Grillhouse

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«Sono quasi pronta» trilla lei.
E l’uomo è quasi su Marte, penso io.

Dopo lo stesso tempo impiegato a percorrere a passo del giaguaro la tratta Venezia-Mestre, la convivente finalmente si palesa. Ha iniziato a mascherare la sua miseria alle sei di pomeriggio preparandosi a uscire per l’aperitivo in un posto vagamente sciccoso, ora sono le nove e mezza ed entrambi abbiamo così fame che mangeremmo le carcasse dei gatti sul bordo dell’autostrada.

«Come sto?»

In un colpo d’occhio sgamo gli infami trucchi che parruccano cordoli, brufoli, occhiaie. Nella testa risuona malinconica la canzone degli Audio 3, quando dice “lo facciamo al buio come piace a noi”. Annuisco. La prossima riunione in ufficio mi attarderà molto sul Terraglio anche la prossima settimana.

«Benissimo» faccio «ora per l’amor di Dio mangiamo qualcosa»
«Ah, niente aperitivo?»
«Sono le nove e mezza, tesoro, i buffet sono ormai un lontano ricordo tipo il perché ti ho introdotta in questa casa. Pizzeria?»

La morte si dipinge sul viso della donna. Le cause sono chiare: essa non s’è cazzuolata la faccia per esibirsi tra famiglie e agricoltori cinquantenni. Non oso domandare “cosa c’è”, giacché se io sto male piovono vaffanculi e frasi tipo “non fare la lagna”, se lei accenna malumori devo trasformarmi in Sherlock Holmes featuring professor Xavier con DJ Lie to me.

«Ok, niente pizzeria» sospiro.
«Sushi?» s’illumina lei.

Sushi. Il cibo più del cazzo dell’universo. Una volta i ristoratori che osavano proporre pesce crudo venivano giustamente linciati dalla folla inferocita e stuprati dai NAS. Oggi paghiamo somme stratosferiche per ingurgitare gelatina gusto pescheria e sentirci cosmopoliti appartenenti alla middle class, se non fosse che abitiamo a Mestre. Il sushi è il Moncler della ristorazione: finto lusso per veri gonzi.

«Non credo nella multiculturalità» mento per salvaguardare il fondo puttan tour.
«Vabbè però manco la pezzenteria» geme lei «scusa, pizzeria. Manco la pizzeria»

Nel cervello si fa strada un’idea. Un locale nuovo appena aperto, definito “popolare e moderno” dalle mie colleghe, una mandria di zitelle che frequentano bettole innominabili che pompano Raffaella Carrà. Lupanari che non fingono nemmeno più di essere qualcosa di diverso dalla monta dei ventenni appassionati di archeologia. Il ristorante in questione è il Grillhouse, a due passi dalla tangenziale, dove se c’è un incidente mortale è possibile le carcasse delle automobili vi piombino sul tavolo perforando il tetto e uccidendovi.

«Un locale nuovo?» trilla lei con la luce negli occhi «ci sto!»

Fuori ci accoglie un ampio parcheggio e una mucca di plastica a grandezza naturale, davanti alla quale famiglie di elettori della Lega si fanno foto divertenti. Il trucco è ormai sgamato e il volto di lei è cupo. Anche stasera non potrà sperare d’incontrare un uomo migliore. La consolo dicendo che tutto sommato sembra carino, alla mano ma stiloso.

«Mi sarei rotta il cazzo di robe alla mano e dei segaioli che ci stan dentro» fa lei.
«Tesoro, t’ho raccattata alla gara di rutti di Badoere che latravi con le tue amichette in tacco 15 tra il letame, dai, per cortesia, entra e non rompere i coglioni»
«Almeno loro frequentano bei posti»
«…che sono l’equivalente del poligono della Guardia di finanza, amore mio, due volte l’anno entrano e li trasformano in sfollati con tre milioni di euro di debito e gli organi pignorati»
«Vabbè, però almeno…»
Entriamo.

L’ambiente è quello classico di chi non ha idee. Grosse stampe in bianco e nero sui muri, luci smarmellate, legno plastificato, acciaio e lampade stile Ikea per un mondo di miseria fantozziana 2.0. Oh, guarda, Audrey Hepburn. Toh, Marilyn Monroe. Che idea fantastica.

«Buonasera, tavolo per…?» si blocca la cameriera, fissandoci.
Cala il silenzio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«AAAAAH» grida qualcuno in fondo alla sala.
Vi girate.
Tutti mangiano come niente fosse.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La cameriera è sempre lì con sguardo ottuso.

«…mangiare?» tento.
«…sedersi?» prova la mia vagina portatile.

«Ma no, tavolo per quanti» sbuffa la spiritosa lavoratrice, evidentemente troppo pigra per finire una frase e gli studi. Come me. Cazzo, mi piace ‘sto personale, ora che sono a corto di cash potrei farci un pensiero.

«Siamo in due» dico.
«Vedo se c’è posto» replica.

Di fianco ci sono una ventina di tavoli liberi. La scaltra cameriera segue il mio sguardo.

«Chiedo comunque al caposala» sentenzia. E’ dunque probabile che per orinare essa compili appositi moduli. Chissà. E’ da questo humus fertile che nascono le indignate dell’Internet. A cosa serva un caposala in un baraccone semivuoto popolato di fantasmi e corsi di recupero non mi è chiaro. Io e la fica assumiamo la posizione degli unici in piedi. Tutti ci osservano, noi cerchiamo di osservare qualsiasi altra cosa che in quel caso consiste in una splendida stampa già vista nei bar tipo Goppion 1882 e altri asettici porcili iKea dove tutto è montabile, pure la rispettiva consorte. Quarantenni che si frequentano solo perché vengono inculati a Black&Decker nello stesso ufficio si attavolano felici per parlare male di chi guadagna più di loro e dei gossip sugli assenti. Scollature di pizzo made in China mostrano mastoplastiche additive made in Slovenia. L’odore di carne sgelata e cotta in microonde si fonde a deodoranti in superofferta, profumi dozzinali e vestiti dell’OVS.

No, aspettate.
Sono io.

«Potete seguirmi» comunica la cameriera.
«UOOOOGH» grida qualcuno da qualche parte.
Boh.

Talloniamo la precaria facendoci largo di traverso tra i venticinque centimetri che separano i tavoli. La mia donna mette il culo sul piatto di un bambino con salopette e spilla M5S, io struscio il pene sulla faccia di un padre con l’aria del tronchettaro abusivo. Sorride. Sarà il trentesimo scroto che annusa da quando siamo entrati e la sfilata di Badedas noir, Borotalco, Saugella neutro e formaggia di cazzo l’ha annichilito fino alla lobotomia. Raggiungiamo la postazione. Sedie di plastica, tavolino 75x75cm con uno spazio di manovra disponibile pari a quello di un seggiolone. Appena seduti riceviamo gomitate degli avventori confinanti che quando tagliano una bistecca allargano le braccia uso cormorano tramortendo i vicini in un’orgia di “scusi”, “mi spiace”, “le ho fatto male?”, “le ricompro la birra”, “eh ma ghesboro”, “certa gente non si lava” e altre perle. Apro il menu. Un hamburger 10,90 euro.

Leggo meglio.
10,90 euro. Giuro.

«GNAAAAH» strilla una donna, scattando in piedi.
Si risiede nell’indifferenza.

La sanguinatrice mensile che mi siede di fronte emette strani squittii, segno che anche in quest’occasione ha scordato di prelevare al bancomat. Strano. Lei opta per arrosticini d’agnello a 12 euro e una birra media. Al tavolo di fianco un uomo addenta un McBacon pagato il triplo, gli resta in bocca il pane e il contenuto piove sulla schiena del tizio al tavolo di fronte, che se la scrolla di dosso con nonchalance. Decido per un filetto da 17 euro e un’altra birra. La cameriera annuisce, segna e riprende a sguazzare tra la gente.

«TANTI AUGURIIIIII!» dice il tavolo di fronte, facendo apparire una torta a forma di pene.
«…e lo avrei messo, l’anello al dito. Devi credermi, ma finché mia moglie non si decide a darmi il divorzio ho le mani legate. Ti prometto che presto…»
«AAAAAH!» grida un uomo, curvandosi su sé stesso.
La sala lo ignora.

«ello io voto Indipendenza veneta, perché quei cojoni de Veneto Stato xè come quei dea Lega, parla parla e poi i ruba come i teroni. Nialtri gavemo distribuio grappa e sopressa ai pensionati a gratise, questi xè fatti, no ciacole…»
«anno Giorgio me voleva portar a Cortina, ma ga dito che dopo ea retata no se fida perché el Cayenne xé targà o immatricolà in germania, robe che s…»

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Immerso nel paese reale tento di sostenere una conversazione atta a farmi ottenere un rapporto sessuale al buio. Il cameriere giunge con un carrello e consegna numero otto arrosticini otto, ossia 1,50 euro a pezzo. Il mio filetto è grande come il pugno di un bambino bosniaco, le patatine sono ancora mezze surgelate in porzioni che non sazierebbero un namibiano. Noto uno strano sfrigolìo provenire dai piatti che non sono piatti, bensì taglieri di legno con incastonata una piastra d’acciaio.

«Attenti ai piatti, sono bollenti. Buon appetito» fa il cameriere, poi si dilegua.
«Saranno sì e no 100 grammi di carne, come conti di trombarmi con solo quella roba in corpo?» domanda la mia soave principessa.

Vorrei ridurla al silenzio, ma ho altri problemi. La dimensione del tavolo uso gulag 1945 non consente il minimo spazio di manovra. La lastra di magma a 9000° gradi farenheit è a pochi millimetri dal mio torace tanto che mi sta liquefacendo i bottoni della camicia e tutto attorno volano gomitate. Un errore e volerò al reparto grandi ustionati di Padova. Assaggio un boccone che a spanna costerà 2,80. Non ha sapore. Aggiungo sale. Niente. Aggiungo sale sull’altro lato. Niente. Ho già consumato 5,90 euro di roba.

«Come sono gli arrosticini, stella?» chiedo.
«Chi è Stella, puttaniere?!» sbotta lei, girandomi la faccia con un ceffone.

Il conto è quello di una cena di pesce a Trieste, dove il posto più scarso serve roba d’eccellenza. Usciamo con la stessa fame di prima ma con strani gorgoglii all’altezza della cintura. Arrivati in macchina siamo preda di coliche intestinali mostruose. La corsa è folle, con curve in derapata e sudore che ottenebra la vista. Il bagno è uno solo e la vagina reclama il suo diritto di priorità. Accovacciato su una bacinella in salotto, mentre dall’altra parte della porta provengono piriti selvaggi alternati a gemiti gutturali, espello la cena.

«Ma comunque…» ansimo «…ma comunque scopiamo»
Dentro la sento piangere e ridere.