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Una vita degna di essere vissuta

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E’ mattina. Apro gli occhi, scendo in cucina con cautela giacché l’87% della superficie calpestabile è occupata da cestini e devo muovermi in orizzontale uso South Park. Non so quando casa mia è diventata il merdaio di un barbone ossessivo compulsivo, ma sospetto la lappascroti che convive con me mi abbia buggerato per l’ennesima volta. Entro in cucina, accendo la macchinetta del caffè, mi giro per svuotare il filtro. Mi blocco. Quando vivevo da solo c’era un unico cestino dove buttavo la spazzatura senza razzismi: sacchetto dell’Auchan, giù calci fino all’estremo, un nodo, cassonetto. Fine. Ora c’è quello del vetro, della plastica, dell’alluminio, della carta, dell’organico. A volte mi trovo con un preservativo usato in mano e mi domando se devo spremerlo in uno e gettare il goldone nell’altro. In salotto c’è quello per la Caritas e quello del “non riciclabile” perché a tutti capita di dover smaltire dell’Uranio, di tanto in tanto.

Assonnato, butto i fondi in quello della plastica.
«Tesoroooo» bramisce la fica di sopra.

L’udito di tale creatura domestica è in grado di percepire il suono di ogni cestino, quasi fosse la pioggia nel pineto di D’Annunzio. Raccolgo a mani nude il fondo di caffè e lo butto nell’organico. Faccio il caffè. Bevo. Vado per cacare e invece del portariviste trovo un cestino rosa.

Apro per vedere se ci sono le riviste.

 

 

 

 

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No.
Niente riviste.

Appurato che evidentemente in città c’è anche il cassonetto per gli assorbenti usati mi siedo per defecare. Pochi istanti dopo la fodera di carne-ciccipucci bussa alla porta. C’è da buttare l’umido, dice. In strada percorro il tragitto a passo svelto tenendo l’orrore ben distante dal corpo, come un autostoppista che porta in pegno un grumo di avanzi. Un vicino esce di casa, guarda il sacchetto trasparente. Sorride.

«Mangiato pesce ieri?» gongola, osservando il contenuto «stiamo facendo i soldi, eh? Io starei attento, con tutti i malintenzionati…»
Cinque metri.

«Ah, sono le ossa del polletto della rosticceria qui dietro!» nota «poca voglia di cucinare, eh?»
Sei metri.

«Non bisognerebbe comprare tutta quell’insalata se poi non si mangia, eh? Va a male, eh?»
Sette m
FRAP

I sacchetti per l’umido sono della stessa consistenza delle inchieste del Fatto quotidiano, basta esporli alla luce del sole per più di dieci secondi e si polverizzano. Ora la strada è cosparsa della mia vergogna, inclusi un paio di preservativi di cui uno con uno sbaffo di merda. Io e il vicino li osserviamo insieme.

«Non credevo a tua morosa piacesse nel culo» commenta, rapito.
La cosa strana è che io non uso i preservativi.

Raccolgo tutto a mani nude. Con gli arti che grondano materia in putrefazione apro il cassonetto dell’umido, tatticamente disposto sotto il sole. Appena apro il coperchio nel quartiere parte una sirena antiaerea e tutti indossano maschere antigas. Io non ne ho meco e vengo tramortito da afrori non appartenenti a questo mondo, visioni mistiche, intuizioni trascendentali. Satana esiste. Dio non è vivo. Tra le antiche mura di Ebla un pastore ha gridato il mio nome.

Richiudo.

Torno a casa barcollante e tutto ciò che voglio è non pensare a quanti anni mi restano da vivere in questo modo, ma sulla soglia la slabbrata mi sporge il sacchetto della carta. Del resto è quello che si riempie prima. Lo spam via mail è stato dichiarato fuorilegge nel 2004, mentre a tutt’oggi chiunque abbia una stampante è libero di cagarmi nella casella delle lettere senza venire per questo punito o giustiziato.

Appallottolo una busta contenente i vaniloqui di stronzi qualsiasi quando trilla il cellulare.

La fedifraga che sugge i miei testicoli mi comunica che anche la plastica è al limite. Riattacco. Giunto al cassonetto lo trovo ridotto a un cumulo bianco. Nel quartiere siamo talmente sovrastati da questa cazzo di pubblicità che le campane si riempiono in mezz’ora, poi diventa un totem attorno al quale depositare altra carta. A questo va aggiunto che anonimi sciacalli, nottetempo, profanano codeste piramidi pagane in cerca di libri integri da poter rivendere alle bancarelle. Per fotterli alcuni prima di buttarli strappano le pagine, così gli sciacalli s’incazzano e il giorno dopo trovi messaggi a pennarello contenenti parole quali “la povera gente”, “paese di merda”, “vergogna” tutte separate con un puntino e scritte in italiano a cinque stelle. Rovescio il sacchetto sopra altra carta. Una ragazza con il badge del comune si avvicina sorridente e si congratula per il mio impegno civico.

La uccido e ne profano sessualmente il cadavere.

Localizzare la campana della plastica è più facile, basta seguire le urla dei dannati che tentano invano di far entrare la roba a cazzotti. Mi metto in fila, tremante. A chi capiterà il WRAM? A me? A quello prima? Quello dopo? Al mio turno premo con tutta la forza che ho in un crescendo di scricchiolii finché, puntuale come la morte, WRAM. WRAM vuol dire che dall’altro buco della campana è detonato uno spruzzo di bottiglie che investe a valanga una vecchia di passaggio, tramortendola. Raccolgo merda dal selciato mentre gli altri si affrettano a riempire il buco. WRAM. Vengo investito da altre bottiglie. Ormai la strada pare un campo rom. Con l’anima che piange mi rimetto in fila, rassegnato. Dopo tre uomini tocca di nuovo a me. WRAM. La vita è una merda. Torno a casa alle undici di mattina e la tergisperma mi allunga un sacchetto ignoto.

«E questo quali innominabili nequizie contiene, Dio ti possa ghermire nel sonno?» domando.
«Secco non riciclabile»

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Significa che non raggiungerà mai il suo destino.

Il comune di Venezia ha deciso, nella sua infinita saggezza, di blindare i cassonetti. Ora tutti i mondezzai del veneto hanno una chiave d’accesso digitale senza la quale non è possibile depositare i propri scarti. Per ottenere questo miracoloso manufatto è necessario presentarsi negli uffici del comune dalle 7.00 alle 10.00 dal lunedì a venerdì – ossia mai – fornendo carta d’identità, certificato di nascita, certificato di residenza, stato di famiglia, codice fiscale e attestato di verginità della propria figlia. In teoria questo permette di pagare la bolletta in proporzione a quanto si butta, in pratica fa sì che i mestrini gettino la propria merda in qualsiasi posto somigli a un contenitore, tanto che se ti addormenti su una panchina a bocca aperta al risveglio potresti trovarci una confezione di affettati vuota.

Appoggio il sacchetto vicino al cassonetto e me ne vado fischiettando.

«Senta lei» dice una voce, poi pretende 167 euro di multa.
Estraggo la Desert Eagle, gli sparo in faccia. Vuoto il caricatore sulla calotta e fuggo.

 

 

 

 

 

 

 

 

E’ notte, ora. Resto a fissare il soffitto mentre la traviata vicino a me dorme il sonno dell’infame. Ha lenito le mie proteste concedendomi l’accesso al suo sfintere e il mondo sembra meno cupo. La palpebra cala, il sonno mi avvolge lento, poi c’è un crash. Mi sveglio di soprassalto. Un altro crash. Un altro ancora.

«Tesormpf» mormora essa «in effetti c’è da buttare il vetro, vai tu?»

La legge del quartiere è che il vetro va buttato solo da mezzanotte in poi, cosicché il frastuono riverberi con maggiore enfasi nel silenzio della città. Apro la porta e mi trovo davanti a un bangla che mi sta infilando una pubblicità nella cassetta della posta. Sparo, ma lo manco di un soffio. Raggiungo la campana di vetro che odora di vino vecchio, birra spanta. Noto con la coda dell’occhio decine di oompa loompa che frugano tra le carte. Uno di loro lo conosco, ha il Porsche Cayenne comprato usato e immatricolato nel 2002. Mi fissa con odio. Chiede se sono io che strappo i libri. Rispondo che ci cago sopra, ai libri.

Dice che quello non è un problema.

Ci vorrebbe la rivoluzione

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Apro gli occhi perché dalla strada è partita la consueta salva di urla, guaiti, latrati e bestemmie che avviene quando la persona con cane X incontra la persona con cane Y e decidono di lasciarli avvicinare. Dopo una breve annusata di culo i molossi tentano l’accoppiamento o la strage, attività impedite solo dalla potenza dei bicipiti di X e Y. Se X era intenzionata a farsi scopare da Y saranno sorrisetti imbarazzati. In caso contrario pioveranno insulti, minacce e bestemmie. Il mio cane, richiamato da questa overture, salta dritto sui miei testicoli alle 7.32 di domenica mattina nel tentativo di lanciarsi dalla finestra pur di assistere a questo evento irripetibile. La donna lo placca alla disperata balzando dal letto e sbattendo la testa contro il termosifone. Il cane guaisce.

Piscio, penso al suicidio, fuori è primavera.

La Natura ordina alle donne di predisporsi all’accoppiamento ed esse palesano tette, gambe, culi in minishort. Ciò innalza il testosterone acuendo l’aggressività della popolazione, centuplicando risse a cui seguono risse per vendicare le risse. Una vecchietta a terra urla con grazia, protendendo la mano verso lo scippatore come una nuova Creazione di Michelangelo. Egli fugge, catenina in pugno, schivando con soavi piroette i pedoni di Mestre inebetiti da antidepressivi, tranquillanti, droga, Beppegrillo.it. Leggo il giornale. Persino le scazzottate fuori dai centri commerciali hanno un sapore diverso. Il susseguirsi di opere d’arte che hanno scandito il proseguire dell’umanità, qui, trova nuova linfa. La guerra di Piero, Mezzogiorno di fuoco, Sfida all’ok corral e “Volevo veramente questo parcheggio“.

«Sono pronta!» trilla la donna nell’altra stanza.
«Va bene, andiamo» rispondo alzandomi.

Resto in piedi sull’entrata per un minuto. Due. Comprendo l’errore. Non era un “sono pronta” da essere pronta, era più un “sono pronta” che le fiche dicono a caso ogni tanto, tipo perché hanno deciso cosa mettersi o con quale colore cazzuolarsi la faccia.

Mi svesto. Il cane dorme. Gli uccellini cinguettano.
Un SMS mi informa che dovrò fare gli straordinari.

Fuori dalla finestra il sole è tiepido. Mestre si riscopre in tutto il suo splendore di abusivismo edilizio anni ’70. Al Tronchetto persino i parcheggiatori della mafia sorridono mentre ti dirottano. I caparozzolari di frodo duettano sempre con la guardia costiera tra raffiche di mitra, ma tengono lo stereo acceso che suona “It’s a beautiful day” di Michael Bublè. I pescivendoli di Rialto non dicono più che gli immigrati gli rubano il lavoro, forse perché sono stati decimati dalla retata che ha sequestrato tanta cocaina da farcisi un igloo. Nei bar, tra un’occhiata a una minigonna e uno spritz, si parla di rivoluzione contro la casta che dissangua gli onesti lavoratori veneti. Quest’inverno il progetto di rivoluzione lollina 67.843, detta “dei forconi”, consisteva nel paralizzare l’Italia aspettando qualcuno faccia qualcosa. Sono stati momenti drammatici, in televisione si susseguivano le strazianti interviste alle madri dei disoccupati che alla domanda “signora, e suo figlio dov’è?” rispondevano “a casa che dorme”. E’ finito con l’arrivo del weekend, sebbene alcuni di questi eroi presidino ancora il casello Padova est davanti all’Ikea.

presidio ikea   1502802_3805903321657_373427932_oMa basta accelerare.

 

«Tesoro, sei pronto o no?» flauta la vagina, impaziente.
Il cane scoreggia così forte che si sveglia.

Volto pagina.

Il successivo progetto di rivoluzione lollina 67.844 detto “Indipendensa” consisteva nel costruire la ruspa di Batman, portarla in piazza San Marco e poi di nuovo aspettare qualcuno faccia qualcosa, proprio come il piano 66.892 del 1997. Purtroppo gli indipendentisti si erano informati su Facebook ed erano convinti sarebbe bastato spegnere il telefonino per non essere intercettati dai massoni.

1484250_10152045324519632_76811308_nNon ha funzionato.

 

«Così come sto?» domanda la fica, apparendo in salotto.
Alzo gli occhi. S’è di nuovo dipinta le sopracciglia con l’Uniposka.

«Benissimo» dico.
«Ma… devi ancora vestirti?!»

Il cane gira in tondo, felice all’idea di poter annusare urina fresca e preservativi usati. Appena capisce che non lo porteremo con noi spara un ululato, subito emulato dai cani dei vicini. Usciamo che il condominio pare il set di un western. Mentre chiudo noto un rivolo di urina che fuoriesce da sotto la porta, seguito da un grattare convulso. Dio è il migliore amico dell’uomo e si morde la coda, ma non devo pensarci. Sono il paese reale, ho problemi più urgenti come il paradosso di H&M. Si tratta di un varco spaziotemporale che si spalanca in primavera, durante il quale le vagine si vestono la metà ma comprano il doppio dei vestiti pagandoli il triplo e visionandone il quadruplo, e per farlo necessitano sia presente un maschio. E’ come se Margherita Hack avesse bisogno del parere di un idraulico per stabilire se una roba è un quasar o una supernova. Cosa cazzo sono, un meetup a cinque stelle? Ho la faccia del commesso della Decathlon che abolisce l’emendamento 785/c in rif. legge 348 del 1987 e il giorno dopo ci svegliamo in guerra col Suriname? Sembro forse il giardiniere di Codroipo che nei forum di medicina diagnostica l’AIDS a uno che chiede delucidazioni sulla calvizie? Sono un uomo: se vuoi sapere come mi piaci vestita basta aprire youporn.

«Questo come mi sta?» domanda uscendo dal camerino.
«Benissimo» dico, sforzandomi di ignorare quelle sopracciglia così simili ai disegni che ti fanno gli zingari sulla porta. Ma quando ci sarà la rivoluzione tutto questo cambierà. Mangeremo i cani. Sedurremo a martellate. Non ci saranno più SMS.

Devo solo aspettare qualcuno elabori il piano 67.845.

La resa dei conti

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E’ quasi mezzogiorno di una domenica di inizio primavera. Luca scala le marce con gesti sgraziati, nervoso come un fidanzato che vede avvicinarsi l’indiano con le rose. Lo stereo manda un vecchio pezzo dei Duran Duran. Io al posto del navigatore, Ario e Atza dietro.

«Allora, vi ripeto le istruzioni» dice Luca «vi prego, è importante»
«Sì»
«Vai»
«Dio, sforate le 500 copie vendute» dico, guardando il cellulare.
«Ehilà, ancora un po’ e fai la popolazione di Prozzolo» fa Atza, dietro «a quando lo yacht?»
«Il tuo sarcasmo non mi tange» rispondo con una smorfia.
«A merda il libro di Nebo, ascoltatemi» tuona Luca, spegnendo lo stereo «come tutti sapete, mi hanno licenziato»
«Sì. Oh, se decidi di suicidarti posso darti l’indirizzo di uno che mi sta sui coglioni e gli salti sulla macchina?» fa Ario.
«I disoccupati non si buttano, si danno fuoco» mugugna Atza.
«No, quelli sono gli imprenditori. Gli imprenditori hanno il cash per la benza»
«Non hai cinque euro per darti fuoco?»

«Ecco, è una buona domanda» ringhia Luca «ascoltatemi, per piacere»

«Che ne sai di quanta ne serve?» prosegue Ario, pensoso «già dieci euro diventa impegnativo, oggi metti un deca e all’AGIP ti pisciano a malapena la ricarica per lo Zippo»
«E metti che non basta e rimani solo ustionato?» domanda Atza, scettico.
«Prima provi con qualcosa di più piccolo per vedere se funziona»
«Tipo cosa, un nano?»
«No, quelli non li trovi facile. Un bambino, tipo»

«Vi ho chiesto di ascoltarmi» fa Luca, sbiancandosi le nocche sul volante.

«Certo, vai da una mamma, dici “scusi signora, devo suicidarmi, mi presta suo figlio per il crash test”?»
«Allora un maiale» stringe le spalle Ario.
«Ma che… hai idea di che casino sarebbe dare fuoco a un maiale vivo? Impazzisce, corre dappertutto, incendia cose, urla. Magari c’ha tanto di quel gas in pancia che esplode»
«Atza, mò i maiali esplosivi?»
«Sono i gas intestinali»
«Allora do fuoco al bambino. O esplodono anche quelli?»

«VOLETE TACERE?» fa Luca, rosso in viso.

Luca è stato licenziato. L’unico con ufficio, ventiquattrore, possibilità di carriera e macchinetta del caffè è finito per strada con un preavviso di 13 giorni e una moglie che sogna vacanze alle Canarie. Com’è tipico sono già passate due settimane e non le ha ancora detto nulla, terrorizzato all’idea di scoprire chi è davvero sua moglie. Noi uomini lo siamo tutti, nel profondo. Tette, culi e pompini servono a farci dimenticare cosa conta davvero nella vita.

Per questo Luca ha anche un’amante.

«Il piano è semplice» ansima il guidatore, sudato «voi siete i miei colleghi. Siamo a un pranzo di lavoro e fatalità capitiamo nello stesso ristorante dove sta andando l’Elisa con la famiglia»
«Di domenica?» chiedo.
«Sì. Quelli come me lavorano anche di domenica, ok?»
«Ahaah hahahaha ha, mattinate d’inferno nei parcheggi dell’Autogrill a leggere il giornale» ride Ario, felice «strenue contrattazioni sul menu panino più bibita media e muffin, però che soddisfazione quando ricicli lo scontrino del caffè»
«Vaffanculo» fa Luca con un sorriso tirato.
«AAHAHAHAHAH e tornare a casa fieri di essere riusciti a inculare la cassiera ma non poterlo dire a nessuno, l’emozionante seconda vita di zero zero cassaintegrato, operazione pezzenza»
«Parla quello che si sputtana lo stipendio sul terraglio e l’unica vacanza che fa fare alla moglie è ferragosto in coda a Cortellazzo»

«Ma perché vi siete sposati, a ‘sto punto?» domanda Atza.

«Le fottute amiche di Facebook» sbuffa Ario «a un certo punto le fiche sbarellano. Se tutte hanno la Vuitton falsa devono averla anche loro, e allora è un casino trovare il magrebo che spaccia le migliori. Allo stesso modo, se tutte si sposano devono sposarsi anche loro»
«E vissero per sempre felici e contenti» mugugno.
«COMUNQUE STAVO DICENDO CH

Elisa è delle tante sfigate nate belle, che quindi non hanno mai sentito il bisogno di migliorarsi e hanno messo la passera sottovetro in attesa di Johnny Depp con il fisico di Vin Diesel e i miliardi di uno sceicco arabo. Naturalmente il piano non ha funzionato, e a trentacinque anni sono così disperate da ciucciare le palle a qualunque cialtrone sappia rivendere frasi di Fabio Volo in un ristorante di media statura. Luca è uno di questi. Elisa, a oggi segretaria part time, è convinta di essere la donna di un giovane e affermato professionista che presto la sposerà. Purtroppo la vita, mentre perdi tempo a progettare il tuo futuro, tende a schiaffeggiarti con le tue stesse tette flaccide prima di lanciarti contro la vecchiaia per poi farti precipitare in un mare di merda.

 

SsMbbIC

 

L’eterna poesia

 

Di recente il sesto senso uterino di Elisa ha notato un fremito nella forza. I regali di Luca sono calati tanto da farle sospettare una mancanza di grano. L’ufficio di lui era bello grosso e a Mestre tutti sanno che ci sono stati licenziamenti. La zitella potrebbe aver fiutato il trappolone e si è fatta sospettosa, tanto da essersi permessa di andarlo a trovare in ufficio dove lui l’ha intercettata per un pelo. Per continuare a trombare la zitella per un lasso di tempo accettabile deve rassicurarla. E un pranzo di lavoro con un incontro casuale gli è sembrata l’idea migliore. Così eccoci qui. Atza indossa un completo Zegna anno 1982 di tre taglie più grosso che lo fanno sembrare Frankenstein. Cravatta rosa larga come un tovagliolo. Ai pantaloni non è mai stato fatto l’orlo e sembra Vanilla Ice in gran spolvero. Ario ha riciclato il vestito del matrimonio quando c’era la moda della stoffa lucida-finto-gomma. Nel frattempo è ingrassato vergognosamente, i pantaloni stanno su solo aperti grazie a una cintura dei cinesi a cui è stato aggiunto un buco con il punteruolo. La giacca è inchiudibile e non può alzare le braccia pena l’esplosione. Deve stare seduto dritto, tanto che pare di avere una salma in macchina. Io ho uno splendido gessato grigio OVS business beccato al Mercatino per 40 euro, forse precedentemente utilizzato per un omicidio, e una cravatta enorme che ho ridotto con forbici e spille di sicurezza.

«Credo la cintura stia cedendo» geme Ario «se parte il bottone minimo perfora il sedile e t’ammazza»
«Non avevi un vestito decente?» chiede Luca.
«Non sono aggiornato sulla collezione officina chic, e non ho lo stomaco di Nebo che indossa evidenze giudiziarie. Dio, mi mancano i tempi di quando sciacallavi i cassonetti della Caritas per rivendere porcate. Cos’era, 2001?»
«2002. Mangiati una merda»
«Eh, adesso ricetta da Internet, lava, stira, raddoppia il prezzo e via al mercatino»
«Non è illegale» stringo le spalle.
«Sei stupido? Saranno reati a manciate, tutta la tua vita è un costante latrocinio, cazzo, persino quando facevi basi rap scopavi musica di altri»
«Si chiama campionare»
«Eh, e la merda usata si chiama vintage, giusto?»

La macchina rallenta e parcheggia in mezzo ad altre. Il ristorante è la solita baita fuori mano, meta di gite domenicali di centinaia di coppie che vogliono un motivo valido per non scopare. Scendiamo. Luca si guarda attorno, preoccupato: «Vi avverto» ringhia, serissimo «se m’imputtanate anche questa giuro su Dio, non mi vedrete mai più»

«Datti una calmata, ‘ste cose su vacanze di Natale fanno un casino ridere» dico.
«Giusto, qualcuno scorreggi» fa Atza.
«Non sto scherzando. Elisa è… è l’unica cosa decente che ho»
«Piantala, è un rottame di puttana senza futuro» minimizza Ario.
«Cos’hai detto?»
Il tono è serio.

Ario si volta, sorridente: «E’ un rottame di puttana senza futuro e tu sei una merda che le scippa gli ultimi anni che ha a disposizione per figliare, tutto perché è una quarantenne che somiglia a tua madre e chiavarla non ti fa pensare a tua moglie che vuole pure lei un figlio e invece ha un licenziato anonimo. Andiamo dentro?»

Luca non dice niente. Stringe i pugni.
Ha gli occhi lucidi.

«Ario, leggerino, eh?» dico, supplicante.
«Dai, Luca, siamo tutti qui per aiutarti. Colleghi di lavoro, no?» dice Atza, aggiustandosi la giacca «e colleghi di lavoro sia»

Luca resta immobile, fissando Ario: «Giuro su Dio…» sibila, ma non finisce la frase.
Ci incamminiamo.

Travi a vista, ruote di carri e pentole di rame appese alle pareti, fiori di barena nei vasi, bancone in noce, tovaglietta di pizzo, registratore di cassa e cameriere in camicia e gilet che ci accoglie con un sorriso felice di chi ha addestrato l’occhio a riconoscere gente che spende. Guarda meglio il nostro abbigliamento. Il sorriso si spegne.

«Buongiorno» dice incerto, fissando Atza/Vanilla Ice.
«Salve, avremmo un tavolo prenotato a nome Benetton» dice Ario.
«Benetton?» chiedo.
«Chiaro, con un cognome del genere vuoi vedere che figata di tavolo ci hanno preparato?»

Il cameriere comprende la truffa e il viso passa dalla desolazione alla seccata incazzatura di chi realizza di averlo appena preso nel cacapranzi.

«Benetton, eh?» chiede con un sopracciglio alzato.
«Già»
«Tavolo in centro sala» quasi sputa «una signora è già arrivata»

Sono abbastanza vicino a Luca per sentire i muscoli contrarsi all’unisono, trasformandolo in un manichino di ghiaccio e paura. Io e Atza rimaniamo impassibili, mascherando la confusione grazie all’esperienza di scafati scippatori di gomme in tabaccheria.

«C-che signora?» balbetta Luca, pallido come un fantasma.
Il cameriere nota che qualcosa non va: «Tavolo per cinque, giusto?» chiede.
«Sì, sì, è tutto a posto» fa Ario, prendendo sottobraccio Luca «vieni con me, coglione»
Luca fa tre passi in trance, poi si divincola: «Ario, cos’hai fatto?» dice, tremando come una foglia.
«L’unica cosa sensata» dice lui, accompagnandolo.

 

 

Entriamo in sala da pranzo. La clientela è la solita, famiglie, qualche coppia over 40. Il tavolo al centro, rotondo e con i tovaglioli piegati a spicchio, ha quattro posti più uno occupato. Ci vediamo contemporaneamente. Lei, mani incrociate e sguardo spaventato, vede solo Luca. A me vengono i crampi allo stomaco. Rachele, questo il nome della moglie, si alza in piedi. Luca è immobile.

«Oh, Dio» geme Atza.
«Siediti» fa Ario, guardando me ma parlando con lui.

Non so come, siamo tutti seduti al tavolo. Luca è bianco come la tovaglia. Dal fondo della sala vedo una donna sulla quarantina che sbircia. Le mando l’occhiata più aggressiva possibile, cosa che riesce a spaventarla. Distoglie lo sguardo, allarmata. Luca non l’ha nemmeno notata. Deglutisce a vuoto davanti a sua moglie che, con occhi innamorati e lucidi, lo osserva. Lui tiene gli occhi bassi.

«Tesoro…» esordisce lei.
Lui fa per alzarsi. Ario lo rimette seduto con una pressione sulle spalle.

«Perché non me l’hai detto?» domanda lei, prendendogli le mani.
Lui si copre il viso con le mani.
Inizia a piangere, mentre Ario gli mena pacche sulle spalle.

«R-ripasso?» domanda il cameriere, dietro Atza.
«Intanto vino» dice Ario «caraffate, proprio»
«Preferenze?»
«Rosso, roba pesa»
«Io andrei di roba più seria» dico, sudatino «J&B»
«Capito» fa l’uomo, volatilizzandosi.
Mentre si allontana, lo invidio.
«Ricapitoliamo: come preventivamente spiegato via telefono, il terrone qui presente è stato licenziato due settimane fa ma non te l’ha detto perché ha paura di scoprire che sei un’avida puttana interessata solo al grano» spiega Ario «tu sei qui per dimostrargli che si sbaglia. Noi siamo qui in giacca e cravatta per celebrare questo storico momento. Vi lasciamo soli» conclude Ario, alzandosi.

Io e Atza siamo ben lieti di emularlo. Mentre mi alzo, faccio un cenno con la testa a quella che suppongo sia Elisa. Lei forse capisce, forse no. Al bancone prendo il J&B e gli altri mi emulano. Stiamo fuori a fumare, con l’adrenalina che scivola via.

«Ario» fa Atza, espirando mezza Marlboro «tu sai che lì dentro c’è anche l’amante con la famiglia, vero?»
«Mbè? Siamo giovani e gagliardi, menare cinquantenni non sarà mai peggio dei truzzi del Mojito» fa spallucce Ario.
«Tu sai cos’hai fatto? Hai mai pensato che le persone hanno il diritto di scegliere che fare della propria vita?»
«Perdìo, Nebo, ‘sta frase è così profonda che dovrò mettermi gli occhiali 3D»
«Sono serio, mona»
«L’avreste fatto anche voi, se avebbi avuto le palle di farlo»
«Aveste»
«Eh?»
«Aveste, no “avrebbi”»
«L’avresti fatto anche tu, Fabio Volo dei miei coglioni, se solo non avesti avuto paura di passare per stronzo»
«Avessi» gemo.
«Prima hai detto “avesti”»
«MA ERA D
«Scusate?» dice una voce di donna alle nostre spalle.
Ci giriamo. Da un rapido conto di scollatura, aura di disperazione e miseria, questa dev’essere lei. E’ scortata da un tizio della sua età.

«Elisa, giusto?» chiede Ario.
«Ssssì»

Ario si stacca dal gruppo e le va incontro. Da qualche parte, qualcuno suona un flauto traverso e il vento fa muovere le canne di bambù.

 

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Fanno tre passi verso destra e confabulano. O meglio, Ario parla, lei ascolta. Dalla faccia di lei si capisce che passano svariate emozioni, nessuna di cui sono sicuro. Rientra senza dire niente.

«Che le hai detto?» chiedo.
«Che lui è appena stato licenziato, quella è la moglie che l’ha saputo e noi siamo i suoi amici, ovvero una tavolata di trentenni incazzosi contro una di vecchi coglioni con puttana al seguito, decida lei se è il caso di fare scenate»

Finito whisky e sigarette rientriamo. Al tavolo, Luca e Rachele stanno quasi riuscendo a ridere tra di loro. Una volta seduti passiamo al vino. Il cameriere prende le ordinazioni. Il resto del pranzo passa con propositi, progetti, idee, qualche battuta d’incoraggiamento. Elisa rimane nel suo angolo, lanciando ogni tanto occhiate furtive, facendomi pensare che forse le donne possono essere meglio di quanto crediamo.