventidue euro e trentadue centesimi.»
Silenzio.

 

 

«È pochino» concede.
Sembra arrendersi e mi conduce in cantina e tra tanfo di muffa, polvere e rifiuti mi mostra uno scatolone. Dentro ci sono una caffettiera, una teiera, un vassoio e una lampada Sheffield sporca e ossidata, cosa che riduce di molto l’impatto visivo – ossia quello che ti fa sparare prezzi mostruosi.

«Era roba dei genitori di mia moglie ma a noi non piace, siamo moderni. In tutti i sensi, heh.»
Heh.

«La roba è carina, ti offro 20 euro per tutto.»
«Dai, ma mia moglie proprio no?»
«T’ho detto che non c’ho soldi!»
«Vabbè ma ci veniamo incontro, venti per l’argenteria e cento ti fa un pompino.»
«Ghesboro, cento euro un pompino!?» dico, tirando su lo scatolone «ma manco se fosse Aletta Ocean. Piglia ‘sti soldi che vado.»
«Dai, va bene: argento e sveltina.»
«Ho detto di noo-o-o!»
«120 E ANCHE IL CULO!»
«MA DIOCRISs

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…e questa è tutta la storia» dico, guardando l’argenteria sul tavolo. Leonora studia gli oggetti con attenzione, poi studia me: «Dammi il numero del tipo.»
«Perché?»
«Se hai pagato 100 euro il culo di una quarantenne è scandaloso, ma passi. Se scopro che è una balla e che hai pagato ‘sta roba 120 euro ti uccido

Per essere qualcuno

Il cono di luce illumina un parquet vecchio e polveroso. Appare un ragazzo alla fine dei vent’anni, biondo, fisico burroso, camicia beige, pantaloni color noce, mani in tasca.

«Ho sempre voluto essere qualcuno» dice «Ma sono una persona irrilevante.»
Si guarda attorno in cerca di qualcosa.
Rinuncia.

«C’è chi non si accorge di esserlo. Vivono bene, quelli. Come le aragoste nelle vasche dei ristoranti. Che ne sanno di non contare niente? Gli basta gridare insulti al televisore, per essere felici. Io no. Io ho la maledizione di capire» sibila, poi si ricompone, mette le mani in tasca.

«Così ho preso il porto d’armi.

 

Andavo a sparare al poligono, sì. Il botto, il rinculo, il bersaglio che si spacca, è roba… ti fa sentire potente. Però le sagome di cartone stancano, sapete. Stan lì. Non si muovono. Non gridano, non sanguinano. Non scappano. Allora sono andato a fare Softair. Eravamo io, guardie giurate, qualche obiettore di coscienza. Tutti appassionati ed esperti di armi. All’inizio era bello. Però… però anche se eravamo vestiti giusti, usavamo i termini giusti e-e… e facevamo tutto giusto… sotto c’era quella sensazione. Quella voce che sibilava uu non conti niente» sussurra «tu non conti niente

L’eco si perde nel silenzio.

«Allora provo a renderla più credibile!» esclama «compro le uniformi! Pago trecentottanta euro per gli anfibi originali del Col Moschin, nemmeno vi dico il giubbotto… E l’orologio! Lo zaino! La borraccia! La cintura! Il cappello il coltello gli occhiali il binocolo…»

Scuote la testa. La abbassa.
Si rigira in bocca la lingua.

«Con la mia ragazza facevo… giochi di ruolo, nel bosco. Tipo il nazista, l’ebrea… ci siamo capiti» ammicca. Si fa serio: «Era per gioco, eh?! Non sono di destra. Anzi.»

 

«Mi eccitava e basta.»

 

«Il punto è che non serviva. Continuavo a sentirmi irrilevante. Allora ECCO!» dice, premendosi l’indice sulla fronte «ECCO l’idea! Mi serviva UN NEMICO!» sibila isterico, sgranando gli occhi «quando hai un nemico non sei più uno stronzo qualsiasi, no? Sei il nemico di quello! Hai un ruolo! Uno scopo! Sei un antagonista!» fa un passo avanti, il viso eccitato come un bambino: «CAPITE?!»

 

Il buio non ha niente da dire.
Torna indietro, deluso.

«Ma non si può scegliere un nemico a caso. No, se scegli uno che magari ha le sue ragioni rischi che vince lui. No. No, poi non c’è epica, uno stronzo qualsiasi contro uno stronzo qualsiasi… a me serviva una CAUSA» dice, alzando la testa e le mani verso la luce. Nell’aria risuona Globus – Preliator.

Alle percussioni, il ragazzo torna a guardare davanti a sé.

«Una causa è qualcosa che ingrandisce chi si prostra. Più giusta è la causa, più grande è l’ombra che proietti quando ti inginocchi. Consegna la tua vita a una causa e non dovrai più preoccuparti di essere qualcuno. Essere irrilevante per una causa va bene! Non devi essere niente! Non devi inventare parlare pensare riflettere ascoltare, no, basta LA CAUSA! IO SONO LA CAUSA! LA CAUSA HA SCELTO ME E IO HO SCELTO LEI!»
La musica sfuma.

«Ma bisogna sceglierla bene» ansima con un sogghigno sibillino «e sapete come si fa? Non è facile. NON-È-FACILE. Una squadra di calcio o un partito possono perdere, e tu perderesti con loro. Come fai a essere sicuro di vincere?»

 

 

 

 

«Volete saperlo, mh?» gongola, mordicchiandosi le labbra.

 

 

 

 

«Bene, ve lo dirò: il segreto è prendere un nemico già sconfitto.»
Annuisce, alza le mani cercando di calmare il coro di voci che sente nella testa, improvvisa qualche passo di danza: «Lo so, lo so… grazie! Grazie, siete un pubblico fantastico, grazie!» concede, facendo un inchino «hahaha, grazie! No, è troppo! È troppo! Grazie, basta! Basta.»
Tace. Guarda verso la platea.

«Così ho cercato qualcuno che credeva in un’idea sbagliata. Ma doveva esserlo platealmente, o non avrebbe funzionato. Dovevo prendere i razzisti, gli omofobi, i cattolici, i vegani, gli sciachimisti. Capite? Capite IL GENIO? Va’ da gruppo di gente che crede la Terra sia piatta, gridagli che è rotonda e BAM! Loro sbroccano e il popolo ti acclama! Che grande momento, è stato» sospira, guardando in alto «gli amici, i vicini, tutti mi consideravano un VIP. Oh, le donne impazzivano, si facevano le foto agli eventi con me, mio fratello parlava solo di me, me, me… i miei mi guardavano con orgoglio. Ero qualcuno, capite? Avevo vinto! VINTO! ERO UN EROE! SONO UN EROE DELLA VERITA’! VENITE A VEDERMI! FATEVI UNA FOTO CON ME, PERCHÈ LA TERRA È ROTONDA E NOI LO SAPPIAMO! IO, L’HO OSATO DIRE! CHIEDETEMI… chiedete…»

 

«Poi…» geme, abbassando la testa e le spalle «è finito tutto. Ho provato… Dio, se ho provato… a tenere viva quell’emozione. Andavo alle manifestazioni. Vivevo nei social cercando i commenti e le immagini che mi permettevano di sembrare brillante, facevo l’occhiolino ai VIP, ma… ma era come grattare un vetro» dice, mimando mani ad artiglio davanti a sé «e scivolavo, scivolavo, scivolavo… pian piano svaniva. Crollava, così. Un pezzo dopo l’altro. Meno like, meno condivisioni, meno foto, dovevo inventarmi qualcos’altro! Ma cosa? COSA?! PERCHE’ DEVO FARE QUALCOS’ALTRO?! HO GIA’ DETTO CHE LA TERRA È ROTONDA, NO?! SONO QUELLO CHE LO DICE! SONO IL SIMBOLO DELLA VERITA’! DATEMI QUALCUNO CHE DICA CHE LA TERRA È PIATTA! DATEMI QUALCUNO CHE
…che mi faccia essere qualcuno.»

Partono gli archi di Mad about you degli Hooverphonic.
La luce del riflettore si affievolisce.

 

«Ho sempre voluto, essere qualcuno» sorride.
Parte la batteria.
Buio.

La vera trama di Superman VS. Batman: giustizia down

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Prologo

 

A Metropolis ogni cosa viene disintegrata dalla rissa di Superman e i suoi compagni di sbronze. Case esplodono. Palazzi crollano. Strade vengono sventrate. Enormi astronavi devastano tutto. Bruce Wayne corre tra le macerie col SUV telefonando al suo amministratore delegato.
«Jack, dovete uscire tutti!»
«EH MA STIAMO IN PAUSA CAFFÈ»
La Wayne tower crolla uccidendo tutti i dipendenti.

 

Africa
Lois Lane e un fotografo hipster si presentano da un signore della guerra circondato da mercenari. Il fotografo ha una macchina a rullino, perché se un giornale ti paga 20,000 euro per un reportage è felice di sapere che le foto potrebbero venire male o non venire affatto. Persino Jamal, capo dei mercenari, realizza che nessuno è tanto idiota. Prende la macchinetta, la spacca, tira fuori il rullino e trova un aggeggio che lampeggia.
«Ah, sei della CIA!» grida, puntando la pistola alla testa del fotografo «ci state localizzando!»
«Jamal, piantala, sarà la spia del flash» dice un mercenario.
«Nono, il vostro capo ha ragione, sono della CIA» dice il fotografo.
«Visto?» fa Jamal.
«Ma se è della CIA ti pare che lo dice? Secondo me è la batteria» dice un altro mercenario.
«SIETE TUTTI DELLA CIA!» urla Jamal, e ammazza tutti.
Superman arriva, salva solo Lois Lane e volano a casa felici.

 

Gotham
Batman ravana di botte un branco di zingari e ne marchia a fuoco uno. I giornali riportano la notizia spiegando che un marchio del genere, in carcere, equivale a una condanna a morte. Perché il carcere è pieno di gente dabbene lì per errori giudiziari, e appena vedono uno col certificato Batcriminal© lo sopprimono. A Metropolis, Lois Lane passeggia davanti a un poligono di tiro, Superman la riporta a casa appena in tempo. Al TG vede il povero zingaro marchiato e la trova una cosa ignobile; uccidere 560,000 innocenti tra macigni e detriti va bene, ma marchiare a fuoco uno spaccino è brutto. Si indigna, poi va alla festa dove finalmente conosciamo Lex Luthor. Si tratta del Woody Allen dei millennials: figlio di papà, mezzo ritardato, balbetta, fa battutine che capisce solo lui, non becca figa neanche se è sfondato di soldi e soprattutto indossa il completo con maglietta e scarpe da ginnastica.

 

brad_pitt_white_sneakers_light_blue_grey_white_suit_t_shirt_sunglassesChe sta male persino a Brad Pitt.

 

Woody Allen Luthor spiega a una senatrice che sì Superman è buono, ma potrebbe diventare cattivo, quindi è il caso di costruire un’arma di Kryptonite capace di ucciderlo. Questo discorso dovrebbe interessare parecchio Clark Kent, purtroppo il nostro supermoralista è impegnato a origliare i sussurri dell’auricolare di Bruce Wayne, che si sta facendo guidare dal maggiordomo verso i sotterranei del palazzo. Visto che si tratta di girarsi, scendere una scala e aprire una porta a vetri ci riuscirebbe anche un deficiente, ma Bruce è obnubilato dal figame e dev’essere diretto tipo macchinina. Superman capisce la sua identità e lo intercetta.

«Cosa ne pensa di Batman a Gotham?» gli chiede.
«Cosa vuole, gli zingari son inevitabili. Lui anche si sforza di bastonarli tutti, ma…»
«Non ha capito. A Gotham la brava gente vive nella paura.»
«SEEEEEH LA PAURA, ADESSO! Non è che tutte-tutte hanno alzato i prezzi, calma. È terrorismo. Le nuove sparano cifre alte perché credono di averla d’oro, poi imparano. Fidati, due settimane e abbassano la cresta.»

«Ma che dice?» fa Clark Kent.

«Poi chiaro, Pattaya è un altro mondo. Scrivi, scrivi. Che ‘ste zoccole di provincia leggano. C’ho fatto quindici giorni con Tony Stark, ok? So di che parlo. Una sera c’ho ‘ste due diciottenni, una che mi spompina, una che mi lecca il buco del culo. Avevo mangiato… cos’era? Bè, quella roba che danno lì, etnico… vabbè insomma mi parte una scorreggia. Tragedia. La diciotthay si stacca e c’ha i capelli lilla, giuro su Dio. Ho piazzato un parimpampum che l’ha trasformata nella dolce Creamy. Questa suda, vomita, collassa. L’altra s’incazza. Non mi entra il pappone con la katana in camera?!»

«Signor Wayne…»

«Aspetta! Il fatto è che nell’altra stanza Tony era fatto come il castello errante di Owl, mi spiego? È che a Tony la bubba mette violenza. Per quello m’aveva chiesto di trombargli anche la sua, sennò finiva che la fistava con l’armatura e l’apriva come un pollo. Successo uguale con Hulk a Cancùn nel 2004, abbiamo dovuto seppellirla a rate dietro una gelateria. Comunque

«Signor Wayne, non tollererò oltre questi racconti disgustosi.»

«Fammi finire. Tony mi piomba in camera con tutta l’armatura, il pappa sbrocca, alza la katana, dice qualcosa nella sua lingua e Tony BWANG!! sai come fa con la mano, no? Spara e spatascia il pappa sul muro. Dovevi vedere la scena, pezzi di scimmia per tutta la stanza, le zoccolette fuori di loro, io ancora col coso blindatissimo di Viagra che non so dove metterlo, quand
«SIGNOR WAYNE!» tuona Clark «io parlavo di BATMAN! La gente di Gotham ha paura per colpa di BATMAN.»

«Ah» fa Bruce «invece a Metropolis con le invasioni aliene fanno una vita che lévati, no?»
«Superman difende la moralità, i valori e la giustizia. Il popolo lo ama.»
«Ma chi se ne frega del popolo, se Martin Luther King avesse chiesto l’opinione del popolo oggi sulla lapide ci sarebbero incisi i like e negli autobus i negri non potrebbero salire. Ora scusami, devo andare.»

Wayne corre a recuperare il dispositivo di hackeraggio e non lo trova più. È stato rubato da un misterioso figone. La insegue, lei scappa gattamortando, poi la trova a un’altra festa. Qui lei spiega di non essere stata in grado di aprirlo e quindi glie l’ha restituito mettendoglielo in macchina.

«Scusa, come facevi a sapere che sarei venuto qui?» fa Bruce Wayne.
«Perché, tu come facevi a sapere che ci venivo io?» domanda lei.
«E quando mi avresti messo il dispositivo in auto?»
«Non so. Non so nemmeno qual è la tua macchina.»
«Io non so nemmeno chi sei tu!»

 

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A Metropolis, Lois Lane prova a mettere la testa nel forno a microonde, ma Superman la salva. Bruce finalmente apre i file crittati degli archivi di Woody Luthor, scopre dove tengono la Cryptonite e visiona filmati buffi di altri supereroi, poi una foto del figone misterioso datata 1902.

«Bestia, è Raffaella Carrà» mormora.

 

Metropolis
Superman si presenta al processo dove deve giustificare la carneficina dell’altra volta. Tra gli invidiosi che vogliono provare a spremergli soldi c’è anche un paralitico a cui Woody Allen Luthor ha regalato una bomba superpotente mascherata da sedia a rotelle. Schioppano e fuori tutti credono sia stato Superman. Batman fa un’incursione nell’azienda di Lex Luthor per rubare la Criptonite, devasta mezza città e riesce nell’impresa, poi dal cielo scende il giustiziere alato.

«Con ‘sto pipistrello hai rotto» dice Superman «ti lascio andare per misericordia, ma non voglio più vederti in giro. E poi uccidi. Il vero Batman non uccide.»
«Ma vaffanculo. Parlando di cose serie, tu sanguini?»
Superman vola via senza rispondere.

«Perché la faccia da puttanella mestruata ce l’hai» borbotta Batman, poi torna a casa, si spacca di crossfit, costruisce una lancia e tre proiettili a puzzette, si fa fare l’armatura dal suo maggiordomo/ingegnere/fisico/meccanico/interior designer ed è pronto a combattere. Va sul tetto del palazzo di Gotham, accende il batsegnale e aspetta. Intanto, Woody Allen Luthor fa rapire la madre di Superman e la fa nascondere, poi rapisce Lois Lane e la butta giù da un palazzo per attirare l’attenzione di Superman. Lui arriva, la salva e Woody lo ricatta: o uccide Batman o sua mamma muore. Superman non ha scelta e va dal pipistrello.

«È ora delle botte» fa Batman.
«Avrò anche ucciso innocenti, ma tu ti credi al di sopra della legge.»
«Non è colpa mia se il popolo elegge imbecilli che rendono illegali le cose belle.»
«Arrenditi. Sono un Dio, non posso perdere.»

Se unissi la strategia militare di Robb Stark, il popolo di #vinciamonoi e la mia carriera scolastica non renderebbe comunque l’idea di quanto Superman perde. Batman lo frulla di cazzotti così forte che al cinema la gente si ripara. Non so cosa si sia calato Ben Affleck per girare quella scena, ma è un nuovo livello. Nemmeno alla sagra della pesca sportiva di Badoere ho visto tante botte ignoranti. Dopo quindici minuti, Superman ha il piede di Batman sulla trachea.

«Mar…ta…» biascica.
«Sta per mortacci tua?»
«Nooh… Mmmmrta…»
«Ah, MARTA! Ne conoscevo una, in Kansas» dice Batman «ma che c’entra?»
«Sua madre si chiama Marta!» grida Lois Lane in lacrime, uscendo dal nulla «vuole che la salvi tu, visto che stai per ucciderlo!»
«’sta Marta mica è bionda, attempata?» fa Batman, togliendogli il piede dal collo.
Superman tossisce: «Come lo sai?»
«Quella che conoscevo era una MILF della madonna. Il marito era morto per salvare il cane e l’aveva lasciata sola a mantenere figlio e pulcioso.»
«Anche la sua» fa Lois Lane.
«Eh, ma la Marta che dico io svoltava i soldi in un bar.»
«Anche la sua!»
«Nel retro, dico. Spurgava scroti a camionisti e piloti Jaeger di passaggio. Abituata com’era ai grezzabbestia quando m’ha visto s’è infoiata. Io manco avevo voglia, dovevo solo far benzina. Però un minimo di beneficenza bisogna farla, mica siamo animali. Così le ho allungato ‘sti 32 dollari e l’ho obliterata in cesso. Tutta contenta, durante e dopo. Ma non dirmi che era…»

Lois Lane sgrana gli occhi e muove impercettibilmente la testa.

«Era cosa?» chiede Superman, rialzandosi a fatica.
«Mmmmnniente» fa Batman «dai, dai, amen della gente morta, facciamo la pace. La tua famiglia sembra simpatica, dopotutto.»

No, ok, ‘sta parte è inventata.
Nel film per diventare amici gli basta scoprire che la mamma ha lo stesso nome.

 

Bill Murray What“A Putin e Al-Baghdadi basterebbe così poco!”

 

Woody Allen entra nella vecchia astronave dei nemici di Superman e crea un Uruk-ai, lo ingrandisce con Photoshop scala 1:40 e lo libera in centro. Il mostro fa quello che fa qualsiasi mostro in CG, ossia urla senza motivo, agita molto le possenti spalle senza motivo e spacca roba senza motivo. Fugge dagli elicotteri militari su un grattacielo. Immagina che bello vivere al trentesimo piano, sentire un tonfo e poi vedere un cazzo di tre metri che ti penzola davanti alla finestra. Superman non ha voglia di farsi un altro processo per strage, così lo lancia nell’atmosfera. Il governo USA ne approfitta per sparare a entrambi una testata nucleare. Il mostro fottesega, atterra in una zona desertica dove arriva Batman, poi raggiunto da Superman un pelino sgarruppato. Sembrano farcela, ma Lois sono almeno tre minuti che non sta per morire, così si getta in un laghetto per annegare. Batman si trova da solo contro l’Uruk-ai. Il mostro spara un’alitata di fuoco in grado di incenerire palazzi. Batman chiude gli occhi. La fiammata esplode in tutta la sua devastante potenza e il pipistrello sembra fottuto quando SE PER CASO CADESSE IL MONDO IO MI SPOSTO UN PO’ PIU’ IN LA’/ SONO UN CUORE VAGABONDO CHE DI REGOLE NON NE HA, pompano le casse.

«Signora Carrà!» esclama Batman, aprendo gli occhi.
Il figone misterioso si svela essere Wonder Woman, che armata di scudo e spada mena il mostro.

«E dimmi» le fa Batman «tu sanguini?»
«No, figliolo, ho il superpotere della menopausa» fa lei, frustando il mostro.

Il mostro crepa perché Superman si sacrifica e muore (vabbè, figurati). Seguono quaranta minuti di funerale, epiloghi vari, scene di rara inutilità, Bruce Wayne che decide di cercare Aquaman per chiedergli se non si vergogna, gente che lascia ghirlande e scrive “qui giace Superman, se cercate il suo monumento guardate stocazzo”. Poi Lois Lane va a dormire e lascia il gas aperto.
Primissimo piano della bara di Superman.

Per un istante la terra si solleva.

 

Fine.

Fuck yeah, Ikea

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Domenica mattina. Tempo di dormire e scopare e dormire e
«Dobbiamo comprare le cornici per la casa! Fare il gallery wall! Arte! Design!» grida la mia soave compagna, poi mi spara il caffè in faccia, sporge dalla finestra il cane, ne spreme il contenuto sulle strade sottostanti e possiamo partire per l’Ikea.

Parcheggio tra un SUV con la targa tedesca e una Porsche con targa spagnola. Prendo il carrello e avanzo tra falangi di gente mai vista per strada. È come se un’occulta organizzazione terroristica allevasse queste creature e poi, all’alba, le riversasse qui. All’improvviso realizzo che l’organizzazione potrebbe essere la figa.

«OH AMORE GUARDA» dice una voce maschile alle mie spalle.
Mi giro.

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Il tizio muore sull’asfalto nell’indifferenza generale. Le porte a vetri si spalancano con uno sbalzo termico di 59°. Un’allegra armonica suona un motivetto dagli altoparlanti. Il lampadario Splokkenbeurk di carta igienica a 22 euro e 49 centesimi! Mi precede una famiglia di bomboloni. Lui con la faccia che poi vedi sul Gazzettino sotto il titolo “uccide la moglie e fugge in Moldavia”, lei una medusa di stracci neri e stivaletti modello Joe Tempest con tacchi rinforzati titanio, preceduti da due palle di lardo alte mezzo metro che producono più rumore dell’intera industria siderurgica.

«MAMA GWARDAMI!» barrisce un botolo, poi galoppa verso un letto matrimoniale, inciampa nel tappeto di fintomontone e plana su una poltrona distruggendo lampada, tavolino, cornici, lampadari. A manina, un putto alto sessanta centimetri ulula come una sirena antiaerea. Una ragazza zompetta in una cucina di 4mq:

«Marika, tocco i due lati! Fammi una foto!»

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Una vecchia di età presocratica tenta di sedersi su un divano ecopelle e piazza una brena tale da costringere lo staff a rendere inagibile il reparto. Una coppia di gay limona in centro corsia da quarantadue minuti, guardandosi attorno nella speranza qualcuno si scandalizzi o dica qualcosa di omofobo. Una sessantenne sciabatta dentro tacchi 12 di tre numeri più grandi lanciando occhiate maliziose. L’armonica suona felice. Sono all’inferno.

«Ti piace quella camera?» domanda la mia donna.

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Sì. È meravigliosa. La voglio. Voglio le lampade da prendere a testate tutte le mattine quando mi alzo e gli spigoli dei comodini altezza gengive quando mi giro. Voglio i deliziosi cavi in bella vista. Voglio il letto pro-ana in truciolato che se pesi più di un bambino del Botswana cede. Voglio i lampadari di carta a ricordarmi che di solido, nella vita, non ho nemmeno la luce. Voglio copriletti bianchi, tappeti bianchi, cuscini bianchi, tende bianche, vasi bianchi, affinché appena torno da un lavoro precario io abbia la gradevole sensazione di precipitare nel vuoto. Solo quando mi assalirà l’horror vacui potrò guardare le ragnatele e scoprire che in realtà dormo in uno sgabuzzino.

«Hai di meglio da proporre?» domanda la guardiana dell’utero.
Mostro la foto nel cellulare.

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«Sì vabbè, ciao nonno» sospira, tirando dritto.
«Una camera così ci costerebbe un terzo.»
«Tappeto zebrato incluso?»
«Ma perché voi donne vi fissate sulle puttanate?! Sto dicendo ch
Eccoci nella sezione salotti.

«Casa nostra sarà bianca con dettagli neri e rossi» dice una trentenne con la faccia da gangbanger, passandomi di fianco. Mi domando quale mente malata possa arredare casa ispirandosi alla sbarra di un passaggio a livello, ma subito
«A me piace uno stile molto particolare, sai» dice un’altra in felpa Gucci.
«Che tipo?» domanda il marito.
«Eh… Ho un sacco di idee, ho un dono per l’interior design» fa lei.
«Sìsìsì, figurati se penso tu sia una di quelle che vedono due foto su Facebook coi mobili di vernice scrostata e i fiorellini, leggono shabby chic e si credono arredatrici d’interni!»
«Ha ha ha» ride lei.
«AAAAAAHAHAHAHA MAGARI I MOBILI FATTI COI BANCALI DEL CAZZO HAHA HAHAHAA E LE GABBIETTE DEGLI UCCELLINI AAAAHAHAOHOHO QUALE TROIA DEMENTE POTREBBE MAI VOL
Lei gli spacca un vaso in testa.

Al bar vedo un’altra coppia. Lei tirata come fosse al matrimonio della sorella, lui pantaloni della tuta e scarpe collezione Prophughy 2003. Doppio passeggino coi loro trofei da scopata, uno s’è cacato addosso, l’altro vuole il saccottino. Ta ta tararà, tararà ta, canta l’armonica. Intere tribù in processione sono accorse per esprimere un parere su un salotto che, montato a Milano, crolla alla prima scossa di terremoto in Basilicata.

«Su questo non puoi dire niente» dice la mia consorte.

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Ma infatti.

Immagino la delizia di stare disteso lì, tremando a ogni scricchiolio del divano col terrore gli scaffaletti soprastanti crollino uccidendomi. La lettera Z in acciaio, lassù, vigile, pronta a conficcarsi su chiunque osi ruttare troppo forte. La lampada di plastica col cavo che pesa più di lei e come tenti di accenderla ti arriva in faccia. In questo salottino si respira l’epica del quarantenne felpa&canna che dai bastioni del suo castello respinge l’assalto delle responsabilità.

«Dai, proponi, invece di fare il disfattista» incrocia le braccia la suggitrice.

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«Oh, tesoro, ma certo» mi abbraccia «poi quando tornerai dai campi i nipotini ti chiederanno di raccontare la guerra di Albania.»
«E allora viviamo nella rete delle palline del McDonald.»
«No, meglio nel delirio di un vecchio latifondista del 1800.»
Ta ta tararà, tararà ta.

Su una scrivania, un uomo della mia età è a pecorina mentre un commesso gli stantuffa nel culo un martello pneumatico con la punta a pugno. La moglie gli accarezza la testa e lo tranquillizza: stanno acquistando il sublime divano BUDDAK, millesettecento euro per plastica, truciolato e pregiato acetato cinese. Terminato il pagamento ci si siedono sopra e il Buddak si rompe in tre pezzi, ma per quel breve istante hanno assaggiato il paradiso. Un ragazzo prende un deodorante per ambienti, lo esamina con attenzione, estrae un accendino.

«Voglio vedere se è davvero infiammabile» dice, poi si immola.

Siamo qui dentro da due ore. Ormai ho raggiunto una sorta di torpore atarassico, niente m’importa, ho solo fame e voglia di andarmene. Usciamo nel parcheggio con due tappetini per il bagno, canovacci e stracci, attaccapanni, una bottiglia, un set di bicchieri.
E nessuna cornice.

 

Torneremo domenica prossima.