Hai l’anziana madre in casa, sei senza scaldabagno: risolvere il problema o drogarti fino a dimenticarlo?
Un vero uomo non dubita, e Ario nemmeno. Sarà un pomeriggio tra polvere di fata, trans clandestine e rum da dolci. Un infame caldaista tenta di derubarlo, improvvisa un sequestro di persona ma il piano fallisce grazie all’arrivo di Pamela, giovane e saccente poliziotta che Ario ha già picchiato nei giorni precedenti.
L’anziana madre offre succhi di frutta all’AIDS e si lancia in un interrogatorio imbarazzante per lei e per noi, ma non c’è tempo da perdere: a Cala Cadone è emergenza scippi. La polizia brancola nel nullafacentismo, le vecchie perdono le borsette: solo un drogato erotomane come Ario può aiutare Pamela a risolvere il caso.
Attorno a loro, strani personaggi senza account social come Marco, un giornalista boomer rimasto schiacciato da giuochi di potere più grandi di lui. Farà la sua mossa, così come la procace Svetlana estrarrà ben altro che conigli dal cilindro.
Fiumi di botte, sessismo gratuito, omofobia a sprazzi, ignoranza e blasfemia rendono il secondo capitolo della saga “ARIO: MEZZO POLIZIOTTO, QUASI CRIMINALE” uno spaccato dell’Italia fuori da Internet.
Un poliziottesco scritto da un idiota? Forse. Ma con tanta passione.
Quello che sta per uscire non è un romanzo; è più un racconto lungo. Costerà come un mojito costava nel 2000, perché mi piaceva l’idea che qualcuno mi offrisse un drink per una storia. Ha un formato particolare: niente descrizioni, niente punti di vista estranei, poca trama e tanto personaggio. È un inizio, però. Perché da gennaio, Ario diventa un mensile.
Ripeto: per tutto il 2023, ogni fine del mese, ci sarà un episodio autoconclusivo.
È un po’ come un albo a fumetti, e difatti ha un po’ più delle pagine di Tex. La prima stagione inizia questo Natale e finirà a Natale 2023. Che ci sia o meno una seconda dipende da molte cose.
Alcuni si chiederanno perché, dopo aver pubblicato con Salani, scelgo di pubblicare su Amazon. I motivi sono due: il primo è che ho già due romanzi in attesa (tra cui Cosma Manera) e progetti in corso. Il secondo è che nessuna casa editrice anche solo vagamente orientata al business pubblicherebbe Ario.
Perché Ario è un personaggio di un altro secolo.
È un fallito che non accetta il proprio destino, uno sconfitto dagli altri e da se stesso, cacciato a furia di querele e shitstorm da ogni piazza fisica e digitale. È un uomo disgustoso che fa e dice cose disgustose, che riesce a essere un boomer a 40 anni e ancora fuma, beve, va nei bar e usufruisce della prostituzione analogica in un mondo che s’è ripulito. È l’ultimo dinosauro di una razza estinta oltre vent’anni fa.
Ma è anche l’unico vero anti establishment in un mondo Marvel, Apple e Disney+.
Per me il personaggio di Ario è l’ultimo barlume di umanità in un intrattenimento ormai pulito, piallato, asettico, sterile, che non dice più niente però in maniera molto inclusiva e innocua. Film, fumetti, romanzi, serie TV oggi fanno propaganda, e dato che ci campo, non ne posso più. Proprio come nel 2006, quando facevo il rapper e dovevo sfogarmi perché tutti si prendevano sul serio, Ario sarà la stessa cosa.
Per un anno potrete leggere oscenità di un saldatore di porto Marghera ambientati in una città immaginaria per non incorrere in querele. Accadranno furti, scippi, delitti, bugie, chiavate, overdosi, si faranno battute miserabili – cringe, si dice oggi – perché la vita e le persone sono complesse, stratificate, contraddittorie. Ci saranno volte in cui si faranno solo chiacchiere in un bar. Altre in cui si parlerà molto poco e si farà tanto.
Non troverete l’odore e il sapore di plastica che c’è in giro oggi. Cosa che non so quanto sia buona, ma tant’è.
Dopo Il colore della tempesta per Salani, dopo essere rientrato in possesso dei diritti del primo La Storia la fanno gli idioti, era tempo di mettere nero su bianco tutte le aberrazioni scritte qui. Per quelli di voi che hanno molto pelo sullo stomaco, ebbene sì: il sequel è uscito. All’interno troverete molte storie che conoscete e una che non solo non conoscete: non è nemmeno il caso scriverla in Internet.
Sopra il frinire dei grilli si sente il latrato allarmato dei babbuini, il ronzare delle zanzare, il richiamo cupo e ripetuto di un leopardo e il lento, annoiato verso dei barbagianni.
Attraverso una grande serratura di ottone, alla luce di una candela, c’è un paravento di legno massiccio e vimini intrecciati, una toletta con spazzole d’argento e boccette di vetro. La mano dalla pelle marrone, con le unghie rosse e due anelli d’argento, stringe il cotone di una camicia verde militare con le tasche sui pettorali. Una mano bianca con un orologio d’acciaio la ferma e la abbassa, poi risale e si insinua in un mare di capelli neri. Le unghie rosse scendono verso il cinturone di cuoio che regge due pantaloni bianchi sporchi di terra.
In qualche stanza lì attorno, qualcuno prova a suonare un pianoforte.
Le unghie rosse trovano la fibbia e la fanno tintinnare. La voce di un uomo sussurra in una lingua strana. La voce della donna risponde divertita in un’altra. Le dita affusolate s’appoggiano sui fianchi dei pantaloni bianchi, si contraggono e stringono il cotone sporco di polvere e fango. La mano con l’orologio d’acciaio è ancora tra i capelli mori che sotto di lei si muovono piano, avanti e indietro, mentre si sentono schiocchi liquidi e una voce roca geme.
Il pianoforte manda note lunghe e malinconiche.
La mano con l’orologio accarezza i capelli, si solleva fino allo schiocco di un bacio. C’è una tunica azzurra che risale, si volta mostrando una collana di legno intagliato. Il suono della cerniera è minuscolo e risuona appena nel frusciare dei vestiti, poi la tunica scivola giù e mostra un seno minuscolo, capezzoli neri e una cicatrice poco sopra l’ombelico.
La mano con le unghie rosse la copre. La mano con l’orologio la scosta e la gira.
Ci sono glutei neri, lisci e lucidi di sudore, una mano bianca li stringe e la luce giallastra della candela li fa risplendere. La camicia verde sparisce, mostra peli bianchi e neri e un ciondolo con una zanna di leone. L’avambraccio di peli schiariti dal sole si stringe attorno alla pelle nera, mentre le unghie rosse massaggiano avanti e indietro, muovendo il polso con pazienza ed esperienza, finché la fibbia dei pantaloni tintinna contro il pavimento.
Distante e ovattata dai muri, la voce di una donna chiama e ripete un nome che rimbomba in androni e corridoi.
C’è un cigolare di molle e legno. Un refolo di vento fa tremolare la candela. Su vecchie lenzuola bianche di fiandra sgualcite c’è un piede nero con la pianta bianca, alla caviglia c’è un filo di conchiglie, le cosce nere sopra gambe bianche, pelose e nervose.
La mano con l’orologio stringe i fianchi neri che si muovono avanti e indietro. Una voce femminile geme e trema, tra schiocchi di baci che diventano un ansimare sovrapposto. Quando la voce maschile sale, la voce femminile sibila per richiamare al silenzio. Braccia bianche e robuste cingono la schiena e sussurrano qualcosa.
Da qualche parte, sandali di cuoio risuonano sul marmo di un pavimento e rimbombano in un androne.
Le braccia bianche girano il corpo nero, affondando tra le lenzuola nella penombra. Sollevano i fianchi neri come fossero un giocattolo. C’è un grido strozzato femminile, poi gemiti soffocati dalla stoffa. Una schiena bianca sgraziata e asciutta s’inarca all’indietro e poi in avanti, abbracciando l’ombra che gli va incontro in uno schioccare di carne secco e veloce.
Il suono dei sandali sia avvicinano assieme a un tintinnare metallico.
C’è lo scatto della serratura e una voce roca femminile lancia un urlo di rabbia. Le gambe nere si annichiliscono, il torso bianco e sudato scatta di lato. Le unghie rosse si stringono attorno alle lenzuola, il braccio bianco con l’orologio si protende a mano aperta. Lo sparo rimbomba tanto da far fischiare le orecchie. Il braccio bianco cade e qualcosa di rosso chiazza il paravento. C’è il suono dei piedi nudi, il corpo minuto e perfetto di una ragazzina nera che corre su un pavimento di marmo grigio.
Dalla stanza provengono urla roche di una donna che inveisce in una lingua strana. Attorno a lei porte, passi e serrature crescono attorno come un temporale.
Un’altra donna grida. Da qualche parte un neonato piange.
Quando uscirono dal portellone di tribordo vennero investiti da una folata di pioggia. Il cielo era nero, percorso da nuvole e lampi. Decine di marinai si accalcavano sulla paratia. Vide dei ragazzi in uniforme mimetica con dei fucili a tracolla che scendevano giù. Mario gli infilò un giubbotto di salvataggio arancione, stringendoglielo bene attorno ai fianchi, poi gli calcò un elmo bianco sulla testa. Appena Domenico vide i fucili fece dietrofront. Mario gli afferrò il braccio.
«Donde galoppi?» «Siete pazzi?» urlò Domenico per sovrastare il temporale «Cosa volete fare con questo tempo? Perché quelli sono armati?» «Ci sono i pirati della Malesia, amigo!» esclamò Mario con gli occhi spiritati sotto la pioggia. Un tuono fece vibrare l’intero scafo.
«Ma voi siete fuori di testa!» gridò Domenico, divincolandosi e correndo dentro. Mario lo inseguì, gli afferrò il braccio e lo lanciò contro la parete. «Vamonos! Dirai alla Tigre di Mompracem che sei un cittadino del mondo e andrete a puttane insieme!» «Chi l’ha detto che io devo andare lì!? Sono un civile!» Il ceffone lo tramortì, paralizzandolo per lo schiocco e la vergogna. «Ooh, era da quando t’ho visto che volevo farlo» disse Mario «Senti, ricordi a Singapore, quando avevi paura di scopare?» «Cos… cosa c’entra?!»
«Avevi paura delle piattole, delle malattie, che ci volessero ammazzare? No! Eppure era statisticamente probabile. Anzi, ho un vago prurito che promette sorprese. Tu…» Domenico tentò ancora di divincolarsi, ma Mario lo tenne fermo: «… Tu avevi solo paura venisse palesata la tua verginità. È vero o no?» «Quelle sono armi! Le odio, va bene? Mi fanno paura!»
«Domenico, ascolta questo balordo marinaio drogato: se sconigli diventerai uno dei tanti intellettuali che scrivono sui giornali perché non hanno mai vissuto niente. Se esci potrai sempre guardarti allo specchio e dire sì, sono mezzo giallo, ma almeno non scrivo su “Repubblica”. E questo nessuno te lo potrà mai togliere: vuoi salvare i peones o vuoi scrivere su “Repubblica”?»
Domenico digrignò i denti. Non voleva scrivere su “Repubblica”. Solo che non riusciva a prendersi la responsabilità di pronunciare una risposta.
Fuori, il mare si stava gonfiando. Il Veneto rollava su onde grandi e minacciose. Folate di pioggia entravano dal boccaporto lasciato aperto, infradiciandogli le scarpe, con l’aria che odorava di salsedine e paura. Si frugò in tasca e tirò fuori un foglio bianco stropicciato e fradicio, reduce di una delle tante bozze per le lettere dei marinai. Prese una matita e scribacchiò in fretta una lettera farneticante, poi la diede in mano a un marinaio.
«Se muoio, per favore, dallo a qualcuno.» «Pure a mi’ madre va bene?» chiese quello. Mario lo spinse fuori.
Scese la scaletta di corda finché i piedi toccarono il fondo dello Zodiac. Il medico abbronzato lo fece sedere al centro, mentre su entrambi i lati quelli del San Marco si erano sistemati con i fucili puntati verso l’alto. Mario gli piombò quasi in braccio e andò al timone, poi appoggiò il piede sullo scafo e allontanò il gommone dalle rassicuranti fiancate grigie del Veneto, dando gas.
«Rega’, me raccomanno!» gridò il medico «Mantenete le distanze e non salite a bordo finché non abbiamo capito cosa succede. Teneteve i guanti! Se per caso entrate in contatto con uno di loro poi nun ve toccate la faccia, la bocca o gli occhi!» gridò per coprire il frastuono del motore e della pioggia.
Sanna, il comandante del San Marco, alzò la mano. Era un uomo basso e tarchiato, con la mascella squadrata e gli occhi gentili: «Aiò, nessuno spara se non ci sparano loro. Quando ci avviciniamo, tu ti distendi» disse a Domenico. Lui annuì a occhi sgranati, poi il gommone sobbalzò e si trovò sospeso per aria, crollando sul pavimento e battendo il casco contro il ginocchio di un fuciliere che imprecò. L’altro gommone procedeva parallelo.
«Dio mio» mormorò Domenico, osservando il mare in tempesta «Dio mio, aiutami.» «Pensa a “Repubblica”, Ching Chong!» gridò Mario.
A bordo della Stayin’ alive, Thanh guardò i motoscafi dei pirati arrivare come fossero un plotone d’esecuzione. Riconobbe il capitano con il turbante blu, che sogghignò e le mandò un bacio con un gesto plateale. Accostarono con una manovra rapida e collaudata e nessuno osò opporre resistenza. I pirati saltarono a bordo e mentre un paio scesero in coperta, gli altri gli puntarono i fucili in faccia. Il capitano si fece largo, afferrò Thanh per il collo e le sussurrò qualcosa, trascinandola verso il portellone. Lei si aggrappò ai bordi con tutta la forza che aveva, determinata a rendergli la vita difficile.
A mezzo miglio, Domenico si teneva alla cima per evitare d’essere sbalzato fuori dallo Zodiac che rimbalzava sulle onde, per poi farli ripiombare sulla superficie con un colpo secco. Sanna si sistemò a prua, lanciò un grido all’altro gommone e fece il gesto della vittoria. I gommoni si separarono; Mario virò a sinistra, gli altri a destra. Un marò afferrò Domenico per il giubbotto di salvataggio e lo distese contro il pavimento.
«Ajò, facciamoci sentire. Cantate!» ordinò Sanna, e i marò intonarono una versione prima timida e poi corale della sigla del Grande Mazinga. Sul fondo bagnato del gommone, Domenico aveva così tanta paura che si mise a piangere. Sarebbe morto lì, dall’altra parte del mondo, sotto un cielo di paura, tra gente che canta sigle dei cartoni animati.
Sulla Stayin’ alive il pirata lasciò il collo di Thanh e l’afferrò per i capelli, poi le assestò un pugno in pieno viso. Il naso già rotto le mandò una fitta di dolore e il mondo perse colore, ma continuò a stringere la maniglia del boccaporto. Lui tentò di strapparle via la mano senza riuscirci, poi sfilò il coltello dalla cintura e si fermò con l’arma a mezz’aria. Thanh capì che sarebbe morta lì, e a quel punto non le importava più. Chiuse gli occhi e nello scroscio della pioggia sentì esplodere una cacofonia di parole in una lingua che non conosceva. “Ah infami, annatevene o ve corcamo”, “cravadinci in su cunnu”, “Vaffammocc a mammeta”, “ande’ cagar sue ortiche, via!”.
Il pirata, viceversa, sembrò comprenderla molto bene.