Le origini del veneto



Mestre. Treviso. Verona. Vicenza. Bassano. Belluno. Il livello culturale di questa regione rasenta talmente tanto l’incapacità di intendere e di volere che al Gazzettino presero me per fare la cronaca bianca.

Figuratevi che cos’era la media degli altri curriculum.



Qui fioriscono partiti indipendentisti, il M5S ha grande seguito, l’abbigliamento è così omologato che pare la versione gay degli operai vietnamiti, la pettinatura più in voga è “Balotelli” per lui e “frisèe Non è la Rai” per lei. Le religioni dominanti sono videopoker e reality, gli sport più praticati pilates e prostituzione casalinga. Le sole razze tollerate sono quelle che hanno una categoria su youporn. Qui parole come “altruismo” significano sboccare nell’etilometro per salvare quelli dopo. In città girano prevalentemente SUV, quelli che non ce l’hanno si appiccicano “auto di cortesia” sulla propria per smettere di vergognarsi. Mutui trentennali ospitano esaurimenti nervosi e cani, di solito 3000 euro di pedigree che latri a ogni stronzo che passa il tuo essere zitella. Qui i risparmi vengono ben investiti: cause civili, antidepressivi e mutui per le ferie da postare su Facebook. 

Se proprio sei una che ha svoltato, avvocati divorzisti e stivali da cavallerizza.
Del resto si sa che il punto G delle venete è alla fine della parola shoppinG.



Un prodotto tipicamente veneto è il bar Ikea.

Si tratta di locali sbocciati dalla geniale pensata “apriamo un bar uguale a 989485 altri, ma alziamo i prezzi e avremo una clientela esclusiva”. Così mentre al mondo esistono posti come il Bennigan’s pub di Trieste, il Bella Vida cafè a Praga o il Trabuxu a La Valletta, in veneto i bar somigliano  all’incubo di un designer palleggiatesticoli. Dopo due anni chiudono in bancarotta tra piagnucolii e suppliche di aiuti statali, convinti che la loro chiusura “solleverà un polverone”. In realtà finiscono in sedicesima sul Gazzettino senza che freghi un cazzo a nessuno tranne a una coppia che esulta dicendo “e vai, sono falliti, ora potremo aprire un bar come il loro, ma per una clientela esclusiva”. Anni di questa strategia hanno fanno sì che oggi, in veneto, è possibile bere mojito annacquato a 12 euro seduti in una cucina Ikea.
Stranamente a nessuno piace strapparsi le palle e prendercisi a sberle, così questi posti rimangono deserti.



Allora come fanno a durare così tanto? 
Con la bamba.

I gestori la comprano dai magrebini, la tagliano con l’intonaco e la vendono nel retrobottega ai cosiddetti “avventori esclusivi”, ossia persone che pur di sopportare l’orrore della propria vita snifferebbero sperma incrostato. Dopotutto fanno un lavoro che detestano in grado di pagargli oggetti inutili atti a sedurre donne ignobili con cui far rosicare persone che odiano, però tengono duro in attesa di Equitalia.
Questo di letto di Procuste termina quando in caserma dei Carabinieri arriva il nuovo comandante, prende il fascicolo “coglioni inutili da spazzare via per fare bella figura” e seleziona le prime venti schede. BAM! Il centro città diventa un’ecatombe di AFFITTASI VENDESI CEDESI finché una coppia decide di investire l’eredità paterna e aprire un bar.

-Però per gente esclusiva, eh? – sgomita lui alla moglie, ammiccando.





L’economia veneta in breve.
Ma qual è la storia di questa gente?
Cosa li spinge a legarsi le palle alla turbina di un F-35 e con un sorriso smagliante fare pollice in su al pilota? 

Se fosse un film partirebbe dalla fine, con lei in carcere che viene massacrata di botte da una prostituta romena e lui che si sta facendo spaccare i denti per succhiare meglio l’aidsburger di capitan Cazzoauncino. La telecamera indugia sui canini sanguinolenti a terra, indietreggia verso le sbarre mentre i suoni delle percosse svaniscono. Cielo bianco, poi azzurro. Nuvole. Scende adagio su una scuola e inquadra Cecilia, appoggiata al muretto, che legge Io e te 3MSCCecilia ha tredici anni, è figlia di un’imprenditrice e di un medico. Nessuno dei due genitori voleva che alla piccina mancasse niente. Le hanno presentato i rampolli delle famiglie bene, pagato rette in scuole cattoliche, iphone, iPad, iMac, vacanze in costa Smeralda, vestiti di Prada, scarpe Louboutin, trucchi di prima scelta e paghetta settimanale superiore allo stipendio di un operaio bosniaco.

Ma Cecilia è infelice.

Odia i genitori oppressivi, i professori che la criticano, i compagni di classe  che sono tutti bravi ragazzi. Lei vuole stare in mezzo a gente vera che sa stare al mondo, fa esperienze emozionanti e si ribella alla società. Per compensare le sue mostruose insicurezze Cecilia si accompagna a scarti da suburbia. In mezzo a loro è la più bella, la più intelligente, la meglio vestita, la più colta. Le donne del gruppo la odiano, gli uomini le muoiono tutti dietro e, cosa più importante, questo infastidisce molto sua madre.

Cecilia racconta aneddoti di inimmaginabili sofferenze patite per ingraziarsi i subumani affinché la compatiscano. Scopre che essere compatita le piace un sacco, così ingrandisce le storie fino a raccontare balle clamorose. Del resto, il pubblico è troppo stupido perché possa capirlo né ha le conoscenze per verificarlo. A sedici anni, fuori da una discoteca di gente vera – ossia scimmie impizzate di cartoni – conosce Manuel. Ha sette anni più di lei, è nato da una gangbang nei cessi di una discoteca di domenica pomeriggio. Tiene la voce in gola per sembrare più duro. A quindici anni ha mollato scuola per un lavoro di merda che gli possa comprare lo scooter e ora frequenta ragazzi che condividono la sua passione per le droghe, cosa che ne stermina alcuni con coltellate, incidenti stradali, eroina e/o suicidi post test HIV. 






Quando Cecilia sente queste storie capisce che è lui l’uomo della sua vita. Giovane, ribelle, duro, trasgressivo. Passano pomeriggi romantici a base di ketamina e coca cola light. Manuel deflora la fica di Cecilia su cui la madre aveva speso 600 euro di depilazione laser nella speranza che servisse a figli di commercialisti e avvocati. Dramma. Dolore. Tragedia. Conflitti. C’è tutto quello che Cecilia sognava. All’ennesima litigata a base di “smetti di vedere quel coglione” Cecilia fugge e va a vivere con i genitori di Manuel, persone semplici ma vere.

Lui disoccupato, lei finta invalida.

Insieme vedono milioni di volte gli unici film che Manuel capisce: il Padrino, Fast&furious, Blow e Scarface. Grazie a questi comprendono cosa devono fare: fottere il sistema, vivere come fuorilegge in fuga, una coppia innamorata contro il mondo omologato. Osare. Fare qualcosa che nessuno, NESSUNO, in quella città di fighetti, avrebbe il coraggio di fare: spacciare.

Partono con fumo e ganja, poi con cartoni e pastiglie fino a planare sulle dolci innevate  colline della cocaina. Le cose vanno benissimo. Loro sono più furbi delle forze dell’ordine e, quelle volte che la beccano, basta una telefonata alla madre di lei. Sono uniti. Inseparabili. Ribelli. Bellissimi. Cecilia come copertura lavora come banconiera, lui anche. 

Le amiche di lei si sposano, figliano, trovano lavori ordinari e patetici.
Cecilia le guarda e al mal di stomaco risponde, spavalda: “io sono migliore”.

Dopo qualche mese, con l’apertura mentale che solo la cultura ti dà, con l’esperienza che si ottiene solo confrontandosi con persone diverse, nasce il loro sogno: aprire un bar. Due anni dopo, grazie all’eredità dei genitori, Cecilia e Manuel consegnano al vecchio proprietario del locale una valigia di contanti e quando lui se ne va fanno l’amore sul vecchio bancone. Tre anni dopo gli affari vanno malissimo; nessuno vuole bere il loro mojito da 12 euro con menta di strada e rum cinese. Sono pieni di debiti, litigano sempre e Manuel ha un’altra.
Una mattina Cecilia sta pulendo il bancone, piangendo lacrime silenziose e facendosi molte domande, quando davanti al bar si fermano due volanti dei Carabinieri. Li osserva tra il terrore e l’incredulità. La telecamera la inquadra, sola in mezzo a un bar deserto. Le ombre dei militari si allungano verso di lei, percorrendo la lama di luce del mattino. L’inquadratura si sposta lentamente a sinistra e mette a fuoco il titolo del Gazzettino: “Nuovo comandante dei Carabinieri di Mestre”.
Primissimo piano del volto di Cecilia. Nelle iridi si intravedono riflesse due sagome, stagliate contro la luce esterna. Le labbra di lei tremano. Con un ultimo movimento che fa scendere le lacrime, Cecilia getta un’occhiata alla foto di Al Pacino in bianco e nero sul muro, poi un Carabiniere ci si para davanti. Ora la telecamera inquadra il bar dall’esterno e sale, lenta, verso i tetti e poi al cielo. Non c’è colonna sonora, solo il suono del traffico pigro del mattino. Lentamente riemergono i suoni delle sevizie e i gemiti di dolore del carcere. I titoli scorrono lassù, nel cielo che si fa via via più azzurro.

Benvenuti in veneto.