All posts by Nebo

04. Un mazzo di chiavi

04. Un mazzo di chiavi

[00. L’equazione di Sabrina] – [01. La chiamata dell’eroe] – [02. Un paese tranquillo] – [03. La faccia della paura]

Partiamo di corsa e impieghiamo una decina di minuti per arrivare e scavalcare il cancello. Studiamo il da farsi nel cortile, con il gorgogliare della fontanella e il vento del temporale che carica. Il piano di passare per le finestre è scartato causa inferriate, quindi resta solo il portone.

Dopo qualche tentativo di usare una vanga come leva rinunciamo. Non riusciamo a infilarla. Usiamo un vaso di cemento come ariete, e una decina di colpi dopo la porta si scassa abbastanza per infilarci sotto la pala. Ario tiene il portone verso l’esterno, io infilo sotto la vanga e ci salto sopra. Il portone salta su dal cardine e crolla al suolo con un boato attutito dalla ghiaia. C’è una seconda porta, metà legno e metà vetro. È chiusa a chiave. Dentro è troppo buio per vedere. Sospiro: «Bisognerà trovare un modo p-

«FULMINE DI PEGASUS» grida Ario alle mie spalle, poi il sasso di un’aiuola mi sfiora la faccia e risolve il problema in  un tripudio di schegge. Ci abbiamo messo mezz’ora e non ho tempo per protestare. Mi tolgo una scarpa, rimuovo i frammenti ancora attaccati, entriamo.

«BUONASERA, SIAMO I FASCISTI» annuncia Ario al buio davanti a noi.
Nessuno risponde.

«Ma perché i fascisti?» domando.
«Boh, a tema con l’ambiente» fa Ario, indicando la volta «È CON NOI ANCHE UN ABISSINO» aggiunge.
Silenzio.

«Non c’è davvero nessuno, a quest’ora sarebbero già tutti usciti sparando. Vamonos, è tempo di rubare.»

Sono le 23.15, ci restano tre quarti d’ora prima di tornare da Luca e Atza. Imposto l’allarme sul Casio e avanziamo. Per non consumare gli accendini facciamo solo scattare le pietrine, producendo lampi che mostrano un’anticamera vasta, alta, con quattro colonne di marmo, due porte davanti e quattro laterali. Sulle pareti ci sono delle bacheche, così lasciamo andare il gas e le studiamo. Avvisi, orari, corsi, poi la mappa del piano terra vicino a una vecchia pubblicità progresso.

«Impiegheremo giorni» dico, guardando la mappa «Sono quattro piani di roba. Cosa cerchiamo?»
«Casseforti, roba da soldi…»
«Ah, bastava dirlo. Guarda, qui c’è scritto “oggetti di valore incustoditi”.»
«Davvero?»
«No.»
«E io che spero sempre ‘sto paese faccia passi avanti» geme Ario «Vabbè, esplorazione alla Rocco: entri, sfasci, fuggi, avanti la prossima. In un’ora a piano ce la facciamo.»
«UN’ORA?! Ma hai visto quant’è grande?! In un’ora non facciamo una sola ala. Non abbiamo nemmeno una torcia.»
«Quella si può fare. Poi piantala di rognare, siamo dotati di cazzo, esso ci guiderà verso il tesoro» dice, attraversando l’anticamera.

Lo seguo coprendo la fiamma degli accendini perché evitare mi abbagli. Vedo il gabbiotto della segreteria, scrivanie anni ’70 coi cassetti aperti, armadietti, pareti costellate di rettangoli anneriti che dovevano essere quadri e diplomi. A sinistra il corridoio si perde nel nulla, a destra c’è un salottino d’attesa coi portacenere ad albero, portariviste, una fila di piante morte. Sugli angoli in alto, casse per la filodiffusione anni ’70 coperte di polvere.

La fiamma del mio accendino ha un sussulto.

Mi blocco e afferro la manica di Ario. Stiamo immobili ad ascoltare il vento tra gli alberi fuori e il rombo del sangue nelle orecchie. Gli spifferi in un edificio troppo grande e vecchio possono fare minuscole correnti, ma quella stramba ragazzina veneziana che mi insegnò tutto questo mi ha anche insegnato che le brutte sensazioni ignorate ti portano in questura. Ma non c’è niente. Solo una corrente d’aria. Ario si divincola.

«Nebo, guarda che non abbiamo la figa, rischi zero. Gli psicopatici vogliono solo scopare. Di noi che gli frega? Se trovi uno che smembra cadaveri ti scusi per il disturbo e te ne vai.»
«Sì, Ario, certo.»
«Fidati. Se non ci sono donne o soldi di mezzo, i maschi si mettono d’accordo. Te c’hai voglia di metterti a litigare, pestarsi… che palle. Noi siamo qui in cerca di quattrini per scopare, siamo in una botte di ferro. Massimo scatta la solidarietà, i consigli, lo scambio d’esperienze.»

«Non credo il problema siano gli psicopatici.»
«Nebo io capisco i tuoi antenati negri credano negli dèi della foresta, ma sei pur sempre a maggioranza bianca, dovrebbe prevalere il tuo lato pragmatico. Secondo te perché non esistono horror di soli uomini?»
«Che ne so.»
«Prendi l’Esorcista. Se invece di Emily il demonio possedeva un uomo, chi se ne accorgeva? Sputava, vomitava, bestemmiava, pensava a scopare, aveva una faccia di merda e camminava storto per le scale. Praticamente il rientro di qualunque uomo il sabato sera. Vero o no?»

«Dunque, negli horror devi mettere la figa. Ne abbiamo? No. Botte di ferro.»
«Questo è l’ufficio del preside» dico, indicando una porta.

È anche l’unica porta chiusa a chiave. Ci diamo il turno prendendola a calci sopra la maniglia, con gli schianti del legno che rimbombano nei corridoi. La porta cede, colpisce il muro e quasi mi rimbalza in faccia. La scrivania è un piccolo capolavoro dell’artigianato dell’800. C’è una sola finestra aperta che dà sul retro del cortile, con le imposte che sbattono per il vento. Ai muri scaffali di legno impiallicciato e montanti di plastica nera. Nel complesso, è la solita mestizia sciapa da ufficio statale con qualche guizzo di tradizione e tonnellate di polvere.

Ario tira fuori i cassetti che si schiantano per terra. Quello al centro è chiuso a chiave, così capovolgiamo la scrivania e Ario salta sopra il cassetto finché si spacca, poi ci chiniamo a osservare. Buste affrancate e aperte, una fotografia di studenti, una Mont Blanc rossa a sfera e un mazzo di chiavi zigrinate per serrature a pistoni, più complicate di quelle a scatto unico che abbiamo visto fino adesso.

«Una madonna di niente» impreca Ario «Andiamo avanti. Le chiavi mi sanno di roba nascosta, casseforti, armadi dell’orrore.»
«Non ti dimentichi le chiavi della cassaforte nella scrivania e te ne vai per sempre» dico.
«Tutto è possibile. Via, via, studiare.»

M’infilo in tasca le carte e passiamo in rassegna le pareti, aiutati dalla luce diafana che viene dalla finestra, bussando in cerca di un suono vuoto. Quando arrivo vicino alla porta, il mio piede urta qualcosa di metallico.

È la chiave della porta. Con l’accendino guardo la serratura sfondata. Il blocco è fuori. La infilo nella toppa e giro: il blocco rientra. Era chiusa dall’interno. All’improvviso la stanza diventa interessante. Vado a vedere le imposte della finestra e le trovo integre. Qualcuno è entrato dalla porta, poi si è chiuso a chiave ed è uscito dalla finestra. Perché?

«Non voleva gli rompessero i coglioni mentre delinqueva» fa Ario «Interessante.»
«Ma chi?»
«Chi se ne frega? L’unica cosa certa è che il manolesta puntava a rubare qualcosa, e quello che interessa a lui interessa a noi.»
«Magari l’ha preso.»
«Ottimismo, negro, ottimismo!» gongola Ario, zompettando fino alla scrivania ribaltata e illuminando la serratura del cassetto sfondato: «A-HA!» esclama, indicando il bordo su cui ci sono scheggiature e graffi.
«Dunque il collega voleva qualcosa nel cassetto, ma è fuggito prima di riuscire. Qual era il bottino?» domanda. Mi frugo in tasca e tiro fuori tutto. Una foto di classe, buste con lettere e un mazzo di chiavi.
«Quelle» dice Ario, strappandomele di mano «Siamo a posto. Ora sgamiamo cosa aprivano ‘ste chia-
Il Casio al polso suona.

Dobbiamo raggiungere gli altri. Ario s’infila in tasca buste e foto, sale sul davanzale e salta nel cortile. Per un istante rimango solo. Sento il vento fuori, lo scalpicciare delle scarpe di Ario, l’imposta che sbatte. Guardo la porta da cui siamo entrati, un rettangolo nero e silenzioso: chi chiude a chiave una porta, in un edificio abbandonato? Cosa c’era, dall’altra parte, da costringerlo a scappare dalla finestra?

«Ah, namiore ganchiore» fa Ario, dall’esterno «Piove.»
«E quindi?» dico, saltando giù.
«La macchina, focomelico» sbotta, scattando verso la piazza mentre la pioggia aumenta. Lo seguo, lanciando un’ultima occhiata alla finestra aperta e a quella porta chiusa.

Arriviamo fradici e troviamo Luca e Atza seduti ai tavolini interni del bar che bevono Petrus Boonekamp e Fanta con due pompe d’irrigazione arrotolate per terra. Zombie si è mangiato un chilo di prosciutto cotto imbustato per toast, ha gradito qualche sottiletta, si è dissetato con l’acqua minerale e ora sta a guardia della refurtiva. Appena spuntiamo all’ingresso, Atza caccia un urlo e cade dalla sedia rovesciandosi il bicchiere addosso.

«Via, via, veloci!» fa Ario «È tutto lì?»
«Sì, prese dal dottor Carrai.»
«IL BUON DOTTOR CARRAI» esclama Ario, caricandosele in spalla «Motorini?»
«Son qui dietro» fa Luca «Niente chiavi, ma avviarli è una stronzata, basta aprire il blocco della chiave.»
«ANDALE, RECUPERATE LE MOTOZAPPE, NEBO, VIA» fa Ario, correndo fuori.

Sotto una doccia gelida, inseguiti da Zombie, sento in lontananza il ronzio metallico dei motorini che mi sorpassano pochi minuti dopo. Esperti adolescenti, saliamo dietro e raggiungiamo il muretto. La 127 è ancora lì, ma l’erba è già fradicia e scivolosa. Facciamo un cappio che fissiamo al sedile dei due Piaggio, Luca e Atza arretrano per mettersi in posizione, io e Ario scendiamo a fissare le pompe alla 127 che non ha ganci anteriori. L’unica soluzione che ci viene in mente è aprire le portiere, far passare le gomme nell’intercapedine che le collega alla macchina e farci il nodo.

La pancia della macchina s’è interrata in un dosso e le ruote non toccano terra. Risaliamo a prendere i sassi franati del muretto e ammassiamo in fretta un binario. Ario si mette al volante: «Riferisci ai due idioti di andare lentisssssimo e costante» grida per sovrastare la pioggia.
«Lento e costante, ok.»
«No, lentissimo e costante; deve sembrare la tua carriera da rapper.»

La strada è invasa dal fumo dei motorini. A valle, Ario accende il motore e io faccio cenno agli altri; le pompe si tendono, l’albicocco sussulta e sento il motore salire di giri. Si muove. Ogni volta che un sasso del nostro binario si sposta la ruota scivola sull’erba, e ogni volta Ario tira una bestemmia diversa, più intensa e appassionata. Lo osservo con un misto di terrore e incredulità. Ario è il fantino che sta cavalcando il Cristo verso il traguardo, è Saruman contro Gandalf, è il vento che muove le vele del destino.

Da chissà quale antro segreto della sua mente, il giovane sciamano evoca sante semisconosciute, beati dimenticati nei libri di Storia, arcangeli, interi concili vaticani elencati in ordine temporale da prima delle crociate e li unisce in una gigantesca sfera genkidama di blasfemia con cui alimentare il motore della 127. I due Piaggio sgommano sull’asfalto bagnato sollevando fumo bianco e acre, Luca e Atza danno a manetta, nel cielo tuoni e fulmini, a terra fumo, luci rosse, Armageddon.

All’ultimo metro dalla bocca di Ario escono Brigida di Svezia, Demetrio di Alessandria, Eustochia Smeralda Calafato e quel San Brendano di Clonfert che ogni bestemmiatore professionista conosce bene perché si può pronunciare ruttando, poi la gomma legata al motorino di Atza si spezza catapultandolo contro il muro con un guaito.

Ora è solo pioggia e silenzio.

La 127 è metà sulla strada e metà giù, ma le ruote anteriori hanno frenato in tempo. Luca molla il motorino e soccorre Atza, Ario rimette la 127 in strada di traverso, ingrana la marcia, io gli metto due sassi dietro le ruote per prudenza. I fari illuminano i vigneti in basso. Zombie è sotto un albero che ci osserva con l’aria ottusa e ottimista che hanno i cani, quando ti guardano fare cose che non capiscono ma sono certi tu abbia un ottimo motivo per farlo.

«Avevo detto pianissimo» fa Ario, sbattendo la portiera. Il finestrino va in pezzi. Lo osserva, poi scrolla le spalle: «Vabbè, tanto… Come sta il pirata guascone?»
«MI DONO DODDO IL DAZO» bercia Atza, rialzandosi con il sangue che gli cola fino sul mento e la faccia piena di graffi.
«Dai, non è grave» fa Luca, osservandolo.
Ario va a prendere dei fazzoletti di carta appallottolati dalla macchina e li porge ad Atza.
«Grazie» dice mettendoseli contro le narici: «DON ZONO UZADI, VERO?»
«No, no.»

Siamo bagnati fradici, stanchi e demotivati. Andiamo a sederci sotto una tettoia subito raggiunti dal claudicante Zombie, per fumare una sigaretta e decidere il da farsi nella speranza che smetta di piovere. Atza, premendo e rigirandosi i fazzoletti contro il naso vede un preservativo che sporge, tira un urlo in falsetto e li lancia in faccia ad Ario, che reagisce a cazzotti. Mentre i due idioti si azzuffano e la pioggia cade, Luca mi aggiorna. Oltre a motorini e pompe hanno rubato soldi dalla cassetta delle offerte in chiesa e dalla cassa del bar, totalizzando la considerevole somma di 31,250 lire. Io gli racconto com’è andata a noi. Un pacco di lettere, un mazzo di chiavi e una domanda su una stanza chiusa dall’interno.

«Scusa, ma la finestra era rotta, rovinata?» fa Luca «Dentro c’erano foglie?»
«No. Niente di diverso dalle altre.»
«Quindi è stata aperta di recente?»

Mi torna in mente la fiamma dell’accendino che balla all’improvviso, indice che una corrente d’aria è stata disturbata. Succede quando chiudi una porta, per esempio. Ecco di cos’aveva paura l’apritore di finestre: di noi.

«FIOI!» sbotto «C’è qualcuno in città.»
Atza e Ario si fermano: «Che ne sai?»
Tiro fuori le lettere e la foto.

 

[Continua]

03. La faccia della paura

03. La faccia della paura

La stradina percorsa all’andata è una linea grigia, ripida e stretta che si inerpica tra le colline. A sinistra, un muretto di mezzo metro fatto con lo sputo ci separa da una vallata. A destra una muraglia di sassi e cemento sopra cui sorgono siepi e cipressi. Davanti a noi ci sono le colonnine e il paese. La strada verso il basso non ha nemmeno lampioni. Vediamo solo ombre grigie di prati e file di vigneti tra cui spuntano ville. L’aria profuma di bosco e asfalto caldo. Forse l’hanno rimossa, ma in questo silenzio avremmo sentito i rumori.

«Non con Atza che farneticava di pirati» dice Luca.
«Corsari.»
«Taci.»

C’è una carreggiata sola. Non c’è spazio di manovra e nemmeno il foglietto color evidenziatore. L’unica spiegazione è che l’abbiano rubata. Ma chi? Dalla dimensione delle abitazioni, il reddito medio è alto. Case a due piani con le finestre rifinite, alcune casupole coi mattoni a vista, quell’architettura stupenda e semplice dei paesini. In un giorno d’autunno, qui, ci sarebbe l’odore acre del vin brulè, legna bruciata, castagne e qualche turista. Invece non c’è niente. Nessun segno di umanità. A una folata di vento segue un rombo distante. Sembro notarlo solo io.

«ZAPPATERRA BASTARDI, USCITE LA MACCHINA O FACCIO UN MACELLO!» grida Ario, tirando un calcio a un sasso «FINITE COME VERSACE, GIURO SU DIO!»

Aspettiamo un responso, qualcosa che riempia il silenzio dopo il riverbero di Ario. Facciamo quei dieci metri che separano la strada dal paese. Prendiamo a pugni porte, imposte, muri. Facciamo tutto il rumore possibile, cittadini di periferia in crisi d’astinenza dai suoni di città. Vedo un cestino di metallo. Gli tiro un calcio e vola per un paio di metri, atterrando sulla strada e rovesciandosi. Cartacce, stecchini di ghiaccioli, una bottiglia di Fanta di vetro, il volantino di qualche evento. Mi avvicino a raccoglierlo.

«Va bene, ho capito» fa Ario «I grezzi non avevano mai visto un carro capace di muoversi senza cavalli. L’avranno portato in piazza per venerarlo. Verranno derubati anche per questo.»
«Torniamo a piedi» dico, osservando il flyer.

È di una sagra con la data di oggi.
Si dovrebbe sentire musica, vedere macchine parcheggiate alla disperata, gente ubriaca. Nulla.

«Senza 127, negro? Non è mica una vostra zebra, che quando c’è la carestia vi mangiate la macchina. E poi non ce ne andremo da qui senza una corposa refurtiva, la coscia di Antosha richiede il giusto trib-
«COMUNQUE l’ultima volta che abbiamo visto un centro abitato sarà a venti chilometri da qui» interrompe Luca.

Il cielo s’è coperto. Un’altra folata d’aria fredda mi fa appiccicare la canottiera alla pelle sudata. Usando gli accendini studiamo la strada dove avevamo lasciato la 127, poco prima delle colonnine d’acciaio. Scendiamo fino all’ultimo lampione, guidati dalla luce fioca di un campanello vicino a una porta di legno: Dott.Carrai. Suoniamo. Dall’interno della casa sentiamo lo scampanellare, ma dopo cinque tentativi ci arrendiamo.

«Ma che è successo, in ‘sto posto?» chiedo.
«Sticazzi del contado, io voglio la 127 o faccio un massacro! Vivi, morti, donne, bambini, case, bestie! O salta fuori la macchina o vado giù di aiuti umanitari!» grida Ario, alzando il braccio e facendo scattare le pietrina dell’accendino «CAPITO, TROGLODITI?! L’UOMO BIANCO HA IL FIORE ROSSO DELLA MORTE!»

Senza aspettarci, scende la strada buia a passi cauti, tira fuori il suo accendino e fa scattare la pietrina finché vediamo il muretto collassato. Almeno quattro metri andati giù come fossero cartone. È integro, ma orizzontale. A terra ci sono calcinacci, terra smossa, pezzi di fanali e paraurti. Oltre il buco, l’erba è piegata. Dieci metri più in basso, ci risponde un riflesso: la targa.

«MA PORCO NAMIORE GANCHIORE» sbotta Ario, scavalcando e correndo giù, subito inseguito da noi.
«Non avevi messo il freno a mano?!» domando.
«Seh, ma una derapata oggi, una domani, mia madre che parte dimenticandoselo, forse s’è allentato» dice tutto d’un fiato.
«Forse» dico, ansimando «Ma non escludiamo i folletti dispettosi.»
«O il pirata guascone» dice Luca.

La 127 è precipitata in retromarcia, aumentando la velocità per una trentina di metri, poi in curva ha sfondato il muretto e avrebbe proseguito fino a valle se non avesse trovato un albicocco. Ora ha il lunotto posteriore sfondato, il paraurti distrutto ed è glassata di frutta, ma è ancora tra noi.

È andato tutto a monte.
Se vuoi svaligiare un posto dev’essere vergine. Domattina gli abitanti vedranno il muretto abbattuto; se la domenica successiva arriva una macchina di estranei col posteriore sfasciato, ci vuol poco a fare due più due. Se oltrepassi la soglia di sensibilità, devi aspettare che ritorni al punto di partenza. Non puoi svaligiare una casa appena svaligiata: la gente ti aspetta col fucile, per un po’.

Ti ti ti tic. Ti ti ti tic, sento da qualche parte.

Per la prima volta ho la sensazione di conoscere questo posto. Somiglia a quando tra la gente senti un profumo che aveva una persona cara; per un istante sei ancora in quel momento e in quel posto, ma appena cerchi di afferrarlo ti scappa via. Ario e gli altri dibattono su come riportare l’auto in carreggiata e decidono di costruire un binario con le pietre del muretto sfondato. C’è un suono ripetuto, verso il paese. Sembrano foglie secche sull’asfalto, ma è più duro. Sassolini che battono contro qualcosa.

«Se scivola abbatte l’albicocco e via verso il contado’s paradise» fa Ario «Buono il binario, ma serve qualcosa che la fermi.»
«Zitti tutti» fa Luca.

Ci blocchiamo, lui che indica il ciglio della strada buio e tiene l’altra mano aperta di lato, immobile. Per un istante non succede niente, poi vedo un’ombra muoversi, sporgersi dal muretto franato e tornare a nascondersi. Potrebbe essere un bambino piccolo, ma non si comporta come una persona. Muove la testa su e giù a scatti, come un piccione. Ario striscia contro la macchina, apre la portiera piano, si siede al posto di guida e accende i fari. Dal muretto emerge un san bernardo grande come un vitello.

«Ma vaffanculo» espira Ario, rimettendosi a studiare la macchina.

Il bestione scende a zig zag annusando l’erba, attento a non incrociare lo sguardo. Quando arriva davanti ai fari, il nostro sollievo diventa orrore. Ha un occhio chiuso e gonfio come una palla da tennis. La zampa sinistra è incrostata di sangue. Sul pelo ha polvere, fango, chiazze di pelle che mancano e grumi rossastri. Sembra felice di vederci. Sta seduto con la lingua penzoloni, cercando nei nostri occhi qualcosa che non capiamo. Ario tira fuori una bottiglia d’acqua e lui se la beve di gusto. Siamo tutti concentrati sull’animale, solo Luca è pallido e lo guarda a occhi sgranati.

«Fioi» dice a denti stretti «Andiamo via.»
«Guarda che mica morde. L’avranno investito» dico, accarezzandolo con cautela.
«Sì? E quand’è successo? Ieri? L’altroieri?» domanda Luca.
«Come faccio a saperlo?»
«Nebo, il sangue. È vecchio. Guardalo.»
«Quindi?»
«Quindi sono almeno dodici ore che ‘sta bestia gira senza un padrone che lo cerca o qualcuno che lo aiuta.»

«MA A PARTE IL PULCIOSO ZOMBI» fa Ario «Abbiamo due possibilità: o il carro attrezzi, o seghiamo l’albicocco e lasciamo andare la 127 nell’abisso sperando trovi una strada da sola evitando di capovolgersi, distruggersi, esplodere.»
«Con noi dentro?» fa Atza.
«Nooo, fa tutto il pilota automatico, vero, K.I.T.T.?» dice Ario, rivolgendosi al cofano «UOU UOU».


«UOU UOU»

Il cane si stacca da noi, risale di qualche metro la collina e si gira ad aspettarci. Uggiola. Mi avvicino facendogli cenno di seguirmi ma lui risale ancora. C’ un altro rombo che lo fa sussultare. Qualsiasi cosa vogliamo fare, bisogna decidere in fretta. Se piove il terreno diventerà bagnato e renderà le cose più difficili. O cerchiamo aiuto, o la facciamo scivolare a valle. Decidiamo di cercare una cabina telefonica. Il cane, prontamente ribattezzato Zombie, abbaia entusiasta.

Risaliamo fino al paese mentre lui ci anticipa, voltandosi per vedere se lo seguiamo.

Le folate di vento sono sempre più forti. C’è un altro rombo. A un bivio, Zombi va da una parte e noi dall’altra. Torna indietro e abbaia. Lo seguiamo. Il numero di campanelli che suoniamo diventa sempre più rado, perché la risposta è sempre lo stesso silenzio. Dopo un centinaio di metri i vicoli diventano più sporchi, poi Ario gira l’angolo e gli cade la sigaretta di mano.

«Sta scopata slava inizia a diventare complessa» dice, mettendosi le mani sui fianchi.

La piazza è sventrata. La chiesetta ha la facciata spaccata in due, le finestre in frantumi e il campanile è caduto sul tetto di una palazzina lì di fianco, sbranandola per tutto il primo piano. Il bar ha ancora i tavolini fuori coperti di detriti, tegole e calcinacci. Ci sono le sedie fatte con i fili di gomma rovesciate, delle tazzine da caffè, coppette di gelato liquefatto per terra, una birra ancora piena per metà.

Al centro della piazza vediamo tavoli e panche da sagra ancora da montare, sparpagliate.

Sul lato sinistro, una palazzina a due piani è aperta come una casa di bambole. Vediamo un salottino con le piastrelle lucide anni ’70, un divano di pelle lisa, una madia sfondata con dentro piatti rotti e bicchieri, giocattoli per terra. Sotto, una farmacia ha le vetrate spaccate e le saracinesche abbassate per metà, storte e deformate. Tre tegole cadono dal soffitto, poi il piano s’inclina rovesciandole tutte e franando a terra con un rombo che ci fa sobbalzare. Il resto del paese, dietro, è nelle stesse condizioni.

«Cazzo è successo?» domanda.
«Forse un terremoto» oso, ma dovrebbero esserci transenne, ambulanze, sirene, ruspe dei pompieri e della protezione civile, polizia e vigili.

È come se qualcosa fosse esploso costringendo la popolazione ad andarsene di corsa e in silenzio, abbandonando il paese senza lasciare traccia. Non ha senso. Comunque, da aspiranti topi d’appartamento siamo appena diventati sciacalli. Luca mi tiene gli occhi puntati addosso e non parla. Attraversiamo la piazza fino a quel che resta del bar, sussultando a ogni sasso o tegola che cade. Zombie ci trotta dietro annusando.

All’angolo, sotto una cupola di plastica trasparente sfondata, c’è un telefono a gettoni.

Mi frugo in tasca e tiro fuori cento lire, li appoggio sulla fessura. Non so il numero di un carro attrezzi. Dovrei chiamare il 113 e farmelo dire, ma questo ci collocherebbe all’ora e nel posto dove avviene un furto con scasso, in una situazione che di normale non ha nulla. Quando spiego il problema, l’unico a insistere per andarsene è Luca.

Si muove e cammina come se stesse aspettando di entrare a fare l’orale della maturità.

«Non voglio sentire deliri gay, noi tamponeremo Antosha costi quel che costi. Siamo la generazione di McGyver, cazzo. Uscitemi idee gagliarde mentre piscio su quell’altarino» dice Ario, abbassandosi la cerniera dei jeans e incamminandosi verso un qualche santo di provincia. Quand’è di ritorno, abbiamo ritrovato il sangue freddo. Dopotutto abbiamo un intero paese da saccheggiare. Atza e Luca troveranno delle corde, poi una o più cose dotate di motore. Sono le tre di mattina, ci restano altre tre ore. Concludiamo con la regola di trovarsi in piazza ogni ora per aggiornarsi.

«Tu e Nebo che fate?» domanda Atza.

«Andiamo a rubare il collegio» mormora Ario con un lampo negli occhi.
Sono le 23.01
[continua]

Il nuovo codice di Hammurabi

Su Le Monde, un gruppo di femministe dichiara che se un uomo viene accusato di stupro è colpevole fino a prova contraria. Lena Dunham, sceneggiatrice di Girls, ha dichiarato la stessa cosa: le donne non mentono sullo stupro. Quindi se un padre, un fratello o un figlio verranno accusati di molestie da una tizia qualsiasi, è giusto linciarlo su Twitter, farlo licenziare, calunniarlo, diffamarlo e possibilmente suicidarlo. Sarà bellissimo andare da un uomo di 66 anni e dirgli “papà, hai 12 ore per dimostrare a degli sconosciuti che 30 anni fa non hai toccato il culo a una tizia, altrimenti ti toglieranno la pensione”.

Sperando non crepi subito d’infarto come con gli errori di Equitalia, sarà spassoso.

Mi colpisce come né le femministe di Le Monde né la Dunham abbiano spiegato perché questo principio si debba applicare solo ai casi di molestia/stupro e non, che so, a quelli di tortura. O di omicidio. O strage. Vorrei inoltre far notare che se un tizio stupra una donna, conoscendo questo principio gli conviene ucciderla; se lei è morta avrà un processo equo e assistenza legale. Se lei è viva, no.

Portentoso, ‘sto principio.

Altra domanda: se la stupratrice/molestatrice è una donna, magari di un’altra donna, o di un bambino? Anche lei è colpevole fino a prova contraria? Perché è risaputo che anche le donne stuprano, torturano, uccidono e sfregiano uomini, donne e bambini. In quel caso come funziona? La parola di un uomo vale meno che quella di una donna? E quella di un bambino?

 

Lo so, lo so, sto facendo il cockblocker. So che queste domande complicano una cosa “semplicissima” e tolgono alla folla il suo giusto e meritato linciaggio quotidiano, ma sto ancora imparando come funziona il tribunale popolare Social. Faccio domande a questi nuovi Savonarola e mi sento come quando discutevo con certi elettori che rispondevano “ma va làààà, va làààà, checcivuole a gestire un comuneeeee?”.

E non ho nemmeno finito.
Perché con tutto il rispetto del mondo e senza voler sembrare antipatico… c’è un altro problema non trascurabile, in questo nascente tribunale sociale.

 

 

 

Ecco, lungi da me rovinare tutta quest’allegra giustizia sommaria, ma in agosto una ragazza ha accusato un collega di Lena Dunham di averla molestata. Lena ha risposto che la ragazza certamente mentiva. Per questa dichiarazione è stata massacrata dal tribunale social, nonostante si sia scusata per aver dubitato. Tolta Lena, ci sarebbe la storia della tizia che non aveva voglia di pagare il taxi e se n’è andata minacciando di accusarlo di molestie. Un altro tassista è stato salvato dall’app per lo stesso scherzo. E un altro ancora. A Milano un tassista sudamericano ha violentato la turista canadah, no. Sempre a Milano, la studentessa violentata sul treno da due marocchini si era inventata tutto. C’è poi il caso dello stupro di Chiaia denunciato su Facebook, proposte di giustizia sommaria e poi era una palla. Un’altra ha mentito perché voleva 1000 euro al mese da un imprenditore. Una chiede un passaggio, la carichi e scatta il ricatto. Anche le prostitute lo fanno. A Torino c’è stata la ragazza violentata dai ROM; guerriglia urbana, poi scusate, mentivo. Una donna ha accusato il suo ex fidanzato di stupro ”per farlo tornare da lei”. Idea che ha avuto anche un’altra donna a Olbia.

Dev’essere tipo “prima Badoo, dopo #metoo”.

Un’altra, per nascondere al marito l’amante, lo ha fatto incarcerare per un anno dicendo che l’aveva violentata. Un’altra l’ha detto per attirare l’attenzione. Una, per nascondere i succhiotti che le ha lasciato l’amante, racconta di essere stata violentata. Messa alle strette confessa di “avere fatto una cavolata”. Una passa la notte con l’amante, poi si presenta dalla polizia millantando di essere stata sequestrata e stuprata. Non è la sola a usare il trucco per coprire tradimenti. Ci sono poi gli immancabili 2/3 immigrati stupratori; roboanti dichiarazioni di Salvini, immancabile “castrazione chimica”, poi non è vero. Notare che, stando ai Carabinieri, la signora era “non nuova a questo genere di reati”. Un’altra non ha il coraggio di dire al marito che fa la pornostar e dice che “è stata costretta da un conoscente”: falso. Un’altra s’è inventata tutto per far ingelosire il fidanzato. Una ha accusato il vicino di casa di stupro per liberarsene. Un’altra ha speso tutti i soldi, non ha avuto il coraggio di dirlo al marito e ha inventato stupro e rapina. Un’altra lo ha fatto per non pagare il biglietto del treno. E l’ha fatto anche un’altra. In Inghilterra, una tizia nel corso degli anni ha rovinato la vita a ben 15 uomini, finché qualcuno non si è accorto che nessuno l’aveva mai stuprata. Che ne è degli uomini, dopo? A me viene in mente Mohammed Fikri, intercettato durante l’indagine su Yara Gambirasio. La brava gente si è premurata di rovinargli la vita. Poi è saltato fuori che non c’entrava nulla. C’è anche il caso di un italiano mandato in galera dalla compagna un mese per niente. Per. Niente.

 

 

Ora: sono assolutamente certo i casi qui sopra siano rarissimi e isolati. O forse non così tanto. Ma sempre attenendosi ai numeri: quanti uomini innocenti è accettabile rovinare, per saziare la sete di giustizialismo della casalinga di Voghera? Uno su mille? Su diecimila? Soprattutto: chi ha deciso che una massa dietro una tastiera ha il diritto di giudicare e punire qualcuno? Chi gli ha dato il potere di farlo?

Bè, ammettiamolo: noi media, opinionisti e webstar di stocazzo abbiamo una discreta responsabilità.

Non facciamo muro contro la falange d’immondizia umana che si indigna per noia e lincia per divertimento; anzi, ne abbiamo un terrore assoluto. Tanto da legittimare calunnie e diffamazioni coi vari “l’opinione della rete”, “il web insorge”, “la rete si indigna”. Non sono opinioni, sono calunnie e diffamazioni, ossia reati. Il terrore di essere bollati come sessisti ci ha portati a presumere la colpevolezza in base all’organo sessuale. Abbiamo accettato il linciaggio dei colpevoli, e questo ha legittimato il linciaggio dei presunti colpevoli, in un delirio giustizialista collettivo dove chi cerca di moderare i toni è bollato come complice, e per dimostrare di avere la coscienza pulita bisogna fare a gara a chi è più intransigente; chiedere punizioni via via più severe fino alle immancabili torture, mutilazioni, esecuzioni.

Forse, prima di ritornare al codice di Hammurabi, sarebbe il caso di tirare fuori i coglioni e opporsi. Non partecipare a questo schifo. Non fare nomi. Non dare visibilità ai linciaggi. Boicottare, bloccare e impedire ai capipopolo di crearne altri. In una parola, comportarci da persone responsabili e non da bestie emotive.

Ma immagino sia la frase che dice il classico guastafeste.

02. Un paese tranquillo

02. Un paese tranquillo

Il salotto di casa di Ario odora di fritto e Lisoform. Pareti spatolate, copridivani mai tolti, centrino di pizzo sul tavolo da pranzo. La foto di un uomo elegante dentro quelle cornicette d’argento riservate ai parenti morti, abbastanza piccole da non farti nostalgia e abbastanza grandi da non farti sentire in colpa per averli scordati. Statuine di gatti.

La madre è pasciuta, sulla cinquantina, capelli grossi color topovolpe, vestito a fiori e Birkenstock. Ci spiega che non può prestarci la macchina, le serve per andare dalla numerologa.

«Mamma» fa Ario «La numerologia è una cosa che si sono inventate le multinazionali che fanno il signoraggio bancario sugli immigrati che ti vaccinano contro il lavoro islamico. E poi finisce agli zingari, che rubano i bambini di rame e li rivendono ai terroni. Vero che lo dice anche la nostra professoressa di matematica?»

Noi tre ci scambiamo occhiate allarmate, poi annuiamo.

«Vedi! L’ha detto anche Barbara D’Urso quando è andata dalla Parodi sull’Isola dei famosi, c’era anche un lato b da urlo a Lampedusa e fermava gli sbarchi nella casa del Grande fratello VIP. Ovvio che è tutto un magna magna. In un paese normale ha ragione Striscia la notizia, ci vorrebbe la pena di morte per tutti i pedofili che vengono qui a stuprarci i vivisettori invece di aiutarli a casa loro. La gente è stufa, noi poveri italiani non arriviamo a fine mese. Capito, mamma? Finale, la macchina la prendiamo noi.»

«Ah… Va bene» dice la donna.
Corriamo fuori.

«A bordo, lesti!» ulula Ario, scattando verso la macchina «L’incantesimo dura trenta secondi, poi le si resetta il cervello!»

Ci scaraventiamo dentro la 127. Il motore sussulta e muore. Ario guarda la luce sul tettuccio, prova a farla scattare. Per un istante manda un lampo fioco, poi sfuma nel nulla.

«Cristo, s’è di nuovo cazzuolata la faccia per quello del banco macelleria» geme.

Scendiamo e ci mettiamo a spingere con la forza della disperazione. Facciamo tre metri, quando sentiamo lo scatto metallico del cancelletto alle nostre spalle e lo sciabattare della madre: «Ario! Ho pensato-
«E GIA’ SBAGLIAMO MALE» replica il figlio a denti stretti, premendo l’acceleratore. La 127 sussulta. Spingiamo più in fretta. La madre esce dal vialetto. Spingiamo con tutte le forze che abbiamo, l’incrocio del vicolo a dieci metri. La madre bercia cose incomprensibili tra i nostri gemiti e il rantolo del motore.

«Non sento bene, il frastuono dei cavalli vapore della fuoriserie copre tutto» grida Ario «E voi spingete, cazzo, ne va della mia già improbabile eredità.»

La 127 si avvia. Saltiamo dentro uno sopra l’altro, di traverso tra i sedili, botte e vaffanculi, mentre la madre diventa piccola nel retrovisore. Entriamo nel terraglio alle 19.30. Mezz’ora dopo la spia della riserva lampeggia bestemmie in codice morse. Entriamo in una laterale coi vapori della benzina e siamo nel posto e nel giorno ideale per fare quello che ci serve, ma dobbiamo aspettare almeno l’una. A piedi raggiungiamo due case, una chiesa e un’osteria che qualcuno ha coraggiosamente chiamato paese. Compriamo due panini e una coca da spartirci in quattro, grattiamo dai cestini del pane il restante, chiacchieriamo fuori fumando Lucky strike.

«Tua madre non sa che hai mollato scuola?» domanda Atza, togliendo la crosta alla fetta di pane.
«Chiaro, altrimenti mi gioco la paghetta. Poi non voglio deluderla, già sta un giorno sì e uno no a ripetere namiore ganchiore con la vicina.»
«E cosa sarebbe?» domanda Luca.
«È una supplica agli dèi dei bastoncini di incenso. Fa ‘ste Buddhanate perché il Dio tradizionale non la fa scopare; devi chiedere a chi fornisce con maggiore probabilità» spiega Ario, agitando il panino «Nell’attesa il signor Ganchiore mandi un trombante, lei si sollazza col micio, trinca mezzo litro di acqua magica omeopatica corretta psicofarmaci, due polpette macrobiotiche anticancro e via di maratona de La vita in diretta stirando mutande. Chi l’ammazza a lei?»

Torniamo alla macchina. Io e Atza studiamo le auto parcheggiate a caccia delle Panda, delle 600 e di tutte quelle sprovviste di serratura al serbatoio. Ario ci segue con tanica e tubo di plastica, un mozzicone di un metro ottenuto tagliando la pompa d’acqua della vicina. Luca tiene gli occhi sui palazzi e la strada. Fila incredibilmente tutto liscio. Ripartiamo a serbatoio pieno e arriviamo ad Astorzi di Boion attorno alle 22.

Nessuna persona, nessuna macchina. Le portiere della 127 che si chiudono rimbombano come un petardo in chiesa. Fa caldo e l’umidità crea una nebbiolina spettrale.

«Senti che pace» mormora Atza.
«Senti che palle gonfie» geme Ario, afferrandosi il pacco e scrollandolo «Mi avete fatto mancare la sega del  dopocena, fatto gravissimo. Dov’è ‘sto collegio?»

All’ingresso del borgo ci sono delle colonne di pietra che impediscono l’entrata delle macchine. Parcheggiamo la 127 contro un muretto che separa la strada da una vallata e ci incamminiamo dietro a Luca, camminando in silenzio tra le vecchie case da contadini.

«Ma ci vive qualcuno, qui?» domando.
«Nooo, è tipo la giostra dei pirati a Gardaland» fa Luca.
«Sono I corsari di Gardaland» precisa Atza.
«Vabbè.»
«No “vabbè”, è importante. Jason Montague è un corsaro, non un pirata. Minaccioso, sì, ma alla fine è buono.»
Sguardi interrogativi: «Chi?»

«Jason Montague. Mi fate incazzare se parlate senza sapere le cose. Non avete visto la scena della taverna? È lui che salva la cameriera.»
«Atza, la giostra» fa Luca con un filo di voce «Stiamo parlando della giostra.»
«Lo so! I corsari. Conosco a memoria tutta la trama, i personaggi, i dialoghi. Ci vado ogni estate fin da quando l’hanno aperta nel ’91. Entro alle 10 di mattina, esco dopo l’ultimo giro alle 22 la sera, fa 74 giri da 9 minuti. Sarebbero 80, ma ne tolgono 6 per la pausa pranzo. Escludendo quest’anno che ancora non ci sono andato, ho fatto I Corsari… quattrocentoquarantaquattro volte. E voi nemmeno sapete che ha una trama?»

Noi tre

«Non lo sapete!» insiste Atza a occhi sbarrati «Cioè per voi è solo u-un… un trenino?»
«Ringrazia che non c’è una donna ad ascoltare questa roba» fa Luca, arricciando il naso.
«Avete a disposizione un’esperienza di vita e la vivete come… come se fosse la brucomela?! Che razza di idioti superficiali siete?! Almeno i dialoghi…»
«Ma quali dialoghi?!» esplode Luca nel silenzio «Il pappagallo demmerda con la vocetta stridula che gracchia è meglio che torrrniate indietrrrro!?»

È meglio che torrrniate indietrrrro!

È meglio che torrrniate indietro!

È meglio che torrrniate indietrrrro!

Il riverbero della voce si spegne contro qualche parete lontana, lasciandoci ascoltare solo i nostri respiri. È tutto immobile, qui. Non si sente un televisore, un russare, un adolescente che bercia, un motorino, un cane che abbaia. Niente. Solo case chiuse, ordine e pulizia. Non una cartaccia, o un manifesto, o una tag. È un silenzio pesante e peggiore di quello della nostra periferia, ma non so spiegare perché.

«Mi sono venuti i brividi al buco del culo, piantala» mormora Ario, riprendendo a camminare.
Arriviamo al collegio.

È diviso da una strada. Da un lato, un vecchio edificio neoclassico a cinque piani dall’aria malmessa, ma che conserva una sua austerità grazie alle grate alle finestre in ferro battuto e il portone, entrambi in ottime condizioni. Più avanti c’è l’ingresso alla piazzola centrale, che forse porta a un cortile. È sbarrato da un cancello a due ante in ferro, alto due metri e che termina sotto una volta di pietra su cui troneggia il nome dell’istituto. Dall’altra parte della strada c’è un giardino con sentieri di ghiaia, aiuole curate come fossimo nel 1700, statue di cemento sbranate dalle intemperie e coperte di muschio, una fontana che non vede acqua da parecchi anni e un altarino. Il solo modo di entrare sarebbe forzare il portone, ma è troppo esposto.

«Nebo, almeno tu, la conosci la trama dei Corsari?» domanda Atza.
Gli ansimo una bestemmia nell’orecchio e passiamo oltre.

Il collegio confina a est con una vecchia casa contadina male in arnese, anche lei con un giardino protetto da una siepe. A ovest, un villone da miliardari che sorge su una collina protetta da una murata di tre metri abbondanti. Decidiamo per la casa contadina. Attenti che non ci sia nessuno attorno, scavalchiamo il cancelletto e finiamo in un giardino trascurato, tra erbacce, mucchi di foglie secche dell’autunno precedente, sterpaglie e ramoscelli.

C’è un rastrello arrugginito di fianco, come se l’autore del mucchio avesse abbandonato il lavoro e nessuno l’avesse mai più ripreso. Camminiamo sulle piastrelle di ghiaia cementata fino alla siepe che confina con il collegio. In mezzo c’è una rete e non abbiamo tenaglie. Cercando di non fare rumore, la spostiamo per vedere meglio.

Atza tenta di parlare di corsari, un coppino di Luca schiocca come un colpo di frusta.

Oltre il cancello del palazzone c’è un cortile con una fontana, questa volta in funzione. C’è anche un altro edificio più piccolo, tre piani e soffitta. Dalla strada non si vedeva. A 18 anni riconosci le aule scolastiche con un colpo d’occhio. Deduciamo che quello grosso devono essere le camere da letto per allievi e insegnanti, sala da pranzo, aule computer e roba simile. Quello piccolo serve per le lezioni standard. Restiamo a guardare attenti a cogliere una luce, un rumore, un minimo movimento.

Nulla.
Le finestre sono chiuse.

Torniamo indietro, scavalchiamo il cancello e ci incamminiamo verso la macchina. Tranne Ario, domani abbiamo tutti scuola. Dovremo fare un dritto, ma non è la prima volta – e almeno questo giro non siamo sbronzi o drogati. È quando arriviamo alla macchina che realizziamo il primo, vero, problema: la 127 non c’è più.
[continua]

01. La chiamata dell’eroe

01. La chiamata dell’eroe

L’idea ci venne durante una di quelle lunghe e dolorose domeniche d’estate in periferia, quando i rintocchi di campanili e l’abbaiare annoiato dei cani ti ficcano la miseria nelle ossa anche se è luglio. Io, Ario, Luca e Atza eravamo seduti sulle scalinate di un condominio, soli in mezzo a quel che restava dell’ottimismo architettonico anni ’60. Attorno a noi asfalto vecchio, siringhe e preservativi facevano da materasso per il paese reale: adulti partiti per cambiare il mondo e finiti a cambiare canale, ragazzini partiti per combattere il sistema e finiti a combattere le proprie tossicodipendenze.

Avevamo appena scoperto che a compiere diciotto anni non cambiava nulla.

Eravamo i soliti quattro sfigati. Un rapper, un truzzo, un metallaro e un bravo ragazzo che avevano scelto strade diverse per esprimere la propria adolescenza, ma che condividevano i grandi valori della vita: sognare di trombare Antosha, una prostituta dell’est nostra coetanea. Aveva pelle bianca come la neve e nessuno sapeva dire che faccia avesse, perché il suo reggiseno strabordava di ciò di cui sono fatti i sogni.

Batteva alla fermata del 21/. Scendeva dall’autobus verso mezzanotte in jeans e canottiera, entrava nel boschetto e ne usciva in versione pornodiva. Costava 50,000 lire a cranio, che per noi era il bilancio annuale. Anche grattando dai cappotti e dai portafogli dei genitori riuscivamo a fare su il minimo necessario per birra, droga, sfide a Point Blank e miscela per il motorino.

«Ma Cristo, solo io, qui, ho sangue nelle vene?» dice Ario, alzandosi in piedi «Ormai siamo maggiorenni, abbiamo dei doveri: la coscia di Antosha ha bisogno d’aiuto e l’Italia che fa? Perché QUESTA è l’Italia, signori. Un paese dove giovani volenterosi, gagliardi, sono costretti a delinquere per poter fare il loro dovere. Insomma: tocca scippare.»
«MA QUANDO MAI?!» sbotto.
«Dai, ci facciamo una vecchia, magari stiamo attenti a non strapazzarla e siamo a posto.»
«Pieno così di vecchie con 200,000 lire in borsa» dico.
«Ma noi ce ne facciamo tante! Se m’avessero insegnato matematica così sarei ancora che studio. Ogni vecchia ha una borsa con 30,000 lire e un portapillole d’argento che ne vale 60,000. Se il ricettatore prende metà del guadagno e Antosha per aprire le gambe ne vuole 50,000, quante vecchie deve scippare Ario per scopare? Altro che le mele della signora Pina che va al mercato.»

Io

«NIENTE. VECCHIE.» scandisco.
«Va bene, allora stiamo più nella comfort zone: svaligiamo appartamentini» fa Ario «Che tu hai esperienza.»

Era parzialmente vero. La storia d’amore della mia adolescenza era stata una ladra, a Venezia. Ci ero stato abbastanza da imparare a usare arnesi da scasso artigianali e conoscere i fondamenti pratici e teorici del ladro d’appartamenti.

«Sentite, è inutile: prima di scassare servono dritta e ricettatore. Non abbiamo nessuna delle due» dico «Se in una casa c’è qualcosa di valore lo devi sapere prima. Non puoi andare a caso, o sei come quei mentecatti che rapinano gente per strada e finiscono in galera per un telefonino scassato e tre monete. Le dritte sulle case te le dà il personale di servizio, i vicini di casa, gli operai che lavorano sulle impalcature, i tecnici della caldaia, idraulici, elettricisti; insomma, quei mestieri che impari in galera per riabilitarti. Quando subisci un furto in casa, la prima cosa che fanno i poliziotti è parlare con i vicini, poi informarsi se hai fatto lavori in casa. Poi serve il ricettatore.»
«C’è il padre di Taglia, ricettatore perfetto» fa Ario «Adesso fa il rigattiere, ma alle spalle ha un rispettabile curriculum di furti, rapine, scippi. Poi è stato dentro qualche anno e ora ha imparato che “profilo basso” e “Mercedes vetri oscurati” non fanno rima.»
«Quindi è controllato» sospiro «Non puoi fare come gli slavi che vanno dai gioiellieri, è il primo posto dove vanno a cercare. Non puoi nemmeno tenerti la roba in casa sperando di venderla in futuro: devi prendere e rivendere entro poche ore, perché appena hai in mano roba altrui, da qualche parte un poliziotto o un Carabiniere stanno pensando il tuo nome.»
«Nebo noi dobbiamo fare su 200,000 lire, no Houdini che svaligia la banca d’Inghilterra. E poi siamo tutti più o meno incensurati. Dunque entriamo in un posto X, arraffiamo quel che capita e via dal Taglia» fa Ario.

«Ma certo. Ciao Taglia, ho questo prestigioso frullatore degli anni ’80 che funziona a carbone, coprimi d’oro» dico «Taglia ecco questi deliziosi quadri dipinti da una commessa in crisi di mezza età, mi raccomando, i milioni li voglio in tagli piccoli. Taglia qui ho un ironico portaombrelli a forma di cazzo, dammi direttamente le chiavi del BMW.»

«Nebo, il tuo disfattismo è sconcertante» fa Ario.
«Tanto non abbiamo la dritta, stiamo parlando di niente.»
Silenzio.

Din don don, din don don, fanno le campane segnando le nove

«Perché stiamo parlando solo di case?» domanda Luca «Perché non… un collegio?»
Tutti e tre ci voltiamo a fissarlo come se fosse emerso dalla terra.

A diciotto anni, Luca voleva far parte della gente perbene. Voleva essere come i suoi genitori volevano. Ma era uno di noi, e lo detestava. Si tirava dietro la sua anima come un vecchio fumatore si trascina la bombola d’ossigeno, sempre con la gamba saltellante sotto al tavolo, i sospiri a mascella serrata, lo scuotere impercettibile della testa. Ogni dettaglio gridava il suo bisogno di essere perbene, mentre ogni muscolo svelava la sua natura.

E faceva di tutto per stare in quei ristretti circoli di mostriciattoli detti “compagnie giuste”. Arrivava in piazza Ferretto con i capelli gellati, la camicetta bianca e il maglione blu, i jeans di marca, le scarpe perfette. Si aggiungeva ai cerchi dei compagni di scuola che parevano fatti in serie. Stava a spalle strette e sopracciglia corrugate, il sorriso teso a mordicchiarsi le pellicine del labbro, citando tormentoni della TV come massima forma di comunicazione. Sembrava si divertissero un mondo, invece lo vedevi entrare al Pool alle dieci e mezza, massimo alle undici. Spesso con la faccia gonfia.

Perché aveva scatti di rabbia spaventosi.

Beveva troppo, poi attaccava rissa senza provocare, senza le spinte, senza gli insulti: prendeva una sedia e la sfasciava sulla schiena di un tizio di passaggio. Tirava un cazzotto a una persona a caso. E la gente perbene lo adorava, perché i bulli sono odiati nei film quanto amati nella vita reale. I bulli continuano a essere tali perché la gente li istiga. Sono divertenti, rendono le serate eccitanti. A nessuno importava che le botte che Luca pigliava, in realtà, se le stava dando da solo. La sua più grande sfortuna, in fondo, era l’intelligenza. Quella tagliente e indomabile, famelica di libertà, capace di consumarti le viscere.

Quand’era con noi si trasformava.

Arrivava al tavolino, unica camicia bianca di tutta la sala giochi. Fisico asciutto, spalle curve e strette, guance incavate. Ci guardava, arricciava il naso, scuoteva la testa. Prendeva una Coca al distributore – al Pool non c’erano alcolici – e dieci minuti dopo chiacchierava con noi sui tavoli unti, il linoleum con le bruciature di sigaretta, la cacofonia della radio sovrapposta ai videogiochi, la puzza di sudore e ganja, le ragazze che parlavano solo dialetto. Le spalle si allargavano. Prendeva colore. Faceva respiri più lunghi. La sua gente era lì fuori, lontano dalle luci lampeggianti degli arcade. Erano le macchine regalate dai genitori che sfrecciavano in tangenziale mentre noi scaldavamo i bong in campagna. Erano carriere, investimenti, aziende di famiglia, adulti in divenire. Quindicimila lire per un Angelo azzurro sul tavolo a bordo pista dell’Area city, con le ragazze che cantavano quella nenia malinconica e crudele di Alexia, me and you, la la la la la laaa. Luca odiava quella canzone. Ogni volta che al Pool la mettevano, si alzava e chiedeva di cambiare.

«Scusa, che collegio?» domando.
«Ad Astorzi di Boion. Ci andavano i figli dei ricchi negli anni ’80, quest’anno ha chiuso. L’ho letto sul giornale. Forse c’è ancora la roba dentro.»
«Dunque tutto il ciarpame sciccoso è ancora al suo interno» fa Ario, grattandosi il mento «Mobilio di pregio, argenti, cose gay rivendibilissime. Nebo?»
«Che sia distante da qui sarebbe anche un vantaggio» ammetto «Quanto?»

Quaranta minuti di macchina. Decidiamo di fare un sopralluogo, tiriamo fuori tutti i nostri risparmi e totalizziamo 9.850 lire per la Fiat 127. Ario stringe i soldi nel pugno: «Dio! L’eccitazione dell’avventura manigolda preme, la sentite anche voi o no? Vamos, vamos!» ringhia a denti stretti «Palle vuote o galera! Sarà come una di quelle storie di grappa e spada, dov-
«Cappa e spada.»
«…dove gli eroi assaltano il castello per rubare e trombare la principessa. Nulla potrà fermarci.»

Invece sì. Ma sono passati oltre 15 anni, i reati sono in prescrizione.
Andiamo a incominciare.
[continua]