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In Italia non c’è verso di rendere cool lo schiavismo, e i ristoratori ne soffrono

In Italia non c’è verso di rendere cool lo schiavismo, e i ristoratori ne soffrono

La storia delle mance è semplicissima. Nel medioevo, in Europa, c’era l’abitudine di dare piccole gratifiche ai servitori o ai cocchieri. Dimostrava di essere molto benestanti: hai talmente tanti soldi che li regali.

La cosa va avanti per secoli, sempre uguale. I ricchi sono sempre in competizione tra loro. Bramano quello che gli altri non possono avere. L’esclusività, non gli status symbol.

Nel XIX secolo i ricchi americani viaggiano in Europa. Vedono i ricchi europei distribuire mance e impazziscono per la figaggine del gesto. Tornano negli USA e lo fanno pure loro. Gli altri ricchi si affrettano a copiarlo. Se lo fanno i ricchi, allora lo fanno anche quelli che vogliono sembrare ricchi. E se lo fanno loro, allora lo fanno anche i poveri per non sembrare poveri.

In breve lo fanno tutti.

“Hey, ma questa è la storia dei marchi di moda!”, grida Giada, studentessa diciottenne incatenata nel mio garage.


Sì, Giada.
Ma è un altro discorso.

Come la mia capacità di mettere i bavagli, del resto.

Torno subito.

Ecco.
Dicevo.

In pochissimo tempo, negli Stati uniti il tipping diventa la norma. Camerieri, facchini, cocchieri, barman. Tutti ricevono la mancia e sono contenti, finché nel 1865 la schiavitù viene abolita.

Gli ex schiavi sono liberi. Per campare trovano lavoro nei ristoranti, nelle ferrovie e negli alberghi. Solo che ai bianchi americani non piace l’idea di pagare dei negri che fino a ieri lavoravano gratis.

Così s’inventano la truffa delle mance.

Consiste nel pagare i dipendenti (leggasi: schiavi 2.0) una cifra simbolica e scaricare l’onere del vero stipendio sui clienti. In questo modo il padrone ha la scusa perfetta: io do agli schiavi la possibilità di lavorare per me. Sta a loro meritarsi i soldi dei clienti. Se non glie li danno, evidentemente non se li sono meritati.

“Ehi, ma questa sembra la menata della meritocrazia che farneticavano vent’anni fa quelli di Confindustria!”

Sì, Giada.

“Aspetta! È anche il mito degli yuppies anni ’80 in cui il duro lavoro paga e poi se vai a vedere i cognomi sono gli stessi dal dopoguerra!”

Sì, Giada, brava. È sempre lo stesso:

Marketing per coonestare sfruttamento e schiavismo.

Adesso però zitta e riposati, che stasera vengono degli amici.

Quando gli americani nel 1938 sono costretti a introdurre il salario minimo, inseriscono un’eccezione: i lavoratori che ricevono una mancia possono essere pagati meno.

Cioè gli schiavi tornano a essere schiavi, ma se non vogliono esserlo basta che lavorino di più. E con meno pretese. E con più impegno. E con più pazienza. Se fossero veramente bravi, i clienti gli darebbero mance migliori.

Giusto, Giada?

Ora passiamo al mondo dell’accoglienza italiana nel 2025

Per continuare a mantenere uno stile di vita insostenibile, i gestori hanno risicato tutto quello che potevano. Prima hanno dimezzato la dimensione dei tavoli, poi dimezzato la distanza, fino a trasformare una cena fuori in una mensa aziendale.

Poi (solo gli italiani) hanno inventato il coperto, che consiste nel chiedere 4,5 euro a testa perché sul tavolo ci sono due posate, un bicchiere, grissini industriali e un tovagliolo di carta. Poi hanno riempito le cucine di cingalesi e pakistani schiavizzati in nero per non pagare sguatteri e lavapiatti. Poi hanno iniziato a posticipare le date di scadenza della carne. Poi hanno ridotto la qualità degli ingredienti aumentando le intossicazioni alimentari. Poi hanno aumentato i prezzi adducendo scuse via via più pagliaccesche. Poi hanno iniziato a chiedere 10 cent per tagliare una brioche. Due euro per tagliare un toast. Solo 1,50 per non mettere un ingrediente. Due euro per un piatto vuoto.

Purtroppo c’è un problema insormontabile: i camerieri.

I camerieri non sono soltanto “quelli che ti prendono le ordinazioni e ti portano il cibo”. Solo un ingenuo crede a una cosa simile. Se i camerieri fossero solo questo, allora potrebbe farlo pure un quarantenne o un cingalese. O un robot della Tesla.

Ma non è così. I camerieri sono l’esca.
Sono carne ventenne messa lì per attirare i predatori.

E per questo i camerieri devono essere belli e italiani, acciocché possano ben comprendere le strepitose avances e le sagaci battute dei clienti. Le cameriere sono lì col pretesto di portare da bere. Ma di fatto garantiscono di sorridere invece di mandarti affanculo o tirarti un ceffone. Rideranno persino all’immancabile battuta sulla birra “bucata”, sul piatto che “non serve lavare”, sul caffè preso amaro “come la vita” e altri capolavori dei Cesare Cabarettisti di turno.

Finché siamo in Germania, in Francia, in America, in Norvegia o Finlandia, può anche funzionare. Sono paesi in cui c’è una forte educazione sulla fisicità e uno stigma su quello che è appropriato e no.

Ma qui siamo in Italia.

Sei contenta, Giada?

Padri boomer sessualmente frustrati.
Madri bigotte.
Preti malati.
Nazitelle nei social.
Clericofascisti in parlamento.
Età media più alta d’Europa.
Vent’anni di Mediaset.
Quarant’anni di commedie italiane e cinepanettoni.

Y E A H.

Grazie a questi ingredienti, il nostro popolo ha una forma mentis ben chiara: i giovani si possano prevaricare e abusare. E per le fan di Michela Murgia, tranquille. Di tutti i lavori più di merda che ho fatto nella mia vita, la ristorazione è l’ambiente con gli abusi e le molestie più trasversali e inclusive.

Quindi, se sei una cameriera, in Italia devi fare finta di credere che quella mano t’ha sfiorato le tette per errore. Se sei un bel ragazzo devi stare zitto e sorridere quando la cinquantenne con le amiche chiede “nel menu ci sei anche tu?”. Devi consolare con discrezione la collega diciannovenne che sta in bagno a piangere perché sia il padrone che i clienti la trattano alla stregua di un animale da monta. E se sei maschio devi smetterla di frignare, perché sotto sotto ti piace.

Poi attenzione: ci sono persone che sta roba la sfruttano a loro vantaggio.
Ma non è giusto sia obbligatorio.

Comunque allegra, Giada: ci sono buone notizie!

Purtroppo la ristorazione italiana proprio non trova camerieri.

Eroi civili come Charlotte Matteini fanno presente che basterebbe pagarli di più? Certo, ma ai ristoratori non piace l’idea di pagare i negri che prima lavoravano gratis. Così un ristoratore ha appena proposto venga applicata anche in Italia la regola della mancia obbligatoria. Questo dovrebbe invogliare i ventenni a tornare a fare i camerieri!

E sai cosa?
Di sicuro mi spingerebbe a tornare nei ristoranti.

Non mugolare così, Giada. Io non vedrei l’ora di assistere alle urla dei sessantenni che al momento di pagare si rifiutano di lasciare la mancia perché non ti sei fatta mettere un dito nel culo. O il cameriere non ha sorriso quando gli hanno strizzato i coglioni.

Io pagherei bei soldi per assistere a una versione del monologo di Buscemi sul violino più piccolo del mondo, ma interpretato da un baby pensionato al terzo Campari. O da impiegatucci della Megaditta con l’Audi Q9328 aziendale che arrivano belli carichi: la vuoi la mancia, tesoro? E quanto la vuoi? Perché io sono qualcuno, sai.

Dai, Giada, mettiti nei miei panni: per assistere a uno spettacolo simile avrei dovuto vivere nel medioevo o a Costantinopoli. Quindi depilati, mettiti un intimo decente e sorridi. È ora di “mettersi in gioco”, di “imparare un mestiere”, di “fare la gavetta”, di raccogliere “la straordinaria opportunità”!

E se proprio vuoi dei soldi, cerca di essere più carina coi clienti, capito? 😉

Adesso stai buona che mi sta chiamando un numero sconosciuto: “Yes, hello? Luigi Mangione? I don’t know any Louigi Mangionew, why?”

Quando Enzo Tortora ci mise uno specchio davanti e noi ci voltammo dall’altra parte

Quando Enzo Tortora ci mise uno specchio davanti e noi ci voltammo dall’altra parte

“Sono qui anche per conto di quelli che parlare non possono, e sono molti. Sono troppi.”

Siamo nel 1983.
Il signor Enzo Tortora ha 55 anni ed è il classico padre di famiglia del secolo scorso. Colto, serio, educato,
gentile. Veste elegante, ma sobrio. Ha tre figlie. È la figura paterna dei 22 milioni di telespettatori che il
venerdì sera restano in salotto, invece di uscire nell’Italia degli Yuppies e degli anni ‘80.

La sua trasmissione – Portobello – è a metà tra un mercatino dell’usato e La vita in diretta.
Parla al cuore della gente. Li fa incontrare, ridere, commuovere.

Fuori dalla televisione, Enzo va a letto presto. È vegetariano, quasi astemio, la sera ama leggere libri d’arte e ascoltare musica classica. Non è tipo da party o jet set, anzi. A parte sua moglie, frequenta solo due amici d’infanzia. Il suo unico vizio è la pipa.

La notte del 17 luglio sta dormendo in un albergo di Roma quando alle 4.15 bussano. I carabinieri entrano con le pistole in mano, gli lasciano appena il tempo di vestirsi, poi lo ammanettano e lo trascinano al commissariato di polizia.

Enzo è tranquillo e divertito.
È ovviamente uno scambio d’identità, pensa.

Invece una volta davanti all’ufficiale capisce che è proprio lui che cercano. Non gli riferiscono le accuse: lo informano solo che subirà la carcerazione preventiva. Andrà in galera in attesa del processo.

A quelle parole, Tortora fa un collasso.

Esce dal commissariato che è ormai mattina inoltrata. La strada è piena di fotografi ed ex colleghi.
Alcuni lo insultano, altri pregano gli agenti di sollevargli le braccia per far vedere le manette.

I giornalisti si erano già accordati con le forze dell’ordine prima.
L’auto che avrebbe dovuto portare Enzo in carcere era stata sistemata a venticinque metri di distanza sul lato opposto della carreggiata, in modo da farlo sfilare e fotografare per bene. Quando le gomme fischiano sull’asfalto, in edicola ci sono già giornali con il suo nome sopra.

Gli italiani sono allibiti.
Ma soprattutto compiaciuti.

Non solo per il solito sadismo; l’Italia in quegli anni attraversa uno dei periodi più sanguinari. La Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo fa centinaia di cadaveri in giro per l’Italia, sventra boss in carcere, s’intreccia a banchieri impiccati, servizi deviati, ragazze scomparse, Vaticano e politica. Ogni giorno ci sono omicidi, autobombe, cadaveri di ballerine nei piloni di cemento e nessun arresto.

Nei telegiornali si susseguono crimini orrendi che non hanno un colpevole né quando scompare Manuela Orlandi, né quando il mostro di Firenze uccide ragazzini, né quando un’intera stazione ferroviaria salta in aria.

Finalmente lo Stato reagisce.
E fa le cose in grande.

Quella che viene battezzata Operazione Portobello comporta 855 ordini di cattura tra politici, VIP e camorristi in 33 province da Bolzano a Palermo. Tra loro ci sono grandi nomi: il presidente dell’Avellino calcio, un neofascista, un poeta anarchico, due sindaci, Vallanzasca, Enzo Tortora e Franco Califano. I giornalisti ne vanno pazzi, ma quello che più li attrae è proprio il signor Tortora, quella figura paterna di onestà e pacatezza.

Lo fanno a pezzi un articolo dopo l’altro, aiutati dai magistrati che mandano gli atti ai giornali. Alcuni ci provano a difenderlo. Il primo è Piero Angela, poi Enzo Biagi il 4 agosto 1983 scrive su Repubblica “E se Tortora fosse innocente?“. Comincia a raccogliere firme di nomi importanti.

Intanto, come nel Processo di Kafka, è soltanto leggendo i quotidiani che Tortora scopre di cosa è accusato: associazione mafiosa e spaccio di droga. Il 14 agosto 1983 viene trasferito in carcere a Bergamo, con i fotografi appollaiati sui tetti che pubblicano le sue foto a petto nudo.

In carcere Enzo conosce i carcerati. Sono gli unici a crederlo innocente assieme ai suoi due avvocati. A dire il vero, i due legali sono sconcertati e impotenti davanti a un fiume di accuse terrificanti.

Enzo sarebbe un esponente di spicco della Ndrangheta, il braccio destro di Don Raffae’. Avrebbe venduto droga a Franco Califano, si sarebbe intascato i soldi destinati ai terremotati dell’Irpinia, avrebbe comprato uno yacht facendo la cresta sui soldi della trasmissione Portobello. E ancora: incontri segreti, rapporti, inchieste, raccomandazioni, suggerimenti, appalti.

I magistrati, nel frattempo, diventano idoli del popolo.

Fanno interviste e dichiarazioni come rockstar. Dichiarano “non potevamo avere occhi di riguardo, la notorietà non significa impunità per nessuno. Indubbiamente la presenza di Tortora in quest’indagine ha sorpreso tutti, anche noi, e su di lui siamo andati molto cauti, ma possiamo affermare che abbiamo molto di più delle testimonianze di due pentiti”.

C’è persino un testimone oculare che ha visto Enzo cedere una valigetta con ottanta milioni di lire di droga negli studi televisivi.

Il 17 gennaio 1984 gli vengono concessi gli arresti domiciliari.

Da casa sua, Enzo fa una trasmissione cercando di riderci su con il suo barbiere. Trova il coraggio di scherzarci su, perché di più non può fare. Ridere sull’onore distrutto, la carriera rovinata, il nome infangato a lui e alla sua famiglia, e su una vita distrutta.

I suoi ex colleghi giornalisti arrivano a dire che ha confessato.

Durante un’udienza del processo, il PM tuona “sapete perché Enzo Tortora è in questo processo? Perché più si cercavano le prove della sua innocenza, più uscivano quelle della sua colpevolezza”.

I suoi due avvocati tentano di scrivere ai giornali, ma quelli si rifiutano di pubblicare la loro versione dei fatti o di allontanarsi dalla narrativa colpevolista. Il giorno della sentenza si avvicina ed è chiaro che finirà male.

Così, al campanello di casa Tortora, suona Marco Pannella.

Il leader dei Radicali gli propone di candidarsi all’europarlamento. Se venisse eletto avrebbe l’immunità parlamentare e potrebbe evitare la galera. Enzo è così in preda al panico che accetta.

Le elezioni vanno più che bene: il 17 giugno 1984 prende 415,000 voti, più di Marco Pannella. Diventa intoccabile. Durante un’udienza il PM dice che è stato eletto con i voti della camorra. Lui dichiara che è un’indecenza e viene immediatamente querelato per oltraggio alla corte.

A difenderlo ci sono Piero Angela, Indro Montanelli, Vittorio Feltri ed Enzo Biagi. Quest’ultimo scrive un appassionato articolo chiamato “E se Tortora fosse innocente?” che fa smuovere qualcosa.

Il 17 settembre 1985, dopo 67 udienze, Tortora viene condannato a dieci anni di carcere e a una multa di cinquanta milioni di lire. Li evita grazie all’immunità.

Potrebbe finire così.

Invece no.

Per la prima volta nella storia della Repubblica italiana, un parlamentare rinuncia all’immunità. Enzo si
dimette, costringendo così i giudici a rifare il processo. Solo che ora le cose sono cambiate. I suoi avvocati sono in vantaggio rispetto ai magistrati, ormai spompati. E anche ai giornalisti, che di natura sono incapaci di ammettere errori o chiedere scusa.

Se i primi devono rimettere mano agli atti, i secondi non hanno più niente di nuovo da pubblicare. E meno danno contro a Tortora, più la gente empatizza con lui.

Ma soprattutto, gli avvocati hanno avuto il tempo di ricostruire cos’è successo.

I mafiosi in carcere avevano scoperto che per avere favori, facilitazioni e bonus dovevano dire qualcosa. E se non hanno niente da dire, la inventano. Le fonti che incolpavano Enzo sono Pasquale Barra detto ‘o animale, uno che ha ucciso 67 persone e mangiato le interiora di Turatello. Con lui Giovanni Pandico detto ‘o pazzo, uno che ha ucciso suo padre, avvelenato sua madre, la sua fidanzata e quattro passanti che facevano la fila in banca.

Pandico, in cella con un altro mafioso, nel tempo libero faceva centrini di seta. Li aveva inviati a
Portobello perché li vendessero, invece erano andati smarriti. Furibondo, convinto si trattasse di un
complotto contro di lui, manda lettere di fuoco alla RAI che alla fine lo rimborsa di 800,000 lire.

Gli rimane il broncio. Durante un interrogatorio in carcere, gli scappa un insulto a Tortora e i giudici si fanno improvvisamente attenti: Enzo Tortora? Sarà mica un mafioso anche lui?

Finalmente una rivelazione succosa, e Pandico viene premiato.

La settimana dopo si presentano i magistrati con un giornalista. Pandico la spara ancora più grossa. Ottiene altri favori, sigarette, pacche sulle spalle. Pandico racconta la storia a Pasquale Barra, che ne fa un business: dal carcere di Poggioreale scrive a tutte le aziende che trova nell’elenco telefonico, dicendo che o gli versa soldi, o dirà che l’azienda è affiliata alla camorra.

I “pentiti” si scambiano la voce: più VIP accusano, più favori hanno.

In brevissimo tempo sono ben 19 persone ad accusare Enzo Tortora dei crimini più efferati. I giudici e i giornalisti sono talmente eccitati all’idea dello scoop che si dimenticano di indagare. Non fanno perquisizioni, intercettazioni, pedinamenti, indagini bancarie.

Nulla.

L’unica prova che hanno è un’agendina della fidanzata di un pentito che ha in rubrica “Tortora” e un numero di telefono. In realtà c’è scritto Tortona, ma tanto nessuno telefona o guarda a chi appartiene il numero.

È di Tortora e basta. Perché sì.

Sono tutti così eccitati che non si è mai capito se il numero fosse di un bibitaro di Napoli o una sartoria di Salerno, ma di certo non è di Tortora. Nessuno l’ha mai verificato.

A queste prove schiaccianti si aggiunge un venditore di quadri ambulante già condannato e incarcerato per truffa e calunnia. Quando costui legge i giornali con lo scoop di Tortora decide di buttarcisi in mezzo per farsi pubblicità. Durante il secondo processo, messo di fronte ai fatti, quando l’avvocato lo definisce “venditore di quadri ambulante” il tipo impazzisce dicendo di essere un grande artista.

A oggi non esiste traccia di lui, tranne un libro autopubblicato e un quadro valutato dieci euro su ebay. I giudici scrivono che il pittore “sfrutta ogni occasione per far sì che i giornali parlino di lui”. Il pittore ritratta: non era Tortora, quello che aveva visto in studio.

Delle 855 persone arrestate durante l’operazione Portobello, 216 si erano rivelati casi di omonimia. Dei 640 nomi rinviati a giudizio, 120 erano stati assolti in primo grado e sui restanti 191 ne vengono assolti 114. Era un flop, un’inchiesta che non esisteva. Tutto si reggeva sul nome di Tortora; se era innocente lui, crollava tutto. Quindi avevano dovuto continuare a incolparlo per non perdere la faccia.

Non era malagiustizia: era un linciaggio preparato a tavolino.

Il 15 settembre 1986 viene assolto da ogni accusa, ma non è ancora abbastanza. Deve aspettare la Cassazione, che il 13 giugno 1987 conferma non solo l’innocenza: conferma la sua assoluta estraneità ai fatti.

Letta la sentenza, Tortora a quel punto alza la voce e dice: «Io sono innocente. Spero, dal profondo del cuore, che lo siate anche voi.»

Torna nella sua trasmissione tra scrosci d’applausi, e vede il suo nome completamente riabilitato.

Muore di cancro ai polmoni il 18 maggio 1988 senza essere mai stato risarcito. Nessuno dei suoi carnefici gli chiede scusa, né paga per quello che gli ha fatto. L’unico è un mafioso, detto ‘o Cha cha cha. Nel 2014, però, quando il magistrato dell’accusa viene nominato assessore alla legalità a Pompei, si scatenano proteste sia da destra che da sinistra.

Mara Carfagna, allora ministro, dichiara che “sarebbe più facile dimenticare quello che ha fatto se avesse mai chiesto scusa”. E miracolosamente, trent’anni dopo, il magistrato si scusa.

Al festival di Venezia sono state proiettate in anteprima le prime due puntate di una serie su di lui, prodotta da HBO. È girata da Marco Bellocchio e scritta da lui, Stefano Bises, Giordana Mari e Peppe Fiore.

Sono curiosissimo di vederla.

La vera trama di Snow white

La vera trama di Snow white

Devo sistemare l’orto, tagliare l’erba e piantare il basilico. A casa mio figlio urla come un tirannosauro e mia moglie mi da dell’alcolizzato. Ho quindi un’improvvisa voglia di vedere un film al cinema.

Acquisto mescalina, codeina, cocaina, Red label e una decina di Turista per sempre da grattare nell’intervallo, poi vado a vedere Biancaneve.

I film per bambini mi aiutano a smascellare senza paranoie, e dato il film posso stare certo che in sala non ci sarà nessuno.

I critici esperti esordirebbero con una dotta introduzione al film citando le recenti polemiche, le controverse affermazioni dell’attrice, la storia del film del 1937, la politica interna della Disney e com’è cambiata nel tempo.

Io invece farò come faccio con le prostitute quando gli appoggio il cronometro sulla schiena: salterò i preliminari.

LET’S GO.

Titoli.

Una carrozza ferma in una tempesta di neve. Due tizi con una corona di plastica in testa. Uccellini e scoiattoli. Tutto è realizzato in CGI del 1993 grazie a una scheda videoblaster montata su un 486 a 66 MHz e operata da Mohammad, un adolescente in Bangladesh che viene pagato con bicchieri di acqua potabile.

La voce narrante dice che Biancaneve è chiamata così perché è nata in una tempesta di neve, e non perché ha la pelle bianca.

In sala ci siamo soltanto io e i fantasmi di tutte le femministe che ho molestato online, e assieme tiriamo un sospiro di sollievo. Senza questo prezioso prodromo avremmo temuto di vedere una replica di Triumph of the will.

Stacco.

Siamo a Instagramlandia, una Los Angeles medievale dove tutto è allegro e solare, tutti sono belli, diversi, felici. In questa bellissima favola tedesca del 1937 tutti danzano assieme.

Cinesi, negri, messicani, italiani, obesi, storpi, invertiti: c’è persino un buffo omino che – nonostante la serietà della sua uniforme – ci risulta subito molto simpatico.

Biancanegra adolescente gira per le strade assieme a sua madre, interpretata da re Serse di 300, e da suo padre, Gaylord Focker con la barba.

La voce fuoricampo spiega che i genitori governano con amore, così i proletari obbediscono con gioia. Parte la danza del terzo Stato. Gli zappaterra sorridono, offrono fiori, primizie. Sono tutti così belli, puliti, felici e inclusivi che è facile capire come mai nel 2024, negli USA, ci sono state 324 sparatorie nelle scuole.

Passiamo ora a un giardino realizzato da Mohammad con il motore grafico di Age of Empire III.

La voce fuoricampo ci informa che la regina è morta di una malattia. Si presenta Gal Gadot. Il re le bacia la mano, lei dimostra di saper trasformare rose rosse in rose bianche.

«Figurati cos’altro sa fare con quelle mani» mormora il re, e la sposa.

Come spesso capita, però, dopo il matrimonio si cambia. Gal dismette l’aria buona e si trasforma in una mistress sadica e spietata, appassionata di latex, punizioni corporali, dungeon, schiavi superdotati, fruste e catene.

Il re viene mandato a combattere qualche guerra lontana. Lui non obietta, anzi: regala a Biancanegra un ciondolo con inciso “live laugh love” e parte. Nessuno ne sa più niente, nessuno chiede e nessuno si informa.

In realtà Gal l’ha fatto assassinare appena uscito dalle mura.

Ora la regina è libera di sollazzarsi con giuochi BDSM, mentre di giorno rivoluziona il regno; niente più influencer che cantano e ballano in mezzo alla verdura, se ne vanno tutti a dissodare i campi. Riforma l’esercito e manda Biancanegra a pulire i pavimenti.

È cattiva, comunque, perché veste di latex.

Un giorno, mentre Biancanegra passa il mocio nella cucina del castello, sgama un tizio in felpa col cappuccio che ruba patate dalla dispensa.

Felpa col cappuccio, giuro.

Lo affronta senza indugio: «Che scusa hai per rubare?» gli chiede.
«Zia, perché uno ruba patate, secondo te?»
«Devi restituirle, appartengono alla regina.»
«La regina è già abbastanza patata.»
«Posso chiederle di essere generosa e di dare la sua patata al popolo.»
«Tu credi ascolterebbe una sguattera?»
«Sì, se la sguattera è Biancanegra.»
«Chi?»

Offesa e delusa, Biancanegra corre fuori in giardino a parlare con delle aberrazioni in CGI. È sconvolta che il popolo abbia dimenticato lei e quanto bene si viveva sotto il regno della sua famiglia. Le mostruosità digitali le rispondono a smorfie spastiche e muggiti a 8 bit.

BLIIIIRP BLAAAARP bzzzzt FFRRRAAAA(/&$/

Biancanegra ne è rinfrancata e motivata. Si pompa leggendo le frasi motivazionali del ciondolo. Piomba nella sala da pranzo di Gal Gadot (chiaramente arredata dallo stesso interior designer di Tony Montana) e scatena una straordinaria diatriba socioeconomica.

«Popolo volere torta di mele» esclama.

«NO TORTA DI MELE AL POPOLO» replica la regina.

«Torta di mele al popolo bene.»

«Torta di mele al popolo male» fa la regina, alzandosi e prendendo una rosa con la mano sinistra e un diamante con la mano destra. Li mette davanti a Biancanegra:

«Rosa fragile, diamante duro» le dice «Rosa male, diamante bene.»

Se credete questa scena e questi dialoghi siano un’esagerazione, vi sbagliate di grosso.

Le porte si spalancano, interrompendo lo straordinario dibattito.

Entra Ugumbo, fedele e nerboruto servitore non propriamente tedesco che trascina il ladro di patate. La regina ordina di incatenare il furfante nel dungeon dove verrà punito.

«E ANDIAMOOOO» fa il ladro.

«Maestà, non giusto!» esclama Biancanegra.

«Certo che lo è» fa il ladro «Ho rubato, sono colpevole.»

«La pena non deve superare il reato!» insiste Biancanegra.

«Ma sì, ma sì, vado punito severamente, devo ricevere una sentenza esemplare, la accetto con rassegnazione, procediamo.»

«Mio padre gli avrebbe mostrato pietà!»

«Ma ti vuoi fare i cazzi tuoi?» sbotta il ladro «Sono pronto a una severa, esagerata e brutale punizione. Lesto, Ugumbo, conducimi nel dungeon, ho altre colpe da confessare.»

La regina sospira: «Va bene, Biancanegra: per stavolta sarò indulgente e ci limiteremo a legarlo fuori al freddo.»

«NOO, HO COMPIUTO ORRENDI DELITTI, VOGLIO ESSERE PUNITO» grida il ladro, divincolandosi mentre lo portano via.

Le porte si chiudono.

Di nuovo sole, Gal deride Biancanegra e lei per un istante fa intravedere il S.E.M™, ovvero il temibile Sguardo Emancipato Marvel™ con la testa bassa, la fronte corruggiata e le mascelle serrate.

Ma è un attimo.

Subito torna sconsolata e basita. Fugge. Corre davanti a uno specchio a frignare che vuole smettere di fare la sguattera e sogna non si capisce quale avventura, poi libera il ladro e gli da un pezzo di pane: «Non è molto, ma è qualcosa» gli dice.

Grazie alla scimmiesca sguattera, il ladro ha evitato una sessione BDSM con Gal Gadot e ne ha ottenuto addirittura una rosetta rafferma.

La regina, intanto, interroga ChatGPT per sapere chi è la più bella del reame.

ChatGPT risponde che i vichinghi erano originari dell’Africa, che Hitler era giapponese, che 3+2 fa 36, che l’Ucraina non è mai esistita e che Biancanegra è la donna più bella del reame.

Lei non ne dubita, proprio come mia madre non dubita dei meme di Byoblu che le arrivano su Whazzap.

Convoca Ugumbo e gli commissiona l’omicidio della sguattera. In cambio, gli dice con aria ammiccante, potrà avere “tutto ciò che desidera”.

Non è chiaro cos’abbia meritato Ugumbo quando ha assassinato il re, ma soprassediamo.

Siamo ora in una mappa di Unreal Tournament III 1024×768 senza filtro anisotropico o il processore grafico di Mohammad esplode.

Biancanegra coglie mele rosse accompagnata da Ugumbo. Gli offre una mela solo perché è nero. Lui estrae il coltello per compiere un femminicidio, lei esige delle motivazioni, lui piuttosto di ascoltare quella vocina saccente da nazitella corre a costituirsi.

Biancanegra ci resta male.

Attraversa un bosco minaccioso, finisce in uno stagno, emerge in mezzo ad altre aberrazioni digitali dalle fattezze animalesche. Lei inizia a cantare e i mostri si cimentano in un ballo contronatura.

CRRRR il OOOORGHc/c/co co RAGG-G-GIOOOO lbertààààawrgh

Terminato l’immondo sabba, le creature conducono Biancanegra nella casa dei sette nani. Si tratta di sette abominii rasterizzati come Hargid del primo gioco di Harry Potter, o almeno così dice la canzone fatta con i commenti al trailer su Youtube.

Entrano in scena cantando la loro deliziosa melodia.

Nel castello, Gal Gadot interroga ChatGPT. Le dice che Biancanegra è ancora viva. Lei convoca Ubungo e chiede spiegazioni: se non ha una giustificazione, il servo verrà tradotto in catene nel dungeon e torturato.

«SISISI CONFESSO» dice Ubungo «Se vi è rimasta un briciolo di pietà riservatela per Biancanegra, non per me. Con me andate proprio cattiva.»

«Credi di impietosirmi con la tua nobiltà d’animo?»

«Ma neanche per sogno, quale nobiltà d’animo? Io sono una bestia, un traditore, un infame, faccio schifo, ho compiuto innumerevoli malefatte. Mi aspetto inflessibilità assoluta, spietatezza, crudeltà gratuita.»

«Voglio essere buona, Ubungo» dice la regina.


«MA NO, PERCHÈ»

«Se mi convinci che Biancan-

«VI HO TRADITA-AAA, l’ho lasciata vivereeeee, sono colpevolissimooooo.»

«Ubungo, ammiro il coraggio. Puoi risparmiarti le torture se-

«NO-O-O, confesso-o-o-o, assolutamente torture, me lo merito.»

«Ami così tanto Biancanegra da affrontarne le conseguenze?»

«Chi? Ah, sìsìsìsì, la rompicoglioni. La amo tantissimo.»

«Come desideri» dice Gal Gadot «Portatelo nei sotterranei.»

Capisco che sto per assistere a una scena che vale il prezzo del biglietto, invece torniamo alla casetta delle aberrazioni naniche e della sguattera nel bosco.

Assistiamo a simpaticissime gag dove i nani si tirano dietro le cose come quelli de lo Hobbit e altro umorismo da scimmie – detti bambini.

Il giorno dopo Biancanegra va nel bosco, sta per essere beccata dai soldati della regina ma il ladro di patate emerge e la salva. Lei non ringrazia, anzi: pretende il suo aiuto per scoprire cos’è successo davvero a suo padre.

Dal bosco emerge una posse di comparse prese dalla Skidrow. Sono gli allegri compagni del ladro. Vedono i mostri digitali, c’è qualche domanda.

Nasce un dialogo surreale in cui sia Biancanegra che il ladro dicono che i personaggi delle fiabe sono ridicoli, che sono tutte cazzate, assolutamente.

Poi Biancanegra fa la predica ai maschi presenti con atteggiamento saccente e paternalistico, si siede e aspetta i milioni di voti alle urne.

Funziona?

Nella realtà Disney sì.

A furia di essere derisi, sminuiti e umiliati gli straccioni sono ansiosi di combattere e morire per la restaurazione della vecchia monarchia.

Un soldato della regina tenta di assassinare Biancanegra con una balestra. Il ladro si getta contro la freccia, sacrificandosi per salvare Biancanegra, lei di nuovo nemmeno ringrazia.

Mentre i nani lo curano, si limita a guardarlo come gli americani guardano dai finestrini dell’aereo gli interpreti e i collaboratori afghani mentre li lasciano ai talebani.

Aberrazioni digitali naniche e straccioni ballano e cantano. Questa volta Mohammad spreme tutti i 512MB di memoria ram e crea una straordinaria e coinvolgente coreografia nel bosco incantato.

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Il mattino dopo il ladro parte alla ricerca del padre di Biancanegra, mentre lei rimane a casa. Perché va bene l’emancipazione, ma a farsi ammazzare ci vai tu.

Il ladro fa tre metri e viene catturato dai soldati della regina.

Stacco.

Siamo finalmente nel dungeon, dove il ladro in catene si aspetta le mistress, invece trova soltanto uno scheletro pieno di ragnatele e Ugumbo depresso.

«Bella bro, quando arrivano le mistress sadomasochiste?» domanda il ladro.

Ugumbo scuote la testa: «Non è come credi. Era propaganda.»

«Come sarebbe? Allora che punizone ci aspetta?»

«Giornalisti e artisti con tre o quattro molestie sessuali su minorenni nell’armadio ci faranno una lezione su quanto sono progressisti, femministi, inclusivi e arrabbiati contro la transfoba JK Rowling.»

Per un istante rimangono a guardarsi, poi si mettono a tirare insieme la catena per liberarsi.

Ai piani alti, intanto, Gal Gadot crea una mela avvelenata, e una pozione che la trasforma in una insospettabile vecchia.

In Bangladesh, nonostante un’inondazione abbia spazzato via metà villaggio di Mohammed, lui si arrampica su un traliccio. Lì c’è ancora elettricità. Elabora il file con un portatile Compaq e lo invia alla Disney, permettendoci così di assistere alla metamorfosi digitale di Gal Gadot.

La regina corre alla casa dei nani e consegna la mela avvelenata. Biancanegra la mangia e sviene. Nei sotterranei, il ladro e Ugumbo si liberano e si dividono i compiti: lui corre da Biancanegra, mentre Ugumbo diffonderà manifesti bolscevichi tra le guardie.

Il ladro arriva a baciare Biancanegra, che – al solito – non lo ringrazia e anzi gli dice di guidare nani e straccioni contro il palazzo della regina.

Lui lo fa.

Biancanegra arriva alle porte del castello supportata dal popolo. Qui Mohammed ha chiaramente saccheggiato gli scarti del Tagliaerbe, e la scena sembra un po’ più finta del previsto. Ma se ne accorge solo uno spettatore esperto.

La regina scende.

Segue il solito straziante faccia a faccia di dialoghi stereotipati davanti alla folla come nelle romcom anni ’90. Grazie alla retorica bolscevica diffusa da Ugumbo, comunque, i soldati si ribellano, Gal Gadot rosica, scassa ChatGPT e rimane uccisa da lui. Biancanegra ora può regnare e tutti vivono felici e contenti, tranne il ladro che nessuno lo vede più e nessuno se lo caga.

La morale è che gli uomini poveri si mandano combattere, ma non si sposano.

1905: il senso dei russi per il mare

1905: il senso dei russi per il mare

Stretto di Tsushima, mar Giallo
28 maggio 1905, ore 5.58

Le colonne d’acqua si sollevano dal mare e precipitano sul ponte della corazzata giapponese, con i marinai che si tengono ai supporti e gridano per far sentire gli ordini. L’aria è satura di fumo, detriti e urla dei feriti. I boati dei cannoni fanno tremare l’intero scafo delle corazzate.

In plancia di comando, l’ammiraglio Togo si rialza dal pavimento: «Cosa vedete, tenente?» grida al giovane tenente di vascello Yamakazi.

In plancia ci sono carte nautiche, fumo, puzzo di cavi bruciati e feriti. Attorno, tra la nebbia e il fumo nero, il mar Giallo pullula di corazzate in fiamme. Una salva di cannoni passa ronzando a una ventina di metri da loro. Yamakazi cerca di mantenere il contegno, si porta il binocolo al viso: «Vedo camaleonti, signore» dice.

Tutto si ferma.

Lo sguardo va incontro alla corazzata Kniaz Suvarov, fiore all’occhiello della marina militare russa. All’interno, l’ammiraglio Zinovy Petrovich Rozhestvensky ha la bocca spalancata e il pugno in alto, diretto verso la faccia del nostromo. Sulla sua spalla, un enorme pappagallo rosso ha le ali e il becco aperti.

Ci sono piume ferme a mezz’aria.

La plancia di comando è un misto di vetri rotti, macerie, sangue e cadaveri. Attorno alla corazzata, decine di relitti stanno esplodendo e affondando.

Fuori, sopracoperta, migliaia di pezzi di carbone, camaleonti e capre sono sospesi a mezz’aria. Marinai russi sono cristallizzati nel tempo mentre saltano fuori bordo, uno con una pipa d’oppio in mano, un altro con una bottiglia di cognac francese.

Lo sguardo rientra da un oblò della corazzata fino al locale munizioni, dove un leone con la coda gonfia di paura ha le fauci aperte e gli artigli protesi verso i cannonieri. Uno gli sta lanciando una lattina di manzo in scatola con l’etichetta tedesca, l’altro cerca di scacciarlo con un giornale arrotolato in inglese, su cui si intravede il titolo flotta di idioti e prostitute adolescenti cinesi.

Siamo di nuovo sull’ammiraglia giapponese e il tempo riprende a scorrere:

«Guardiamarina, cos’hai detto che vedi?!» incalza l’ammiraglio.

Il guardiamarina si volta con la bocca spalancata. Il tempo si ferma di nuovo.

Passa attraverso il binocolo e raggiunge la corazzata russa Olyabjia, entra dall’oblò fino alla sala macchine. Ancora migliaia e migliaia di pezzi di carbone, braci e fumo, un marinaio distrutto dall’oppio cerca di liberarsi di un coccodrillo che sta attaccato al polpaccio.

Lo sguardo sale le scale della nave tra cadaveri, tossicodipendenti, contadini castrati, alcolizzati, scimmie impazzite di paura, camaleonti. Esce dall’oblò e ritorna nei binocoli del guardiamarina Yamazaki.

«Camaleonti, ammiraglio» balbetta.

Una cannonata russa solleva una colonna d’acqua che s’infrange sulla fiancata, senza che nessuno in plancia si scomodi o ci badi: «Cos’ha detto?» fa Togo.

«Camaleonti, signore» fa il marinaio «A migliaia.»

È una storia vera?

Sì.

Inizia nel 1904 dall’altra parte del mondo, dura ben 130 pagine e la potete leggere cliccando sull’immagine qui sotto.

La vera storia del cocktail Singapore sling

La vera storia del cocktail Singapore sling

Siamo nel 1915 al Raffles hotel di Singapore. All’ora dell’aperitivo, la hall è piena di gentiluomini inglesi in dinner jacket bianca che sorseggiano cocktail, mentre alle signore vengono serviti bicchieri di limonata e succhi di frutta. Per una donna del primo novecento sarebbe estremamente disdicevole bere alcolici, figuriamoci in pubblico.

Le donne sono reputate persone emotive incapaci di controllarsi, e l’alcool potrebbe renderle isteriche o far loro avere comportamenti indecenti. Questa è la motivazione, ma del resto immaginando il tipo di conversazione dei coloni inglesi, c’è da chiedersi chi non avrebbe comportamenti indecenti.

Per fortuna, dietro al bancone del Raffles hotel c’è l’empatico barman Ngiam Tong Boon.

È un cinese di Hainan fuggito a bordo di una nave francese durante la ribellione dei Boxer e sbarcato a Singapore, dove aveva trovato lavoro come cameriere. Dopo quindici anni di servizio è riuscito a diventare capo barman, ed è lì che ha un’idea per salvare le fanciulle inglesi.

Crea un cocktail rosa che somiglia in tutto e per tutto a un succo di frutta o a una granita. Lo serve con ghiaccio tritato, cannuccia e fette di ananas, in modo da ingannare l’occhio distratto degli uomini e permettere anche alle donne di rilassarsi un po’.

Lo battezza Singapore sling ed è subito un ordinatissimo, tanto da diventare un’attrattiva dell’albergo e rendere il barman ricco. 

Ngiam Tong Boon arriva a potersi comprare 10 ettari di terra in Malesia, dove coltivare la gomma e morire di vecchiaia. Ancora oggi, al Raffles hotel, è presente la sua fotografia e il libro con la ricetta originale del suo Singapore sling. Ricetta stampata anche sui sottobicchieri degli anni ’70.  

È una storia vera?

No. Ngiam Tong Boon è esistito davvero, ma nel 1915 muore di vecchiaia. Avrebbe dovuto inventare il cocktail, renderlo abbastanza famoso nel mondo da avere il suo nome associato per sempre a lui mentre compra 10 acri di terra in Malesia. Difficile. Inoltre, data l’epoca, è improbabile che sotto l’occupazione inglese fosse concesso a un barman cinese di diventare ricco. 

Non è chiaro poi in che modo inventare un cocktail di successo gli avrebbe fatto guadagnare di più, dato che sarebbe sempre stato un dipendente dell’hotel. E l’idea che un cinese si metta a fare il furbo con le consorti dei coloni è il massimo dell’improbabile.

La storia del Singapore sling è in realtà molto simile, ma molto cosmopolita e hollywoodiana. Non c’è la minoranza occupata che si prende gioco degli occupanti: c’è il signor Roberto Pregarz di Trieste.

Nato negli anni ’40 da una famiglia di panettieri, studia il minimo all’alberghiero e poi s’imbarca su una nave del Lloyd Adriatico facendosi le coste di Africa e Oceania. Passa gli anni ’60 sul piroscafo Marconi, poi sul Victoria e su questa, nel 1967, incontra Mario Marchesi, direttore del Raffles hotel di Singapore.

Marchesi è un uomo stanco e pieno di problemi. Osserva Roberto muoversi dietro al banco e tra i tavoli, ne riconosce le capacità e gli fa un’offerta: andare a lavorare da lui, a Singapore. Roberto rifiuta perché è lontano da casa da tanto, e a Singapore non tira una bella aria.

L’occupazione è alla fine, ci sono attentati, sparatorie e disordini.

Tornato a Trieste a casa dalla madre, Roberto riceve una lettera del direttore che rinnova la sua proposta. Ci pensa un paio di settimane, poi decide. Fa i bagagli e dice a sua madre che tornerà entro sei mesi, o almeno così crede. Arriva al Raffles nel 1969, nel pieno delle rivolte razziali. Gli inglesi se ne sono appena andati, ci sono tensioni sociali sempre peggiori e l’albergo sembra un monumento al colonialismo dell’impero britannico.  

Cioè un bersaglio perfetto. Nessuno ci vuole andare né farsi vedere lì dentro, tranne i pochi, vecchi affezionati. L’uomo è appena sbarcato sulla luna. L’umanità sogna le stelle, non vecchie hall drappeggiate di vecchie storie.

A Singapore sbucano nuovi alberghi moderni e accattivanti.

Nel 1972 Marchesi lascia tutto in mano a Pregartz e si ritira. Ci sono buone possibilità l’albergo chiuda entro sei mesi, ma Pregarz ha la fortuna di vedere entrare nella hall Wallace Crouch, giornalista del Sydney Morning Herald.

Passa per il Raffles per cenare nella Tiffin room. Qui il giornalista fa due parole con Roberto e gli racconta che proprio in quella stanza, nel 1902, era entrata una tigre che era stata uccisa a fucilate.

Roberto rimane colpito dall’immagine. È un professionista, sa come ragionano i clienti. Pensa che un centenario è un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Organizza una festa e per l’occasione fa tornare una tigre proprio lì – tenuta al guinzaglio – che viene condotta nella Tiffin room sotto gli occhi estasiati degli ospiti e, soprattutto, dei fotografi.

Il giorno dopo, sui giornali di Singapore è un trionfo di titoli, e Roberto capisce che non deve vendere drink, o cibo, o stanze. Quelle si trovano dovunque. No, Roberto deve prendere il Raffles e trasformarlo nell’unica cosa che affascina, spaventa, intriga: le storie.

Così decide di invitare scrittori che sanno raccontare i tropici. Arrivano Kipling e Maugham, ma anche sceneggiatori, registi, ognuno che davanti a un cocktail gli racconta qualche idea.

Gli arredi obsoleti di colpo diventano affascinanti. Da un anziano cameriere che lavora lì fin dal lontano 1936 emerge che durante la seconda guerra mondiale dei Giapponesi usarono una stanza del Raffles come stanza di tortura, e le anime dei poveri prigionieri aleggiano ancora lì, cercando la pace, perciò dopo una certa ora non è il caso di frequentare l’albergo. Abitanti e turisti si precipitano in massa all’hotel per bere, osservare, prenotare stanze e avere esperienze paranormali.

Il Raffles da simbolo di colonizzatori diventa simbolo di colonizzati.

Lì, tra quelle mura, aleggiano storie e segreti che i ricchi inglesi hanno tenuto nascosto. Per la hall del Raffles passano Elizabeth Taylor, Ginger Rogers, Trevor Howard, William Wyler. A questo punto Roberto ha l’intuizione finale: creare un prodotto souvenir, capace di unire la Storia con la leggenda.

Un cocktail capace di rendere epico, coraggioso e ribelle ogni sorso.

Fin da metà ottocento gli inglesi hanno importato a Singapore la formula del cocktail sling, che gli americani chiamano fizz. Si prende uno spirito, un liquore, del limone e si aggiunge una bevanda frizzante. Andavano alla grande, tanto da essere nominati in un giornale parodistico locale già nel 1895.

Sono drink semplici, non molto alcolici e rinfrescanti. Ce n’erano di banali come lo stengah, lo scotch & soda detto nello slang del posto… e ce n’erano di più complessi.

Il Singapore gin sling appare nei giornali locali già nel 1903.

Dieci anni dopo andavano molto di moda gli sling con Benedictine e con lo Cherry. Molto probabilmente è Roberto a renderlo un prodotto esclusivo dell’albergo. Del resto la figura del barman asiatico Ngiam Tong Boon ha una storia quasi identica a quella di Roberto, e il ritratto in perfetto stile coloniale – con tanto di cane da caccia alle spalle – è uno statement che mostra l’anima di Singapore che prende possesso di quello che le era stato rubato, sconfiggendo il razzismo del primo novecento. E chi è d’accordo, chi vuole mostrare rispetto e conoscenza, deve bere un Singapore sling al Long bar del Raffles hotel.

Chi ha voglia di bere in alberghi asettici dei cocktail qualsiasi, quando può stare in una casa di fantasmi, magari seduto di fianco al fantasma di Kipling, sorseggiando il simbolo della fine del colonialismo inglese?

Dopo ventidue anni di successi, ormai anziano, Roberto decide di tornare in Italia. Svela alcuni dei suoi segreti in un libro, Raffles legends and stories, disponibile su Kindle unlimited.

E poi, come tutti gli italiani con una vita incredibile, scompare.

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