A casa mi preparo due panini con un etto di crudo, asiago, insalata in dosi massicce, pane fresco, bottiglietta d’acqua riempita dal rubinetto di casa, costo totale: 2,80 euro. Non mi è chiaro come sia possibile che in stazione per due pezzi di pane alla naftalina, una foglia d’insalata e un velo di prosciutto in crisi d’identità ne chiedano 4.80, ma non importa. Ho altro a cui pensare.
Entro in stazione tra tedeschi obesi, hipster in interrail che prenderei a sberle volentieri, branchi di giappocinesi che si muovono in slow motion intasando qualunque via di accesso o di fuga, guardie giurate convinte di essere Rambo che hanno occhi solo per le svedesi mentre le scalinate sono piantonate da tizi che sequestrano il bagaglio alle donne, fanno le scale e le aspettano in fondo con la mano tesa per il riscatto. Raggiungo la biglietteria. Diciassette sportelli di cui due operanti devono tenere testa a falangi d’idioti di ogni nazionalità la cui età va dai quaranta ai duemila anni, nessuno dei quali parla una lingua diversa dal dialetto.
Fermi in coda aspettano il loro momento di gloria.
«Senta, il prossimo anno circa in questo periodo devo andare a Genova, ma non so se partirò da Milano o da Roma. Il biglietto posso farlo qui adesso? Mi costa uguale?»
L’omino dietro il vetro si lancia in una descrizione complicatissima di cinque minuti declamata col tono di chi stanotte si ucciderà. Il cliente lo ascolta con sguardo gallinaceo. E’ chiaro che non stia capendo un cazzo, ma non interrompe perché è furbo ed è convinto che alla fine, con l’ultima parola, comprenderà tutto per magia.
«Ha capito?»
«No»
La spiegazione viene ripetuta.
Lo sguardo viene ripetuto.
«Ha capito?»
«Cioè… sta dicendo che io non… non posso prenotare?» tenta l’idiota.
«SENTA, QUI DOBBIAMO PRENDERE IL TRENO!» grida uno in fila.
Il tizio si fa da parte con occhi di livoroso rancore.
«Dica» fa l’omino.
«Io un anno fa avevo fatto un biglietto per andare a Genova ma l’ho perso, quindi non lo uso. Potete rimborsarmelo lo stesso?»
«No»
«Come no?! Ma io non lo uso!»
«E io che posso farci?»
«Rimborsarmi il biglietto!»
«Ma se manco lo trova, io come faccio a sapere che quel biglietto esiste?»
«Mi sta dando del ladro?»
«SENTA, QUI DOBBIAMO PRENDERE IL TRENO!» grida il cliente alle sue spalle.
«Un attimo, sono appena arrivato!» bercia il cliente.
«E’ lì da cinque minuti!»
«Io ci sto quanto voglio, se permette»
«Guardi che chiamo i vigili»
«E io chiamo la polizia»
«E io lo dico alla maestra»
«GNA»
Dopo dieci minuti abbandono questa sottospecie di asilo mariuccia e vago alla ricerca delle biglietterie automatiche, oggetti del demonio che vengono spostate ogni settimana per motivi ignoti. Fermo un impiegato di Trenitalia.
«Sa dove sono le biglietterie elettroniche?» chiedo.
«E io che ne so, sono un impiegato, mica un indovino» risponde.
Se ne va.
Aguzzo le orecchie. Tra l’altoparlante che annuncia ritardi, scioperi e cancellazioni intercetto le frequenze dei lamenti umani. Raggiungo una fila di Escher davanti a quattro biglietterie automatiche. Due non funzionano, una va solo col bancomat, la rimanente è presa d’assalto dall’armata mongoloide che fissa lo schermo come io fisso una lavagna con una disequazione.
SELEZIONARE STAZIONE DI PARTENZA
«Questa è Venezia o Mestre?» chiede una donna «vabbè, facciamo Venezia»
SELEZIONARE STAZIONE DI ARRIVO
«Io… io vorrei andare a Milano»
Preme Trapani.
«Ma… il treno per Trapani passa per Milano?» domanda a quello dietro, un cinese che la folgora con lo sguardo. La donna capisce che non riceverà aiuto e chiede a quello dietro, un moldavo grosso come un carroarmato e alto come una betoniera.
«Scusi, lei capisce come funziona?» trilla.
«Picchiare dona, pichiare macchina, vodka per tutti» sibila tra i denti lui «siempre funziona»
«No, eh? Tu?»
Sono io.
Faccio per passare la fila e aiutarla, ma il moldavo mi ferma alzando il braccio.
«Dove tu va?»
«Le do una mano o qui facciamo notte, non sto saltando la fila»
«Io guarda te»
Il giappocina nemmeno mi considera. Raggiungo la biglietteria, compilo i campi richiesti.
INSERIRE CONTANTE
Mi giro.
«Cosa vuoi?» domanda stizzita.
«Deve mettere i soldi» sospiro.
«Non ti do niente»
«Ma no a me, alla macchinetta!»
«Vabbè, quanto?»
«C’è scritto»
«Dove?»
Guardo il moldavo. Lui con la mano sinistra mima l’afferrarle il collo, con la destra il colpirla in faccia. La donna inserisce i soldi, afferra il biglietto, verifica due volte di non aver lasciato monetine e se ne va senza dire nulla.
«Oh, grazie, eh?» le grido dietro.
Torno in fila.
Il samurai giappocina impiega un tempo ragionevole. Il moldavo arriva davanti allo schermo, smanetta, inserisce il denaro. La macchina impiega due secondi di troppo a cagare il biglietto, così il pachiderma le assesta un cartone a potenza genkidama che la fa traballare e spegnere.
«SVOBODA NARODU KRISHNEV!» ulula la bestia, e inizia a distruggerla a calci.
Me ne vado lasciandomi le urla alle spalle. Tre poliziotti corrono verso di lui. Urla di donne, gemiti di uomo, berretti della polizia che volano.
«Scusa, tipo? Oh, tipo? Tipooo» chiama qualcuno.
Mi basta uno sguardo per riconoscere un videogiocatore a corto di smack.
«Mi manca un euro per fare il biglietto» dice, impaziente, guardando il drago magico allontanarsi.
«Te ne ho dato uno la settimana scorsa, ancora non sei partito?»
«Ma è per un altro viaggio» geme, scalpitando.
«Valuterei la bicicletta, a ‘sto punto»
«Dammi qualcosa, no? Stai in cravatta!»
«Vuoi la cravatta?»
«Un euro, un… seh vabbé, ciao»
Arrivo al binario, il luogo dove donne e uomini si guardano di nascosto apprezzandosi, evitandosi, selezionandosi e posizionandosi in modo da finire nella stessa carrozza. Noto una sudamericana che attende assieme al resto del popolo, stipato dietro in venerazione della sua 42. Arriva il treno. La gente spintona, tremante e ansimante per la tensione del momento. All’apertura delle porte con un grido corale uso marines al D-day tutti scattano incastrandosi nelle portiere tra urla, pianti, gemiti, spinte, bestemmie. Alcuni lanciano i bagagli verso i finestrini nella speranza di romperli. Abbatto la sudamericana a gomitate in bocca e uso il suo corpo inerte come ponte per scavalcare.
All’improvviso le porte fanno BEEEEEEEEEEE, poi si chiudono.
E’ il massacro.
Arti vengono fratturati, valigie rigide divelte, persone rimangono incastrate a metà in un crescendo corale di imprecazioni disperate. Gli unici riusciti a salire siamo io e un camerunense perché abbiamo borsoni morbidi e un tono muscolare tale da permetterci di issarci a braccia aggrappandoci alle sbarre di sostegno interne. Ci lanciamo in aiuto dei mutilati, forzando le porte.
«MA CHE FATE, FERMI!!» urla qualcuno al capotreno in fondo, che sta chiacchierando col macchinista.
«FERMIIIII!!» urla una donna stritolata.
«IL BAMBINO! ATTENTI AL BAMBINO!»
Il bambino è finito sulle rotaie.
«State tranquilli, è solo un test delle porte» fa il capotreno soffiando il fumo della sigaretta.
«FATE UN TEST DELLE PORTE MENTRE LA GENTE SALE?! MA AVETE LA MERDA NEL CERVELLO?!»
«Calma, calma, ora le riapriamo»
«AAAAH!»
Le porte si riaprono a macchia di leopardo.
La nostra evidentemente era di un puma.
«Ecco, l’avete rotta!» grida il capotreno, isterico «vi farò pagare i danni»
«AIUTOOOOOOO» urla una vecchia sul marciapiede con una gamba bloccata sotto un trolley dentro il treno «AIUTATEMIIIIIH»
«Signori, in carrozza, si parte» fischia il controllore.
Con la forza della disperazione riusciamo a caricare persone e bagagli. Alcuni restano a terra, sguardi disperati che battono contro le portiere. Tutti li ignorano, è già partita la caccia al posto migliore. Le donne cercano di sedersi per ultime per poter scegliere il migliore compagno di viaggio che possa issarle le valigie e difenderla dai questuanti che non hanno soldi per mangiare ma distribuiscono cartoncini stampati in comic sans. Gli uomini cercano i compagni che puzzano di meno. Quelli che riescono a raggiungere un quadrato di quattro posti liberi si affrettano a occupare le altre tre poltrone con tutto quello che possono uso fortino. Quando qualcuno domanda “è libero?” digrignano i denti e sibilano “sssssì”. Dieci minuti dopo, finalmente, la calma. È ora di dimostrare ai miei antenati che anch’io posso sopravvivere a un’era glaciale.
Per viaggiare con Trenitalia è bene munirsi di camicia di lino e montone, giacché grazie al progresso della tecnologia oggi tra un vagone e l’altro puoi passare dal Sahara alla Finlandia. Un tempo col caldo c’erano i finestrini abbassati, oggi i finestrini sono sigillati e tutti gli scompartimenti sono dotati di condizionatori, distributori di Legionella e di inaudite bestemmie in quanto il termostato viene affidato al primo idiota che frigna col capotreno. Quindi assistiamo a scene di questo tipo:
«Capotreno, scusi, ma in carrozza si muore di caldo» geme una donna in pelliccia.
La temperatura scende a 7°. Le prime mani tremano, i deboli vengono colti da attacchi di dissenteria fulminante che li porta a bussare contro la porta del cesso urlando PRRRREEESTOOOO, FACCIA PRRRREEESTOOOOHOHODDIO PRRREESSSTOOOOO. La gente squarcia i sedili di finta pelle per farne vestiti di fortuna. A malincuore, alcuni scotennano il proprio gatto per farne un copricapo di pelliccia.
«Capotreno, scusi, in carrozza ho le sopracciglia ghiacciate» protesta un vecchio in camicia a maniche corte.
Vertiginosa salita a 20°. Gli abiti di fortuna vengono rimossi e utilizzati per accendere un focherello e grigliare i resti degli animali abbattuti. Spuntano bermuda, camicie hawaiane, infradito, piedi sudati sui sedili liberi, afrori di morte. Le donne tentano di abbassare i finestrini blindati senza riuscirci. Offrono prestazioni sessuali ai maschi che riusciranno nell’impresa.
«Capotreno, mi si sta sgelando il pesce!»
Crollo a 2°. Vengono documentati i primi atti di cannibalismo. Fuori dai bagni ci sono uomini e donne annichiliti in posizione fetale. A terra, diarrea congelata. Stretto nel montone osservo la gente fuori dal treno in maniche di camicia, sentendomi come un pastore afghano con la casa bombardata che guarda repliche di Jersey Shore. Una donna si avvicina tremante, mostra i seni a labbra serrate. Dice che se le faccio posto nel montone potrò averla. Impietosito, la accolgo.
«Capotreno, mio figlio ha le labbra blu» piange una madre.
Risalita a 18°. La donna schizza fuori dal montone e scrive alla redazione di GQ che sono sessista. Tra i sopravvissuti spuntano sorrisi, pacche sulle spalle, dialoghi amichevoli. Tutto è dimenticato, ogni atrocità perdonata. Nel benessere alcuni passeggeri si raggruppano e fondano movimenti a difesa dei diritti degli animali, piangendo i caduti e accusando i passeggeri di essere dei mostri. Motteggiando sarcastici, i passeggeri deridono Trenitalia e la sua organizzazione. Si fondano associazioni dei pendolari, che litigano e si scindono in associazioni per pendolari e passeggeri.
Mi tolgo il montone e addento il mio panino. Quello davanti a me estrae un sacchetto del McDonald e inizia a masticare a bocca aperta. Il controllore arriva e mi chiede il biglietto. Dico che non ce l’ho perché non sono riuscito a farlo. Dice che dovevo avvertirlo, io guardo il corridoio e gli spiego che non sono un giocatore di rugby professionista. Mentre mi fa una multa di 50 euro dice che non è un suo problema.
«Capotreno, ma qui dentro non si respira!» sbraita un tizio con la spilla del M5S.
Esasperato, il controllore schianta la manopola al massimo e se la porta via. La temperatura collassa a -10°. Abbandono il vagone di corsa mentre alle mie spalle inizia Hunger Games.