Quello che sta per uscire non è un romanzo; è più un racconto lungo. Costerà come un mojito costava nel 2000, perché mi piaceva l’idea che qualcuno mi offrisse un drink per una storia. Ha un formato particolare: niente descrizioni, niente punti di vista estranei, poca trama e tanto personaggio. È un inizio, però. Perché da gennaio, Ario diventa un mensile.
Ripeto: per tutto il 2023, ogni fine del mese, ci sarà un episodio autoconclusivo.
È un po’ come un albo a fumetti, e difatti ha un po’ più delle pagine di Tex. La prima stagione inizia questo Natale e finirà a Natale 2023. Che ci sia o meno una seconda dipende da molte cose.
Alcuni si chiederanno perché, dopo aver pubblicato con Salani, scelgo di pubblicare su Amazon. I motivi sono due: il primo è che ho già due romanzi in attesa (tra cui Cosma Manera) e progetti in corso. Il secondo è che nessuna casa editrice anche solo vagamente orientata al business pubblicherebbe Ario.
Perché Ario è un personaggio di un altro secolo.
È un fallito che non accetta il proprio destino, uno sconfitto dagli altri e da se stesso, cacciato a furia di querele e shitstorm da ogni piazza fisica e digitale. È un uomo disgustoso che fa e dice cose disgustose, che riesce a essere un boomer a 40 anni e ancora fuma, beve, va nei bar e usufruisce della prostituzione analogica in un mondo che s’è ripulito. È l’ultimo dinosauro di una razza estinta oltre vent’anni fa.
Ma è anche l’unico vero anti establishment in un mondo Marvel, Apple e Disney+.
Per me il personaggio di Ario è l’ultimo barlume di umanità in un intrattenimento ormai pulito, piallato, asettico, sterile, che non dice più niente però in maniera molto inclusiva e innocua. Film, fumetti, romanzi, serie TV oggi fanno propaganda, e dato che ci campo, non ne posso più. Proprio come nel 2006, quando facevo il rapper e dovevo sfogarmi perché tutti si prendevano sul serio, Ario sarà la stessa cosa.
Per un anno potrete leggere oscenità di un saldatore di porto Marghera ambientati in una città immaginaria per non incorrere in querele. Accadranno furti, scippi, delitti, bugie, chiavate, overdosi, si faranno battute miserabili – cringe, si dice oggi – perché la vita e le persone sono complesse, stratificate, contraddittorie. Ci saranno volte in cui si faranno solo chiacchiere in un bar. Altre in cui si parlerà molto poco e si farà tanto.
Non troverete l’odore e il sapore di plastica che c’è in giro oggi. Cosa che non so quanto sia buona, ma tant’è.
Dopo Il colore della tempesta per Salani, dopo essere rientrato in possesso dei diritti del primo La Storia la fanno gli idioti, era tempo di mettere nero su bianco tutte le aberrazioni scritte qui. Per quelli di voi che hanno molto pelo sullo stomaco, ebbene sì: il sequel è uscito. All’interno troverete molte storie che conoscete e una che non solo non conoscete: non è nemmeno il caso scriverla in Internet.
Sopra il frinire dei grilli si sente il latrato allarmato dei babbuini, il ronzare delle zanzare, il richiamo cupo e ripetuto di un leopardo e il lento, annoiato verso dei barbagianni.
Attraverso una grande serratura di ottone, alla luce di una candela, c’è un paravento di legno massiccio e vimini intrecciati, una toletta con spazzole d’argento e boccette di vetro. La mano dalla pelle marrone, con le unghie rosse e due anelli d’argento, stringe il cotone di una camicia verde militare con le tasche sui pettorali. Una mano bianca con un orologio d’acciaio la ferma e la abbassa, poi risale e si insinua in un mare di capelli neri. Le unghie rosse scendono verso il cinturone di cuoio che regge due pantaloni bianchi sporchi di terra.
In qualche stanza lì attorno, qualcuno prova a suonare un pianoforte.
Le unghie rosse trovano la fibbia e la fanno tintinnare. La voce di un uomo sussurra in una lingua strana. La voce della donna risponde divertita in un’altra. Le dita affusolate s’appoggiano sui fianchi dei pantaloni bianchi, si contraggono e stringono il cotone sporco di polvere e fango. La mano con l’orologio d’acciaio è ancora tra i capelli mori che sotto di lei si muovono piano, avanti e indietro, mentre si sentono schiocchi liquidi e una voce roca geme.
Il pianoforte manda note lunghe e malinconiche.
La mano con l’orologio accarezza i capelli, si solleva fino allo schiocco di un bacio. C’è una tunica azzurra che risale, si volta mostrando una collana di legno intagliato. Il suono della cerniera è minuscolo e risuona appena nel frusciare dei vestiti, poi la tunica scivola giù e mostra un seno minuscolo, capezzoli neri e una cicatrice poco sopra l’ombelico.
La mano con le unghie rosse la copre. La mano con l’orologio la scosta e la gira.
Ci sono glutei neri, lisci e lucidi di sudore, una mano bianca li stringe e la luce giallastra della candela li fa risplendere. La camicia verde sparisce, mostra peli bianchi e neri e un ciondolo con una zanna di leone. L’avambraccio di peli schiariti dal sole si stringe attorno alla pelle nera, mentre le unghie rosse massaggiano avanti e indietro, muovendo il polso con pazienza ed esperienza, finché la fibbia dei pantaloni tintinna contro il pavimento.
Distante e ovattata dai muri, la voce di una donna chiama e ripete un nome che rimbomba in androni e corridoi.
C’è un cigolare di molle e legno. Un refolo di vento fa tremolare la candela. Su vecchie lenzuola bianche di fiandra sgualcite c’è un piede nero con la pianta bianca, alla caviglia c’è un filo di conchiglie, le cosce nere sopra gambe bianche, pelose e nervose.
La mano con l’orologio stringe i fianchi neri che si muovono avanti e indietro. Una voce femminile geme e trema, tra schiocchi di baci che diventano un ansimare sovrapposto. Quando la voce maschile sale, la voce femminile sibila per richiamare al silenzio. Braccia bianche e robuste cingono la schiena e sussurrano qualcosa.
Da qualche parte, sandali di cuoio risuonano sul marmo di un pavimento e rimbombano in un androne.
Le braccia bianche girano il corpo nero, affondando tra le lenzuola nella penombra. Sollevano i fianchi neri come fossero un giocattolo. C’è un grido strozzato femminile, poi gemiti soffocati dalla stoffa. Una schiena bianca sgraziata e asciutta s’inarca all’indietro e poi in avanti, abbracciando l’ombra che gli va incontro in uno schioccare di carne secco e veloce.
Il suono dei sandali sia avvicinano assieme a un tintinnare metallico.
C’è lo scatto della serratura e una voce roca femminile lancia un urlo di rabbia. Le gambe nere si annichiliscono, il torso bianco e sudato scatta di lato. Le unghie rosse si stringono attorno alle lenzuola, il braccio bianco con l’orologio si protende a mano aperta. Lo sparo rimbomba tanto da far fischiare le orecchie. Il braccio bianco cade e qualcosa di rosso chiazza il paravento. C’è il suono dei piedi nudi, il corpo minuto e perfetto di una ragazzina nera che corre su un pavimento di marmo grigio.
Dalla stanza provengono urla roche di una donna che inveisce in una lingua strana. Attorno a lei porte, passi e serrature crescono attorno come un temporale.
Un’altra donna grida. Da qualche parte un neonato piange.
Quando uscirono dal portellone di tribordo vennero investiti da una folata di pioggia. Il cielo era nero, percorso da nuvole e lampi. Decine di marinai si accalcavano sulla paratia. Vide dei ragazzi in uniforme mimetica con dei fucili a tracolla che scendevano giù. Mario gli infilò un giubbotto di salvataggio arancione, stringendoglielo bene attorno ai fianchi, poi gli calcò un elmo bianco sulla testa. Appena Domenico vide i fucili fece dietrofront. Mario gli afferrò il braccio.
«Donde galoppi?» «Siete pazzi?» urlò Domenico per sovrastare il temporale «Cosa volete fare con questo tempo? Perché quelli sono armati?» «Ci sono i pirati della Malesia, amigo!» esclamò Mario con gli occhi spiritati sotto la pioggia. Un tuono fece vibrare l’intero scafo.
«Ma voi siete fuori di testa!» gridò Domenico, divincolandosi e correndo dentro. Mario lo inseguì, gli afferrò il braccio e lo lanciò contro la parete. «Vamonos! Dirai alla Tigre di Mompracem che sei un cittadino del mondo e andrete a puttane insieme!» «Chi l’ha detto che io devo andare lì!? Sono un civile!» Il ceffone lo tramortì, paralizzandolo per lo schiocco e la vergogna. «Ooh, era da quando t’ho visto che volevo farlo» disse Mario «Senti, ricordi a Singapore, quando avevi paura di scopare?» «Cos… cosa c’entra?!»
«Avevi paura delle piattole, delle malattie, che ci volessero ammazzare? No! Eppure era statisticamente probabile. Anzi, ho un vago prurito che promette sorprese. Tu…» Domenico tentò ancora di divincolarsi, ma Mario lo tenne fermo: «… Tu avevi solo paura venisse palesata la tua verginità. È vero o no?» «Quelle sono armi! Le odio, va bene? Mi fanno paura!»
«Domenico, ascolta questo balordo marinaio drogato: se sconigli diventerai uno dei tanti intellettuali che scrivono sui giornali perché non hanno mai vissuto niente. Se esci potrai sempre guardarti allo specchio e dire sì, sono mezzo giallo, ma almeno non scrivo su “Repubblica”. E questo nessuno te lo potrà mai togliere: vuoi salvare i peones o vuoi scrivere su “Repubblica”?»
Domenico digrignò i denti. Non voleva scrivere su “Repubblica”. Solo che non riusciva a prendersi la responsabilità di pronunciare una risposta.
Fuori, il mare si stava gonfiando. Il Veneto rollava su onde grandi e minacciose. Folate di pioggia entravano dal boccaporto lasciato aperto, infradiciandogli le scarpe, con l’aria che odorava di salsedine e paura. Si frugò in tasca e tirò fuori un foglio bianco stropicciato e fradicio, reduce di una delle tante bozze per le lettere dei marinai. Prese una matita e scribacchiò in fretta una lettera farneticante, poi la diede in mano a un marinaio.
«Se muoio, per favore, dallo a qualcuno.» «Pure a mi’ madre va bene?» chiese quello. Mario lo spinse fuori.
Scese la scaletta di corda finché i piedi toccarono il fondo dello Zodiac. Il medico abbronzato lo fece sedere al centro, mentre su entrambi i lati quelli del San Marco si erano sistemati con i fucili puntati verso l’alto. Mario gli piombò quasi in braccio e andò al timone, poi appoggiò il piede sullo scafo e allontanò il gommone dalle rassicuranti fiancate grigie del Veneto, dando gas.
«Rega’, me raccomanno!» gridò il medico «Mantenete le distanze e non salite a bordo finché non abbiamo capito cosa succede. Teneteve i guanti! Se per caso entrate in contatto con uno di loro poi nun ve toccate la faccia, la bocca o gli occhi!» gridò per coprire il frastuono del motore e della pioggia.
Sanna, il comandante del San Marco, alzò la mano. Era un uomo basso e tarchiato, con la mascella squadrata e gli occhi gentili: «Aiò, nessuno spara se non ci sparano loro. Quando ci avviciniamo, tu ti distendi» disse a Domenico. Lui annuì a occhi sgranati, poi il gommone sobbalzò e si trovò sospeso per aria, crollando sul pavimento e battendo il casco contro il ginocchio di un fuciliere che imprecò. L’altro gommone procedeva parallelo.
«Dio mio» mormorò Domenico, osservando il mare in tempesta «Dio mio, aiutami.» «Pensa a “Repubblica”, Ching Chong!» gridò Mario.
A bordo della Stayin’ alive, Thanh guardò i motoscafi dei pirati arrivare come fossero un plotone d’esecuzione. Riconobbe il capitano con il turbante blu, che sogghignò e le mandò un bacio con un gesto plateale. Accostarono con una manovra rapida e collaudata e nessuno osò opporre resistenza. I pirati saltarono a bordo e mentre un paio scesero in coperta, gli altri gli puntarono i fucili in faccia. Il capitano si fece largo, afferrò Thanh per il collo e le sussurrò qualcosa, trascinandola verso il portellone. Lei si aggrappò ai bordi con tutta la forza che aveva, determinata a rendergli la vita difficile.
A mezzo miglio, Domenico si teneva alla cima per evitare d’essere sbalzato fuori dallo Zodiac che rimbalzava sulle onde, per poi farli ripiombare sulla superficie con un colpo secco. Sanna si sistemò a prua, lanciò un grido all’altro gommone e fece il gesto della vittoria. I gommoni si separarono; Mario virò a sinistra, gli altri a destra. Un marò afferrò Domenico per il giubbotto di salvataggio e lo distese contro il pavimento.
«Ajò, facciamoci sentire. Cantate!» ordinò Sanna, e i marò intonarono una versione prima timida e poi corale della sigla del Grande Mazinga. Sul fondo bagnato del gommone, Domenico aveva così tanta paura che si mise a piangere. Sarebbe morto lì, dall’altra parte del mondo, sotto un cielo di paura, tra gente che canta sigle dei cartoni animati.
Sulla Stayin’ alive il pirata lasciò il collo di Thanh e l’afferrò per i capelli, poi le assestò un pugno in pieno viso. Il naso già rotto le mandò una fitta di dolore e il mondo perse colore, ma continuò a stringere la maniglia del boccaporto. Lui tentò di strapparle via la mano senza riuscirci, poi sfilò il coltello dalla cintura e si fermò con l’arma a mezz’aria. Thanh capì che sarebbe morta lì, e a quel punto non le importava più. Chiuse gli occhi e nello scroscio della pioggia sentì esplodere una cacofonia di parole in una lingua che non conosceva. “Ah infami, annatevene o ve corcamo”, “cravadinci in su cunnu”, “Vaffammocc a mammeta”, “ande’ cagar sue ortiche, via!”.
Il pirata, viceversa, sembrò comprenderla molto bene.
È il 1990 in un paesino di provincia. Una compagnia di ragazzini drogati, dato che la figa li evita, fonda una band di metallo pesante. Per sentirsi legittimati vanno in un pub a Milano coi teschietti e le ragnatele finte. Si drogano, bevono, si drogano, farneticano del diavolo, si drogano ed eleggono il loro leader, Grande Contado, unico dei presenti in grado di leggere e scrivere. Grande Contado decide di sottoporre i propri accoliti a delle prove di coraggio via via più idiote.
Si parte dal bere un’intera bottiglia di acqua gasata d’un fiato senza ruttare, con tragiche conseguenze. Poi si va in crescendo. Uno si getta da un ponte e atterra in piedi nella fanghiglia. Altri devono bere il sangue delle caprette del vicino. Altri si devono drogare moltissimo. Altri si fanno tatuaggi, piercing, tagli, uno addirittura decide di incidersi nella carne il pentacolo demoniaco e lo invia agli altri in cerca d’approvazione.
«Grande Contado, ammirami: stanotte ho inciso sulla pelle il mio amore per Satana.»
«Paolo sei uno stronzo, questa è la stella di David.» «David Beckham? Il calciatore?» «È la stella degli ebrei, imbecille!» «Beckham è ebreo?!» «NO TU SEI STRONZO, PAOLO»
La vita procede verso il sert tra pentacoli mistici, droghe psichedeliche e seghe, finché Grande Contado scopre che Grezzina, la sua unica ex bipede, ha osato mettersi con un altro; Poldo, un ventiseienne disoccupato con la passione delle droghe pesanti, l’adorazione dello diabolo e la paghetta settimanale. In preda ai deliri dell’LSD, Grande Contado sancisce che Grezzina è la reincarnazione della madonna e dunque va assassinata.
I contadanisti non trovano obiezioni valide.
Il piano iniziale è sfidare Grezzina e Poldo a una prova di coraggio: dovranno restare dentro un’automobile in fiamme e fuggire un istante prima che esploda. Essi acconsentono perché… bè, perché anche concentrandosi in due non trovano un motivo valido per rifiutare. Il Grande Contado fa mettere dei petardi nel serbatoio della benzina. La macchina prende fuoco. Dopo una decina di minuti il fuoco si spegne, i due si stufano ed escono. Al bar con le bare di poliestere e gli scheletrini di plastica, purtroppo, c’è scorno e delusione.
Grande Contado se ne esce con un piano alternativo: condurre la madonna 2.0 e Mr.Produttivo nei boschi, poi trucidarli. Poldo e Grezzina ricevono quindi l’invito a presentarsi senza cellulare in un bosco nel cuore della notte con la raccomandazione di non dirlo a nessuno. I due innamorati accettano perché… bè, perché che c’è di male? Arrivati nel nulla trovano i contadanisti con dei coltelli in mano e una fossa già scavata. Li uccidono e li buttano dentro, poi Grande Contado ci piscia sopra.
«Capo, non dovrebbimo cancellare le tracce?» domanda un grezzo. «No, no, domani vieni qui e versi un flacone di ammoniaca in giro e si crea un campo magico di invisibilità, l’ho visto su CSI.» «Pale e picconi li portiamo via?» «Noo, quelli li porta lo diabolo.»
Il padre di Poldo, non vedendo il figlio rincasare, fa domande ai contadanisti. Loro gli dicono che Poldo e Grezzina sono partiti per l’Europa in fuga d’amore. Il padre è scettico, calcolando che suo figlio non è mai uscito dalla campagna e gira con 1500 lire in tasca e tre MS senza filtro. Va dalla polizia e riferisce. «Eh, sarà così» dice il poliziotto senza staccare gli occhi dal televisore «Ai ragazzi ci piace viaggiare.» Anni ’90, veery nice!, canticchia la TV. «Scusasse, potrebbi parlare col questore?» domanda il padre. «No, sta in TV a parlare di dittatura sanitaria.»
Per i successivi sei anni il padre gira l’Europa in cerca di suo figlio mentre nel paesino partono per lunghi viaggi operai tossicodipendenti, motociclisti, prostitute e studenti; macchine prendono fuoco, c’è un’improvvisa moria di capre, appaiono simboli del cazzo tipo pentacoli e corna dovunque e i contadinisti hanno un’improvvisa disponibilità economica che gli consente di andare in vacanza e fare feste. Nessuno ci da peso.
La cumpa del Grande Contado è ormai allo sfascio più assoluto e distrutta da sostanze stupefacenti. Due membri vivono in uno chalet nel bosco, invitano una tizia per un threesome, ma essendo a corto di esperienza nel dubbio le sparano in faccia. In preda al panico chiamano Grande Contado, il quale arriva strafatto e vede la ragazza morente.
«Mi fai schifo, non sei nemmeno riuscito ad ammazzarla» dice. «Eh figa scusa se a me i teschietti di plastica non hanno insegnato le basi.»
Grande Contado barcolla in giardino con la moribonda e la seppellisce lasciando fuori braccia e gambe, poi se ne va. La sua missione è compiuta. Raggiunge la fidanzata che è piena di alcool, eroina e cocaina, e decidono di farsi un giro in campagna con la loro Punto. Salgono su un ponticello e si incastrano, a quel punto Grande Contado fonde il motore tentando di disincastrarsi, poi fugge a piedi nella campagna in cerca di qualche contado da sequestrare, attraversa il ponte e gira a destra.
In stato d’agitazione spiega ai militari che venti, forse trenta uomini li hanno assaltati per sdrupare la sua fidanzata, ma egli ha resistito alle armate di Mordor conducendoli su un ponte stretto, dove il loro numero non contava niente, e una volta lì ha fatto strage dei bruti. Terminata l’arringa vomita e sviene. I Carabinieri raggiungono la Punto dove trovano la fidanzata collassata con la schiuma alla bocca. Portati all’ospedale, lei urla che hanno ammazzato questo e quella e che ci vorrebbe proprio un pippotto per riprendersi. Le indagini consistono nell’andare qui e lì, fotografare, mettere le manette e condurre gli idioti in questura.
Nel 2004 comincia il processo.
L’avvocato difensore chiede subito al giudice se è possibile sentire il parere di un esorcista, indispensabile per capire se questi ragazzi erano in grado di intendere e di volere oppure erano in preda a una possessione demoniaca. Il pubblico ministero invece, forte del fatto che stringe a sé un crocifisso, percepisce nell’aria “la presenza del maligno”. Tutto vero. La notizia della setta diabolica fa il giro del mondo, così al processo arrivano addirittura le telecamere della CNN. I giornalisti italiani martellano intervistando preti, esorcisti, raccontando dell’incombente minaccia, tra i giovani, dei giochi di ruolo e soprattutto dei violenti videogiochi per computer, capaci di avvicinare i fanciulli al diavolo.
Dopo un mese la gente si rompe i coglioni. Ma non i giornalisti.
Per loro quella storia è lo scoop del secolo. Peccato che tanto per cambiare sono arrivati tardi e quello che hanno trovato non somiglia affatto a uno scoop, quanto a un abisso di ignoranza, imbecillità, incapacità, nullafacenza, lassismo, disinteresse e superstizione. Quindi hanno un’idea: mentire senza vergogna.
Nel 2006 fanno apparire strani testimoni irriconoscibili, ma che a differenza dei contadinisti parlano in uno splendido e aulico italiano pur dicendosi zappaterra. Essi raccontano di un fantomatico terzo cerchio di mandanti, ricchissimi e internazionali, che avrebbero assistito ai riti. Perché notoriamente Epstein&Co. affiderebbero la propria reputazione a tre drogati analfabeti in provincia di Varese che s’inculano le capre e infilano mortaretti nei serbatoi delle utilitarie. Purtroppo, a differenza delle redazioni, l’Italia non vive più nel 1950 ma nell’epoca di Internet. Il tentativo di millanteria funziona vendendo documentari negli Stati Uniti, che essendo la patria del ritardo mentale li comprano entusiasti.
In Italia viene snobbato perché a differenza delle redazioni, siamo usciti dal medioevo.