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Il declino della civiltà occidentale in streaming nel mio iPhone



Dio mio, dove sono? Buio. Poco ossigeno. Aria umida, calda da soffocare. Un battito costante, ossessivo ed onnipresente. Mi contorco nel viscidume maleodorante di materia organica. Attorno a me carne sudata che si contrae. Tenebra accogliente coccolata dal battito cardiaco materno. Per un attimo intravedo una luce. Sono un feto nell’utero? 

No. 
Sono in discoteca.


CSO Rivolta, Alta Voz.
Musica elettronica e droghe psichedeliche incontrano i disobbedienti ed il popolo di Internet. La Leo vuole andarci a tutti i costi. Scaraventato in questo freak show, rido pensando a come le cose belle della vita capitino sempre quando non hai con te dinamite o armi da fuoco. Ho pagato 15 euro per questo safari, ma devo dire che li vale tutti. Ad una prima impressione è il Circo Togni senza giraffe, più elefanti ed un presentatore sui 100 chili vestito come Mila e Shiro che balla invasato sul palco. Schiacciati come ebrei nei carri bestiame si boccheggia un mix di aliti alcolici, fumo, ganja, sudore, piscio, vomito e merda. I dredd impregnati di forfora e sebo di un punkabbestia si intingono sbadatamente nella mia birra. C’è un ragazzo rachitico appoggiato alla parete con gli occhi bianchi, semisvenuto; una cicciona vestita da brucomela lo prende per entrambe le braccia e gli ficca la lingua in bocca. 

Sbavando.

Mentre rimango estasiato dalla musica coinvolgente osservo la fauna suburbana del momento. Qui i maschi indossano occhiali finti, pantaloni aderenti da donna, scarpe All Star, una maglietta che dovrebbe far ridere e/o citare qualche cosa di moda su myspace/facebook ed una pettinatura ispirata allo scopino del cesso. Attraverso la folla percepisco “myspace”, “emmesseenne”, “faccialibro”, “profilo”, “flickr”, “blogstar”, “youtube”. Queste persone si fotografano ogni trenta secondi. Vorrebbero bersi una birra, provarci con una donna o parlare con qualcuno ma non possono, sono troppo impegnati a fotografarsi mentre lo fanno per poter scrivere sul loro profilo myspace “ieri sera troppo bello!!!1!” e dimostrare di essere social. Non c’è nulla di più importante, oggi, che dimostrare a degli sconosciuti di essere social. Davanti a me una ragazza chiede ad un tizio se ha da fumare. Lui dice che ha smesso. Ah, che storia, risponde lei. 

All’improvviso lei alza la digitale, si mette vicina a lui e scatta una fotografia a tre quarti dall’alto. Torna dalle amiche ridendo e studiandone l’anteprima, lo guardano da lontano. Sembra vogliano dire qualcosa ma non possono perché non sanno il suo nomecognome e non possono cercarlo su faccialibro. Sono certo sappiate che oggi bisogna dire faccialibro. E’ un modo ironico per dimostrare che sapete l’inglese,face=faccia, book=libro, allora si dice faccialibro! Haha, capito? Facebook, faccia-libro!

Il ragazzo le guarda, è incerto. Se ne va.


Il piccolo Jamal, vistosi circondato, fa la cosa giusta.

Fantasie a parte è stata una bella serata.

One shot, one kill



Driiiin. Driiiiiin. Drii 

– Ammmmore, ciao!
– Uè fica, a che ora passo?
– ”Fica”?
– Leo, è una sineddoche. Una figura retorica, hai presente? Si usa una parte per descrivere il tutto. Le veloci prore per indicare le navi degli Achei… capito?

– Sì.
– Bene. A che ora passo a prenderti, fica?
– Alle nove, coglione.


































– Sei ancora lì, coglione? Pronto, coglione? Pronto?

08. Moby Dick




Solero ha già fatto la sua parte e non è propriamente un oratore nato, Ario è meglio se tace, i soli in grado di tenere banco restiamo Atza ed io: un dark depresso di 18 anni fatto come una faina ed un rapper iperallegro di 17. Schillaci e Maradona del rimorchio, praticamente.


«ALLORARAGAZZE, da dove venite?»
«Spotomo»
«Ha ha ha ha, è una pubblicità gay?»

Ecco perché non abbiamo Facebook. 
Le persone normali hanno amici da trovare, noi abbiamo gente da cui nasconderci. 



Dopo un inizio catastrofico si lasciano andare. In una ventina di minuti giochiamo a pallavolo, il pomeriggio passa abbastanza bene. Alle 19, stanchi ed affamati, una di loro ci invita nella pizzeria di suo padre che sta giusto lì di fronte. Con addosso tre stracci ed il costume ci incamminiamo. Noto con la coda dell’occhio strani sguardi tra le ragazze. Dei miei nessuno ha notato niente. Bòh. Il padre è un sardo appena sbarcato che tenta di parlare il dialetto ligure. E’ estremamente difficile resistere alle fitte che assalgono le nostre guance ogni volta che apre la bocca. In un vortice di “aiò ma sièu veneziaNni”, “trattaTe ben le ragà-Zze” porta pizze e coche per tutti. Le donne vanno in bagno in massa. Ragazzi,


«…qualcosa non torna»
«Già notato, tranquilli» fa Ario «eventualmente abbiamo i soldi per pagare»
«Eventualmente?»
«Non è quello, c’hanno un atteggiamento… bòh, non mi piace»
«Allora mi trombo anche la tua»


Ritornano, tutte allegre come allodole. Mentre ci raccontiamo cagate la sensazione aumenta e l’immagine dei marinai trasformati in maiali dalla maga Circe si fa via via più vivida. E’ qualcosa nel loro sguardo, quel modo di essere accomodanti. Sono troppo gentili con quattro avanzi da barena, sembra aspettino qualcosa o qualcuno. Le risate suonano fasulle. Sinistre, grottesche bocche che si spalancano in un verso che deride, più che ridere. Sanno qualcosa che noi non sappiamo. Lo si capisce dal modo di fare docile e tranquillo. Ti ricordano… 

«…e allora lui dice “non lo so, ma ho il culo in fiamme!»
«Ha! Ha! Ha! Carina!»
Quelli che ti domandano quanti libri leggi all’anno? 
No.

«Hihihihi»
«Ah, ragazzi, a proposito…»
Quelli che domandano se ho qualcosa contro gli ex tossicodipendenti? 
No.

«…lei è Alberta»
I seguaci di una setta religiosa quando guardano la vittima sacrificale? 
Sì. Ecco.


Bravo.

Alberta è un feto abortito dal ventre di una assassina impiccata ad un albero marcio; trovata nella pozzanghera di urina e feci ai piedi del corpo materno è stata raccolta da una lebbrosa che l’ha svezzata a latte contaminato. Buttata in un riformatorio, è stata educata da Provenzano che la sfamava dandole avanzi di McDonald, cadaveri e album dei Pooh. Venendo qui dev’essersi esposta ad una dose letale di radiazioni perché la sua faccia è un mix di brufoli deflagrati, crateri rossastri ancora fumanti, carne viva, punti neri che spuntano a mò di dredd e contusioni, prova di un’ultima disperata difesa dei suoi amanti prima stuprati e poi divorati.

«Uèh» gorgoglia tenendo a mezz’aria una patatina fritta. 




E’ chiaro che qualcuno di noi dovrà improvvisarsi Achab e conficcare l’arpione rosa dentro Moby Dick permettendo agli altri di trapanare le altre in santa pace. Nei volti dei miei compagni leggo orrore, incredulità, spavento. Sguardi allarmati che comunicano scarso entusiasmo all’idea di andare all’arrembaggio della chiatta del mar Ligure. 


«E-ehilà, Alberta, piacere»
«Dai, Alberta, siediti con noi! Ragazzi, spostatevi, facciamole spazio»
«Come faccio, apro un’autorimessa?»
«ARIODIOCRISTO»
«Cos’ha detto?»
«Niente, spostiamo la borsa con gli asciugamani…»

Con la scusa di fumare usciamo tutti fuori. Ario borbotta a toni sempre più alti, finché inevitabilmente una ragazza esordisce con: «No, adesso dimmi cos’hai detto» 
«Domandava… eeeee… DI CHE SEGNO SIETE, RAGAZZE?»
«MADDAI, sai le caratteristiche dei segni?! Io capricorno!»
«Vergine!»
«Scorpione!»
«E tu, Alberta?»
«Cancro!»
«Credevo teniaaah il piede bastardo di merda» 

«Tenia? Cos’è?»
«E’… è un segno zodiacale nell’alfabeto… no, nella costellazione… » tento di rimediare.
«Calendario, mongoloide»
«Nel calendario mongoloid.. cinese. Il calendario cinese.»
«DAI DAI DAI DICCI I NOSTRI SEGNI CINESI DAI DAI DAI»

Le sole nozioni sullo zodiaco le devo ai cavalieri su Odeon TV. Pegasus era un elettricista, Sirio era vestito da imbecille, Andromeda era un travestito, Crystal era gay, Phoenix rompeva il culo a tutti e poi c’era Lady Athena che la calava un po’ random e si beccava la sifilide da un segno extracomunitario. Solero, Atza ed Ario si mettono comodi aspirando le Marlboro light e lanciando sadici sogghigni. 

«Allora, il primo segno del calendario cinese è il… il drago, poi c’è.. la scimmia…»
«E IL DRAGO A COSA CORRISPONDE?»
«Uuh… ariete. Sì. Persona forte, l’ariete»
«Non era il leone?» domanda Atza.
«No, la scimmia, che invece è il segno della mamma di Atza…»
«La spaccafiletti, che invece è tua sorella…»

«Hahahaha, che simpatici!»

«Senti, vaffanculo, chi li sa i segni, tu o io?»
«Oh, calmino, si scherza»
«NO TU MIA SORELLA LA LASCI STARE, VA BENE?»

«Ahahaha dai ragazzi hahaha calmi hahaha che simpatici!»

«Nebo, tranquillo, sono le solite cazzate tra noi, mi dici c»
«E NON TOCCARMI CHE SEI UN SEMIANALFABETA IGNORANTE DI MERDA CHE SI METTE A.. »
«A…? Cosa? No, dì, adesso dillo»
«EH, CHE HAI CAPITO»
«NO, ADESSO LO DICI»

Ario mi spinge indietro, gli tiro una sberla in piena faccia. Resta immobile un secondo, me la ritorna. Incazzato, non capisco più niente. Sparo un cazzotto mentre lui scatta di lato.

«HAHAHAHAHAHAHAHA H AHA HA H

La faccia di Ario mi costringe a seguire la traiettoria del mio braccio in un drammatico movimento alla moviola. Le nocche del medio e dell’anulare puntano decise il naso di Alberta che, muggendo d’orrore, chiude gli occhi. Al primo contatto avviene una deflagrazione di pus, fondotinta e grasso, poi il setto nasale si spacca in un cràk cartilaginoso. La spinta imprime al deforme corpo di Alberta una rotazione antioraria. Ruota di 360° ed impatta su uno dei tanti tavoli di plastica bianchi, lordandolo di sangue. Le ragazze urlano, i clienti accorrono, gente sbraita. Ho rotto il naso alla figlia di un sardo.

07. Il senso della vita



Sul momento l’erezione di Ario è più interessante dell’amico rapper che grida, così tutti se ne fregano finché dalla spiaggia iniziano a farmi il coro un bambino in lacrime ed una madre isterica. Il cervello di un mestrino cresciuto in una laterale del terraglio 

«IMBECILLE!»

è addestrato ad urla genitoriali. Addestrato. Altamente, professionalmente. Anni ed anni di ceffoni, paternali, furti, equivoci, gonne alzate, manrovesci e castighi hanno forgiato le nostre orecchie a distinguere minacce reali da quelle verbali. E’ per quello che tra di noi ci insultiamo, chi è stato gonfiato di botte durante tutta l’infanzia sa che i veri danni non vengono da

«VERGOGNATEVI, TE E I TUOI AMICI!»


blandi e poco fantasiosi insulti, bensì da frasi fredde, brevi ed impersonali. Gli insulti non menano. Gli insulti sono bene, spesso sono tutto. I problemi arrivano tipo quando senti nomi di persona pronunciati assieme ad un imperativo, ad esempio

«FRANCESCO, VIENI QUA, FRANCESCOOO!»
Ecco.

Solero, sulla spiaggia, sta ancora con lo zaino stretto al petto e non ha capito una madonna. Potrebbero scannarci e lui baderebbe solo a non vedere poliziotti nel raggio di chilometri. Ario dalla vita in giù è puro legno norvegese e non può uscire senza scatenare il panico, Atza ed io siamo i soli in grado di perlustrare la costa aspettando che Francesco si palesi. La moglie consola l’orribile mostro che frigna come solo nel soldato Ryan ho visto fare, gli spiaggianti se ne impippano e le ragazze sono sparite perché le donne sono come gli assicuratori: al minimo casino sono le prime a scomparire.

Quello che emerge dalla fila di ombrelloni non siamo sicuri sia un essere umano. Alto un metro e un nokia, il fisico di un bambino somalo, sui quarantacinque. Ha in mano “Essere digitali” di Nicholas Negroponte ed ha sul viso i colori di guerra della Bilboa protezione total. Si porta con l’indice gli occhiali all’altezza giusta mentre io ed Atza gli andiamo incontro visibilmente tranquillizzati.


«Cosa succede, tesoro?»
«SUCCEDE CHE QUESTI DUE IMBECILLI HANNO TIRATO UNA PALLONATA IN TESTA A TUO FIGLIO, ECCO COSA SUCCEDE»
Il bambino continua ad urlare come un maiale. 

«Ci scusi, non l’abbiam fatto apposta» dico.
«E VORREI BEN VEDERE, voi dovete VERGOGNARVI, capito? VER-GO-GNAR-VI!»
«Cara…»
«MA CARA UN CAZZO, LO SENTI COSA PIANGE?»


Il diverbio prosegue in una comunicazione tra sordomuti dove noi ci scusiamo, il padre minimizza, il bambino piange e la madre sbraita insulti sbavando. Stiamo cominciando ad attirare un po’ troppo l’attenzione quando da dietro di noi appare Ario, visione che paralizza la donna.


«Signora, mi scusi, permette?» fa prendendo la mano del bambino.
«Sei amico loro?» domanda la pazza.
«Il bambino piange perché lei grida, signora» dice chinandosi davanti alla sirena umanoide.
«Ss-s-sh, tutto bene, tutto bene, passato tutto»
Il putto si quieta all’istante. Due tre singhiozzi, tre respironi profondi, occhi attenti, ora fissa Dario con interesse. Anche la madre segue l’esempio. Tutte le quarantenni assumono una particolare espressione quando si trovano davanti Ario. Sembrano sempre molto stanche e compiaciute.

«Ma tu… lei… tu. Tu, quanti anni hai?» domanda riprendendo la mano del figlio.
«Ne ho venticinque, signora» sorride mentendo di sei anni.
«Ah» mugola «eeee… come mai hai esperienza coi bambini?»

La domanda già di per sé sarebbe frivola, visto che il marito è a fianco, noi ti abbiamo appena pallonato il bambino e fino a pochi istanti fa volevi farci squartare da una mietitrebbiatrice. Io ed Atza lo notiamo appena, siamo molto più preoccupati della risposta che darà Ario. Mentirà. Dirà che è un pediatra. Dirà di essere figlio della Montessori. Inventerà un’infanzia in orfanotrofio mescolando Oliver Twist e Rocky. Dirà

«Più che altro ho esperienza in donne che gridano.»


















Inspiro quanta più aria posso. Atza si mette le mani sui fianchi, guarda per terra. Si gira verso il mare.

«…ma cioè? E’ pompiere?» domanda Francesco il marito.


Atza ora solleva la testa verso il cielo, sussurra “forse è meglio se andiamo” con voce traballante, il che peggiora la situazione sia per me che per lui. Io mi mordo la parte interna delle guance e contraggo le dita dei piedi notando che una scheggia di conchiglia è giusta sotto. Stringo più forte ringraziando Dio per questa inaspettata fortuna. Atza non sembra sentirsi molto bene, suda, ha gli occhi lucidi.

«No, no. Bè, comunque possiamo dichiarare concluso l’incidente?» fa Ario.


Si può dichiarare concluso. Ce ne andiamo cercando di mantenere un certo contegno, dopo neanche dieci passi ci viene incontro Solero tutto sorridente con lo zaino in spalla.

«Solero, diocristo, te ne sei persa una atomica»
«Ario Siffredi, se restavamo lì tre minuti in più facevo un embolo»
«Intanto è Nebo che ha mandato tutto a puttane»
«Vero»
«Ah io, mica te che sei diventato Manolo il Punteruolo»
«Manolo il punteruolo?»
«Lasciamo stare, ho bisogno di drogarmi»
«Questa è un’idea della madonna. Solero, carica il pezzo»
«Massì»
Un momento.

«Scusa, ma se te sei qui la nostra roba chi la guarda?»
Il ragazzo indica alle sue spalle i nostri asciugamani:















«LE FICHE!» ringhia Ario prendendo la spalla di Solero «come ci sei riuscito? RAPIDO, non rallentiamo, continuiamo a parlare, naturali, camminate alla via così. Solero?»
«Gesù, le ha annichilite di ganja»
«PERFETTO, SOLERO, SEI UN CAZZO DI DIO DELLA GUERRA»
«Ma non ha avuto tempo. Siamo in una spiaggia pubblica, poi»
«Come stracazzo sei riuscito ad attaccare discorso?»
«Le avrà ricattate?»
«Solero, mica parleresti, per una volta?»

«Gli ho offerto un gelato»
Ci fermiamo.





Il senso della vita ci è stato rivelato da uno sconosciuto narcotrafficante sulle spiagge della Liguria nell’estate del 1997.

Il primo giorno in redazione


La radio si accende alle cinque e mezza di martedì mattina. 
Rispondo con due madonne e un gesù cristo. 

Cerco a tentoni di spegnere l’odioso apparecchio che canta Irene Grandi. “penso cheBAM dormire fBAMno a tTHUDrdi sia altBANnto straordinBAM, BAMaaaaari* Bene. Immobile, a letto, nel buio, ragiono. Irene Grandi. Lesbica. Fica. Megan Fox. No, Michelle Rodriguez. Immagino con tutte le mie forze di sentire la sua voce ruvida che mi dice “get’cha ass out of ma bed, NOW”. 

Mi alzo.
Un metro avanti, tre metri a lato, pigio il pulsantino e s’accende il neon sullo specchietto. Mi guardo. Sì, sono io. Me ne rassicuro, poi vado in fondo allo stanzone, tiro la tendina, abluzioni varie. Metto la ciotola del bucato a riempire sotto il lavello (la uso per radermi) mentre accendo il fornelletto per scaldarmi il latte. Finito di togliermi il pelame dalla faccia rimetto a posto tutto, attivo la macchinetta del caffè, mescolo le due cose. Ci sbriciolo dentro 4 fette biscottate e un cucchiaino di miele e consumo il tutto guardandomi i Duck Tales sul PC che durante la notte ha scaricato la nuova puntata. 

Non rompetemi i coglioni, son bellissimi.


Alle 6 sono fuori di casa. Buio, freddo, pare ancora notte. Luci spente, silenzio. Alle 6.10 monto in autobus. Persone. Siamo tutti ancora a letto, in realtà, anche se il corpo è lì. Ogni tanto c’è gente che sobbalza, si guarda attorno sconvolta e dice “dove sono?” e quelli a fianco gli danno il buongiorno. Questa è l’ora dei camerieri, dei pendolari cattivi (cioè fuori provincia), degli operai Fincantieri/Enichem/Porto Marghera.

L’autobus è una specie di bar sport per sordomuti: ci si conosce tutti ma nessuno si saluta e nessuno parla. C’è quello dell’acciaieria che sta riuscendo a guadagnare posti verso l’impiegata dell’aeroporto, di questo passo riuscirà a sentire l’odore dei suoi capelli fra due settimane lavorative. Ho l’impressione che per farlo si svegli più presto e vada alla fermata prima. C’è il giornalista. C’è il contabile che è un cliché; esile, occhialetti, sempre nervoso che si tocchigna le mani. Per strada neanche studenti. Scendo, ringrazio l’autista e mi presento in cantiere. Fabiano sta già tirando le più fantasiose bestemmie osservando il lavoro di ieri.

– TE GA DA FAR MEIO, NEBO, ZIO CAN – ringhia con un alito da vino – TI GA SEMPRE EA TESTA IN FIGA, ARA CHE PRIMA O POI TI TE FA MAL- 


Apro gli occhi. 
Mi guardo attorno.



Sono le 9.34. Devo essere in redazione “verso mezzogiorno, ma con calma”. Non so, forse dovrei tornare al mio vecchio lavoro.