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Le malattie del cinema italiano









1. La scenetta buffa 

Quando in un film italiano c’è una scena che deve trasmettere confusione, smarrimento, agitazione o uno stato d’animo che non sia incazzato o disperato, ha un protocollo: prendere gli attori e farli correre di qua e di là con fare isterico, facendogli fare faccette buffe mentre ravanano i primi oggetti che trovano. 

E’ un passaggio obbligato nel nostro cinema dagli anni ’80 in poi. 
Che siano Castellitto o i Vanzina non ha importanza. 

Se in scena accade qualcosa di scioccante bisogna iniziare questa trafila, quindi: musichetta allegra un po’ zingara (ci torneremo), personaggi che corrono su e giù per il set armeggiando con una coperta – che, ha ha, non riescono a sistemare! – e occhi sbarrati. E’ una procedura standard che deve piacere un casino, tanto che di solito dura dai tre ai cinque minuti ed è onnipresente in qualsiasi produzione. 







2. Il realismo sonoro 

Il cinema è magia. E’ un insieme di suoni, musiche, parole, immagini e volti che se ben orchestrate riescono a farti dimenticare di essere su una poltrona. Non stai guardando il film, sei DENTRO il film. Molte scene nella storia del cinema sono epiche proprio grazie a questo. Sergio Leone perdeva ore a selezionare i suoni degli spari, che voleva fossero “verdi”. Morricone trasformava una fotografia monotona in un mondo malinconico, spietato e selvaggio. Parte del successo di un film è dato proprio dall’audio, e non solo dalla colonna sonora. Il sibilo di Alien. Il telefono di “C’era una volta in America”. Il sinistrissimo verso di Predator. I passi di Charles Bronson. Le spade laser ed il respiro di Darth Vader. L’urlo del tirannosauro di Jurassic park. Suoni che hanno fatto l’immaginario collettivo, perché in un mondo dove una battuta decreta il tuo personaggio un suono ti dà un’atmosfera. 

Dal lontano 1990 gli studi di post produzione utilizzano lo stesso suono per decretare l’inizio di un temporale. Questo. E’ una libreria prodotta dalla Sound Ideas nel lontano 1993. Sono vent’anni che piove nella stessa maniera, sia Vietnam, USA o toscana. Il traffico. Se la scena comprende esterni, è matematico un camion o un’automobile quando passano suonino lo stesso clacson che fa PE-PEEEEEeeeeooow. Ogni volta. Un sorpasso rischioso, una litigata a bordo strada, un cambio di scena rapido. Pe-peeeeooooow. Il corvo di merda.Sei in un posto desolato, un cimitero, una palude, devi creare un’atmosfera cupa? No problem. Usa il corvo, lo stesso identico volatile ormai impagliato dal 1994, anno in cui uscì la libreria (sempre Sound Ideas). Da qualche parte a Hollywood c’è una statua in oro a questa bestia che con il suo coraggioso rumore ha donato disagio ed inquietudine a miliardi di spettatori nel mondo. 

In Italia i suoni sono arrivati tardi. Prima erano tutti in presa diretta, ossia una merda aberrante con tazzine che riverberavano come rullanti, passi che rimbombavano come colpi di cannone e incristavano le voci. Se vi fa piacere saperlo, ancora nel lontano 2002 contattai l’allora unico studio di foley artist serio, l’Anzellotti, mandando curriculum e chiedendo se potevano darmi una possibilità. Dissero che non avevano bisogno di assumere nessuno, così tornai a fare il manovale e a guardare film con un audio decente. 






3. L’h. 

Finalmente un umore congeniale al nostro popolo: la straziata disperazione isterica. Consiste nel lanciare urla belluine tra fiumi di lacrime, insulti in romano, oggetti lanciati o branditi, minacce di omicidio e suicidio. Guardare Giovanna Mezzogiorno nella cucina de “l’ultimo bacio” o le scimmie eccitate che si lanciano la merda allo zoo è pressoché identico. L’urlo però è un’arte. Goku opta per UOOH, mentre i nostri attori hanno come parola d’ordine GNAA. Se prestate attenzione noterete che tutte le grida disperate vengono lanciate con questo principio fondamentale subito seguito dal nostro marchio di fabbrica: gli attacchi d’asma. Nessuno sa perché. E’ una cosa talmente forzata, innaturale, imbarazzante e ridicola che non si capisce come mai sia reiterata in ogni film. Però c’è. In ogni scena dove succede qualcosa che ha a che fare con i sentimenti i nostri attori cominciano ad ansimare come mantici. Lunghi, enfatici respiri che imputtanano ogni parola in un alternarsi di sibili confabulatori e urla da cavallo azzoppato. 







4. GUARDATE QUANTO CAZZO SONO GENIALE IN QUESTA SIMBOLOGICA METAFORA E QUESTA ARGUTA SOLUZIONE VISIVA OH DIO VENGO 


Quello che ha disintegrato il cinema italiano sono le pretese. Pretese di dare un messaggio, di fare politica, di fare il grande capolavoro. Il cinema italiano è morto quando invece di raccontare una storia ha iniziato ad usare la storia come pretesto per la regia. Quando ha avanzato pretese di far pedagogia per adulti con messaggi edificanti, morali e altra merda politicamente corretta. In una parola: S F I G A . Gronda da tutti i pori come l’odore di aglio e curry dagli indiani. Infesta i cinema d’essai, i cineforum, i film filopalestinesi che dopo dieci minuti speri li bombardino col napalm, le strazianti rotture di coglioni su Hassan Al Farahqui povero cammelliere sperduto nel deserto. I fili di stoffa appesi al filo spinato che rappresentano la loro gioventù sfregiata dagli spietati ingranaggi di un sistema che è tutto molto bello, ma io mi cago il cazzo.

E ora, Alexis Amore.


Capitolo 2 – Scelte importanti

Il Terraglio. La nostra 8 mile. Una superstrada lunga 17 chilometri che unisce Treviso a Mestre, l’arteria polmonare dell’entroterra veneto. Su questa strada c’è tutto. Campi, ristoranti, paeselli, discoteche, paninari ambulanti, ospedali e carghi di mignotte. Sono cresciuto in una delle sue laterali, un quartiere in mezzo al nulla a 20 minuti di autobus da Mestre. Niente criminalità, solo tanti cantieri abbandonati. Cinema, centri commerciali, palazzoni iniziati e mai finiti. Nel 1990 pareva uno scenario post atomico.
C’era solo una discoteca, l’Area city, che raccoglieva scoppiati da tutta Italia. Di notte quando eri a letto sentivi in lontananza l’eco dei bassi, a volte grida. La domenica pomeriggio andavamo a curiosare nella zona lì attorno e trovavamo pacchetti di sigarette, stagnole e siringhe. Eravamo affascinati da quella cattedrale di cemento e vetro, visto che tutti sapevamo a memoria “Nella notte” degli 883.

«Ale, ancora un po’ e torniamo indietro nel tempo» dico.
Il contachilometri tocca i 120.

«Tranquillo, so guidare la bambina. Oh, te c’hai la patente?»
«Chiaro»
«Da quanto?»
«Er… Gennaio»

«Hahaha, neopatentato demmerda, come mai così tardi?»
«M’han segato ripetutamente»
«Teoria o pratica?»
«Una per sorte. Tipico mio»
«Gna ha haha ha ha, manco lì studiavi!?»
«Scherzi? Sono un rapper, non faccio queste cosIIIIIH» grido.

Il sorpasso a filo mi fa sbiancare. L’altra macchina lampeggia spaventata, lui ride. E’ su una giostra, felice, spensierato. Guida una macchina da un gozziliardo di lire come fosse uno slittino, col rombo del motore che strapperebbe le mutande a una suora, figurarsi alla mia ex. E per Cortina ci sono un sacco di rettilinei.

«Ale, se non vuoi che mi butti fuori in corsa rallenta»
«Lamadonna, mai fatto un sorpasso?»
«Ascolta, Airton, se vuoi diventare un quadro astratto di lamiere e interiora coi pompieri a farti da critico d’arte fallo da solo, io devo sfondare nel mondo della musica e morire intossicato di bamba e whisky tra due ragazzine ninfomani»
«Va bene, va bene, non chiamare la tua crew, yò?»

Arriviamo a Treviso, fuori dall’Avana. Parcheggia, chiude, si dirige a grandi falcate verso l’ingresso saltando la coda, un enorme stronzone di fica strepitosa e contadini ripuliti che ci guardano tra l’incuriosito e l’astioso. Vedo il buttafuori prepararsi all’impatto e già vedo la figura di merda. Ho il portafogli legato ai pantaloni oversize con una catena da biciclette. Sono la X nel gioco “trova l’intruso”. Ci fermerà a ceffoni, il gestore uscirà sparando, riattraverseremo la fila sanguinanti tra le risate. La gente ci sputerà addosso. Saremo sui i quotidiani di tutto il mondo.

«Sì?» barrisce mr. Wistrol all’ingresso.
«Sono Alessio Seguso»
«Ah! Sì, sì, prego. E lui?» mi indica.
«Non lo conosco» dice Ale, e se ne va dentro.
Valuto il seppuku.

Per un attimo io e il buttafuori ci guardiamo, quelli in fila mi fissano, i riflettori mi puntano e sulla mia maglietta cominciano a muoversi dei puntini rossi. Il pleistocenico incrocia le braccia, l’altro lo raggiunge. Io alzo l’indice e apro la bocca per dire le mie ultime parole da uomo con una dignità quando da dentro spunta la testa di Alessio.
«Bè? Che fai lì, ti muovi? Eddai ragazzi, sto scherzando, un pelo d’ironia, eh?» schiocca le dita con occhi sbarrati.

I colossi si disinteressano istantaneamente a me. Sgattaiolo dentro inseguendo Ale, uno che quando l’ho conosciuto era un asociale figlio di papà con la costante espressione di chi sta leggendo “lessico famigliare” della Ginzburg. Vedi cosa fanno gli anni.

«Mi sono cagato addosso» ansimo.
«Hahaha, fan brutto, eh?»
«Tra bicipite e torace non credo riescano a prendersi l’uccello per pisciare»
Fa un gesto frivolo con la mano: «Buoi d’allevamento consenzienti, lascia là. Facciamo una cosa: tu vai al banco e ordini un mojito per me e per te quello che vuoi, io torno subito»
«Non ci hanno dato la drink card, qui si paga direttamente in organi?»
«La barista si chiama Yelena, digli che sono per me»
«Fiuto il dramma»
«No, perché?»
«Eh, perché co’ ‘sta smania di fare il simpa che c’hai salterà fuori che Yelena è la madre del barista e in men che non si dica sarò l’ingrediente segreto della Simmenthal»

«Nebo, VAI» sogghigna.
Vado.

 

Il ripetitivo pulsare nella penombra, l’enorme mole di fiche stellari. Non è facile raggiungere il bancone, dove mi accoglie una bionda dallo sguardo di ghiaccio. Yelena non crea problemi, versa due mojito e torna dagli altri clienti. Butto le solite cannucce per terra e sto al banco a guardarmi attorno. Dopo dieci minuti che comincio a preoccuparmi Ale spunta dalla folla, piglia il mojito, saluta Yelena e mi fa segno di seguirlo. Arriviamo a un tavolino sul lato rialzato, ci aspettano due tizi qualsiasi sulla trentina accompagnati da due sventole sudamericane che polverizzano qualunque modella di Intimissimi da qui all’eternità. Sul tavolo c’è una cartellina, una penna, bicchieri da cocktail, due calici.

«Questo è Nebo, un mio carissimo amico» dice Ale, indicandomi.
«Ehilà» faccio.
Le tizie neanche si voltano. Una butta un’occhiata distratta.

«Nebo, loro sono Tony M, sai il DJ dell’Area, quella storica? E’ lui. Lui invece è Claudio C, il gestore di questo tempio del peccato»
«E’ un gran bel tempio» dico tentando d’ignorare le scollature.
«Grazie. Vuoi?» domanda mostrandomi la carta di credito.

Ora io non so voi, ma se mi offrono una carta di credito dico di sì a prescindere. E’ simpatico. Non hai idea di cosa cazzo significhi ma dire “no” sarebbe suonato male. Non sbagliato, solo male. Se invece dici “sì” hai un sacco di assist per cavartela con una battuta. Il problema diventa quando dal nulla salta fuori una bustina bianca, le tizie si voltano improvvisamente interessate, la carta di credito viene usata come Mosè sul Nilo e tu, tu hai appena detto “sì”. L’altro arrotola una banconota da 20 euro, in culo agli stereotipi cinematografici.

«Eeeh… Ale?» sussurro.
Si sporge senza guardarmi.

«Io non ho mai, diciamo, avuto l’occasione di… di.»
«Di…? Farlo prima? Mai fatto un pippotto?»
«Ecco»
«E allora perché hai detto sì?»
«Perché credevo di fare chissà che battutoni, non avevo colto…»
«Vabbè, prova. Guarda, è facile»

Gli porgono i 20 euro. Ale mi lancia uno sguardo, si china e con un gesto rapido esegue. Si tira su, gli occhi lucidi, si sistema il naso, inspira ed espira.

«Llllà. Sì. Polvere parlante splendidissima. Tè, segugio, attacca»

Le tizie danno segni di impazienza, se non altro mi guardano. Ho dai due ai tre secondi per fare una scelta importante. Mi chino pensando che chi se ne frega. Quando rialzo la testa il mondo è al suo posto, non c’è nessuna differenza e non provo niente di strano. Sto bene. Sono tranquillo. Prude un po’ il naso. Mentre un reattore nucleare all’interno del mio corpo stacca lentamente il circuito di raffreddamento, Claudio C. chiede ad Ale se fuma.

E tira fuori un pacchetto di Marlboro.

Casalinghe frustrate coi pizzi tentano la strada della satira con prevedibili risultati

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«Sei qui perché intuisci qualcosa che non riesci a spiegarti, senti solo che c’è. E’ tutta la vita che hai la sensazione ci sia qualcosa che non quadra, nel mondo. Non sai bene di che si tratta, ma l’avverti. E’ un chiodo fisso nel cervello, da diventarci matto. E’ questa sensazione che ti ha portato da me.

Tu sai di cosa sto parlando, vero?

Lo hai sentito la prima volta vedendo una tizia vestita da handicappata che si dimenava dentro un bicchiere di Martini facendo smorfie simili a spasmi da astinenza. Quando la tua ragazza si esaltava per la sovversiva ironia e il provocante erotismo. Quando hai pianto sangue davanti a legioni di donne in piena crisi di mezza età che all’improvviso hanno iniziato a vestirsi come la loro nonna prostituta di guerra, si sono messe un boa di piume, le mutande all’ombelico, il reggicalze che evidenziava smagliature alla Jeeg robot d’acciaio ed hanno iniziato a contorcersi in salotto sulle note di Why don’t you do right.

Lo percepisci quando al lapdance hai pagato 25 euro e solo dopo l’ingresso hai letto il manifesto della serata. L’unica notte dove al posto delle troie c’erano tizie sovrappeso che agitavano stracci e sorridevano tanto facendo occhiolini simpatici. Tu volevi culo-contro-culo di Requiem for a dream con due ventunenni slave. Hai pagato come chiede la canzone di Peggy Lee, ma invece di Jessica Rabbit c’era una casalinga vestita come se avesse sterminato un pollaio. Ricordi, Neo?

 

tumblr_ntk9fbOBOo1rl195mo2_500Anch’io.

 

Siamo stati zitti. Abbiamo subito in silenzio, osservando senza capire come fosse possibile una cosa tanto diffusa e apprezzata non avesse impatto sulla nostra sessualità. Corsi. Accademie. Spettacoli. Costumi. Programmi. Filmati su youtube. E’ entrato nella nostra vita piano piano. All’inizio era solo una roba che faceva la ragazza di Marylin Manson, neanche un anno dopo Jessica la salumiera stava a teatro e si faceva chiamare artista. ARTISTA. La colpa è nostra, che l’abbiamo lasciato succedere. Ma è giunta l’ora di ribellarsi, Neo. Di dire a voce alta la verità, perché proprio in questo momento una segretaria d’azienda si sta mettendo un buffo cilindretto e sta per fare dell’ammiccante erotismo sovversivo. Se non ci credi, guarda.

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Allora accettiamo la matrice di tutte le cose, gridiamola: il burlesque è una merda. Sì. E’ una disgrazia per la storia dell’umanità. E’ la cosa più triste al mondo dopo i contatti su facebook che spammano canzoni. Il burlesque non è eccitante, non è misterioso, non è sovversivo, non fa satira; il burlesque è il nome che i cessi danno alla loro sessualità frustrata secondo il geniale ragionamento che, se si vestono come prostitute alcolizzate dell’800, potranno agitare il culo e contemporaneamente essere giudicate artiste. No. Sono le suicide girls della residenza Anni Azzurri. Lo spot del pannolone per l’incontinenza sarà uno show di questi rottami che poi su Google cercano “sbiancatura anale prezzo”. Qualcuno deve fermare tutto questo o ci scapperà la tragedia. Non è possibile che da una parte i porno spieghino alle donne come bisogna vestirsi e dall’altra queste ottuse poiane decidano di travestirsi da epoca pre femminista dove i mariti le svegliavano a pugni in bocca e c’era il rischio della guerra nucleare. Il burlesque è una merda.»

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«Ma… Megan Fox su Jonah Hex lo fa tirare anche ai carri armati…» osa Neo.
«Certo, vostra Stupidità, ma otterrebbe lo stesso risultato anche con una tuta da artificiere. L’ultima volta che l’ho vista stava su Transformers 2 in jeans e mi sarei scopato lei, la moto, l’aerografo e per sicurezza anche la sua tessera sanitaria. Cristo, le avrei trombato anche le foto sul comodino. Ti odio. Il burlesque è una merda.»
«Ballano per provocare, fare arguta satira, dire e non dire in modo che il pubblico possa…»
«Loro devono portare i figli al mare, non vestirsi come rincoglionite e strusciare i buchi contro una smutandata gelataia laureata in antropologia che indossa una maschera di Berlusconi. Se parlano di politica Emilio Fede vincerà il premio Nobel.»
«Dici così perché non hai mai visto un burlesque dal vivo che coinvolge, stuzzica, ammalia…»
«Ho visto il moulin rouge a Parigi e hanno dovuto chiamare una betoniera per contenere quanto m’ha fatto cagare. Ora basta, Trinity, riportiamolo indietro.»

Capitolo 1 – Grandi cose

 

Nell’agosto del 2001 sono all’università a Trieste. La morosa a Venezia mi ha mollato per un campione di tennis ricco di famiglia con carte da 200 euro nella borsa degli spiccioli. Mi manda un sms con su scritto “mi aspetto grandi cose, da te, Nebo”. L’ultima immagine che ho sono loro due che mi passano davanti su un TT decappottabile mentre vado al mio primo giorno di lavoro come banconiere in piazza a Mestre.

Le auguro di uscire presto dalla rianimazione.

Ho una mezza tresca con la mia collega, Miriam, una truzza dai capelli rossi e gli occhi verdi come la nostra laguna. E’ soffice e forte. La sera quando la padrona non c’è e l’altra fa i toast pomiciamo nel retro con la scusa della sigaretta. Siamo nascosti nel buio del magazzino, con le mie mani che le alzano la gonna e lei che le ferma ogni giorno più su. Stando ai miei calcoli per metà settembre riusciremo a collaudare le cassette dei Pago. Fuori l’estate passa tra turisti ubriachi, portaceneri da svuotare, piccioni voraci e litigate sugli straordinari. Mi ricordo l’odore dell’ammoniaca e i fermi per le tovagliette. Ogni notte, quando lego i tavolini che tra qualche ora dovrò slegare, annuso l’aria che sa di malinconia e di opportunità. Guardo la mia vita cambiare tra un bacio rubato e una birra annacquata ai tavoli. Quando torno a casa mangio scatolette di tonno e mi metto a lavorare sulle canzoni. Fumo Lucky Strike. Dormo poco ma bene. Ogni mattina faccio 11 trazioni alla porta del bagno e 5 serie da 40 flessioni. Mi addormento pensando a come dev’essere stare dentro Miriam.

E’ domenica sera e in giro non c’è un cane, forse per il temporale del pomeriggio che ha rinfrescato. Alle 22 la padrona getta la spugna. Abbiamo già tirato dentro i tavoli e sto passando il mocio quando alle mie spalle arriva il rompicoglioni. C’è sempre. Sospetto attenda nell’ombra finché non vede il bar chiudere, a quel punto emerge con le richieste più idiote.

«Solo un caffè, poi vado via»
«Mi dispiace, abbiamo già spento le macchine» fa Miriam alle mie spalle.
«Lo so, giusto uno al volo. Devo guidare, è tutto chiuso. Per favore»

Miriam ha quell’attimo di esitazione di chi può essere forzato. Senza quel mezzo secondo tante cose non sarebbero successe, sul braccio non avrei la cicatrice di una coltellata, il mio premolare non sarebbe una capsula e forse avrei finito l’università. Alle mie spalle arriva la richiesta d’aiuto. Mi giro.

«Nebo, faresti un caffè per il ragazzo?»
«NEBO!!» grida lui.

Mi si presenta in jeans, scarpa lucida, camicia azzurra sbottonata su catenina, giacca. Il viso è lo stesso di allora, però con poca barba e tantissimi capelli. Si chiama Alessio G, eravamo insieme alle elementari. Sfodera un sorriso entusiasta e fa tre passi avanti, calpestando il mio lavoro di mocio.

«Oddio non ci credo, sei proprio tu! Uguale!»
«Tu invece sei cambiato parecchio, Ale» dico.
«Me lo dicono tutti. E tu?! Che fine hanno fatto i capelli?!»
«Li ho incollati sulla faccia per protesta»
«Haha, sempre lingua lunga, tu!»

«Quello sicuro» commenta Miriam fuoricampo.

Sistemo i piatti, i portaceneri, chiacchieriamo dei vecchi compagni di classe. Alcuni li ha visti ancora, altri no. Dice che non si aspettava di trovarmi lì. E’ simpatico, allegro e curioso, una di quelle rare persone che preferiscono scoprire gli altri che sé stessi. Quando abbasso la saracinesca neanche noto Miriam allontanarsi infastidita. Ale è magnetico, ha i connotati stravolti dalla vita e gli occhi che mandano strani bagliori.

«Senti, ti va di berci due robe assieme?»
«Ok, tanto domani posso dormire. Anche se qui a Mestre non c’è niente d’aperto»
«E chi ha detto qui, andiamo a Treviso»
«Stavo per dirlo io»

Per strada discutiamo dell’esaltante carriera sessuale di Valentina quando tira fuori le chiavi e fa lampeggiare una TT decappottabile. Per un secondo rivolgo lo sguardo ed i pensieri alla madonna che tanto ha in comune con la mia ex compagna di scuola.

«Cos’era quella faccia, sarai mica diventato noglobal, contrario agli status symbol…»
«Eh?»
«Monta, pelato»

Stare seduti dentro una TT è fighissimo, sembra un F-117. Ho un flash della mia ex che fa un pompino su questa macchina. Scuoto la testa e mi concentro sugli interni, belli anche per un profano come me. Con il cambio poi le sarebbe difficoltoso, e dietro non possono scopare perché è strettissimo. Haha, stronza, e adesso? Nella mia 600 si andava da Dio, lui dove ti tromba, a parte la baita a Cortina? A parte quella romantica terrazza del suo appartamento a Milano?

«Hai detto Mirano?»
«Eh?»
«Dico, hai detto “Mirano”. Vuoi che andiamo a Mirano?»
«Treviso va benissimo»

Accende il motore, un rombo cupo e minaccioso.

«Visto che andiamo là dovrei vedere due persone, poi ce ne andiamo a bere e a guardar tette. Te gusta?»
«Le tette sono la stella cometa per i miei tre re magi qui sotto, amico mio» rispondo.
«Allora vamos!»
«Che è ‘sto spagnoleggiamento?»
«Amicizie sudamericane, dai e dai un po’ ti rimane. Ci sei mai stato? Caraibi? Cuba?»
«Ho il wallpaper»
Ride.

Vengo schiacciato contro il sedile dalla guida di un pazzo. Lascio alle mie spalle il bar, la Miriam, l’università, la musica, gli amici. L’umore è alto, il serbatoio è pieno, la notte è giovane ed ho 21 anni. Il terraglio ci accoglie come un maitre premuroso.

A trenta chilometri da noi, in un autogrill, un uomo nervoso paga un pacchetto di Marlboro. La cassiera ringrazia e gli augura una buona serata. Il tizio ha la faccia sudata, l’occhio sbarrato e se ne va urtando gli altri: «Sarà bene che sia una buona serata, signora, o qualcuno è la volta che si fa male»

Prologo

 

«APRI ‘STA PORTA O LA BUTTIAMO GIU’!»
«No, tu PROVA! ORA IO CHIAMA, ukatami? Musashiknpà?»
Grida rimbombano all’esterno.

«MI SENTI?» faccio, battendo sulla porta di metallo.

La Cina, fuori, mi ignora. Strilla. Quando un cinese grida poi di solito si getta da una rupe per trasformarsi nella testa di un robot alto ottanta metri che spara raggi fotonici dalle mutande. Sono problemi. E non vi ho parlato di quello che succede alle cinesi donne.

«Chiamiamo il 112»
«E’ inutile. Non prenderà»
Ha ragione.

Le ragazze consultano il loro mondo portatile col medesimo risultato.

«Com’è possibile, siamo in centro Bologna…»
«Cemento armato. Una fredda, profonda, tomba per automobili. E’ buffo, visto che le automobili stesse sono la tomba per così tanti di noi»
Madonna santa.

La bionda è in un angolo che singhiozza e smanetta col cellulare. Grida ogni volta che batto contro l’uscita di emergenza. L’altra è paralizzata dalla paura. Un neon moribondo è l’unica luce che abbiamo. Siamo tutti e quattro mezzi nudi.

«Sfondiamola»
«Una porta blindata a calci? Non essere ridicolo, Nebo»
«Che palle, Ale, di là?»
«E’ un magazzino, detersivi e scope»
«C’è qualcosa di utile, dentro?»
Esplora svogliato: «Niente»
«Cerca roba che esploda»
«Un CD piratato di Avril Lavigne…»
«No»
«Ammoniaca?»
«Meglio, con cosa esplode l’ammoniaca?» chiedo.
«Non lo so. Eri tu quello bravo, in chimica»

Poche frasi comunicano il disastro come questa.

«AIUTOOOOOOO!» urla la bionda.
«E’ inutile» sentenzia gelido Alessio «moriremo qui, stanotte. Ma è giusto. Ha senso. A me va bene. C’ho pensato tante volte»
«C’hai pensato tante volte?»
«Continuamente, Nebo»

E’ febbraio del 2001. Sono nel parcheggio sotterraneo di Bologna sequestrato da Feng Dong il 356°, indosso una buffa camicia hawaiana, puzzo di Sangiovese, sono disgraziatamente lucido in compagnia di due studentesse perverse e lui. Soprattutto, soprattutto lui. Ma andiamo con ordine.

IL COMPAGNO
DI CLASSE
(una storia a puntate)