Come trasformare un matrimonio in un rave party

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Maggio del 2010, la primavera sboccia tiepida e splendida tra margherite e bocche di leone. Le scalinate di pietra ci conducono all’interno della villa, dove pennellate di luce rimbalzano sul marmo e illuminano mobili antichi, arazzi sulle pareti, un soffitto intarsiato di stucchi. Il vociare degli invitati è discreto, in qualche stanza.
Pciuirk, pciuirk, pciuirk, fanno i passi di Atza.

«Ma che hanno le tue scarpe?» domando.
«Sono quelle da tango argentino di mio padre, hanno la suola liscia tipo velluto, così c’ho spalmato un velo di UHU stick per aumentare la presa» spiega.
Pciuirk pciuirk pciuirk.

«Hai capito il merda, non ha mai soldi da prestarmi e poi…» mugugna Ario, ignorandoci.
«Devo pisciare assolutamente, fioi, sto al limite» fa Atza «già in chiesa ce l’avevo duro, adesso non sento più la vescica»
«Piscia in giardino, qui bisogna fare il punto della situazione» fa Ario, guardandosi attorno «Nebo, come funziona ‘sta sboronata stile Bella addormentata? Tavoli sciccosi o abbuffata negra?»
«C’è il catering fuori, il pranzo è dopo»
«No problem, la mia spada di carne e lo scudo di droga ci salveranno»

«In che senso lo scudo di droga?»

Atza nota un cameriere che attraversa l’androne: «Tu! Dov’è il cesso? Parla!»
«A-al piano di sopra» risponde quello, squadrandoci intimorito.
Atza ci abbandona divorando una scalinata a falcate di tre.
Pciuirk pciuirk pciuirk pciuirk.

«OH VEDI SE C’È ROBA DA GRATTARE» gli grida dietro Ario «vasellami, argenteria, quadri, tutto quello che sembra da soldi»

La cerimonia in chiesa è stata abbastanza normale, comunque meno squallida di quella in comune di Ario quando la sposa s’è fatta largo tra le sedie, l’invitato più elegante era in polo e alla domanda “vuoi tu” il nostro rispose “ovvio”. Ma nel 2010 Luca ha ancora il posto di lavoro figo, uno stipendio della madonna e ha deciso di fare le robe in gran spolvero.

«No, sul serio, dimmi che non hai roba dietro» faccio.
«Sto imbottito come un kamikaze» fa lui, tirando fuori dalla tasca una bustina di polvere bianca «hanno sparato ad Amir a Marghera così sono andato dalla concorrenza, prezzo promozionale»

Luca ci viene incontro squadrandoci: «Cristo, ho visto ferite vestite meglio di voi. Nebo, ti costava tanto mettergli una cravatta?»
«Ho fatto il possibile» dico.
«L’ultima volta che Nebo ha fatto il possibile non s’è manco riuscito a laureare in scienze della comunicazione, vedi tu in che mani ti sei messo» fa Ario.
«Cosa c’entra?»
«C’è riuscito quel sottosviluppato di mio cugino che a capodanno mise i petardi nelle torte delle mucche. Far l’alba al pronto soccorso con questi che gli grattavano via la merda dal naso… che palle di capodanno»
«Non cominciate, perdìo, sto già nervoso a palla. Dov’è il metallaro della mutua? Soprattutto, cos’ha addosso?» fa Luca.

Pcerk pcerk pcerk pcerk.

 

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«OH IN CESSO HO TROVATO QUESTO» trilla Atza in cima alle scale. Avanza piano, barcollando, la vista occultata dal quadro di un cavaliere in armatura. Per l’occasione indossa un gessato nero due taglie più grande, pantaloni senza orlo modello rapper, camicia nera sbottonata, spilla dei Pantera. Orrore e incredulità sciolgono il volto di Luca come una lenta coperta di magma.

«Va bene?» brancola Atza.
«Benissimo, scendi, sempre dritto» fa Ario.
«Ma co… MOLLA QUEL QUADRO, IMBECILLE!» tuona lo sposo.

È un attimo. Lo spavento fa sussultare Atza. Il risvolto dei pantaloni gli resta incollato sotto la suola. Perde aderenza. Cade all’indietro, impatta di culo sui gradini e sfonda il quadro con la faccia, perde le scarpe, una vola e resta appiccicata alla parete, il resto frana giù fino a noi.

 

Silenzio.
La scarpa si stacca dal muro.

«Mi dispiace» geme lui, dilaniando la tela ed emergendone.
Luca tenta di dire qualcosa, inspira, espira, riprova, chiude gli occhi. Li riapre.

«Tu… voi non toccherete alcool. Non parlerete di niente che abbia a che fare con droga, sesso, risse, fluidi corporei. Non bestemmierete, perché qui tre quarti sono cattolici. Starete buoni, zitti, silenziosi come scorregge degli angeli. Adesso occultate i resti di quel quadro e seguite le mie istruzioni… Ario?» fa Luca, girandosi e non trovandolo. Lo sguardo corre lungo l’androne, si ferma sulla sagoma in controluce del nostro eroe che con le mani sui fianchi annuncia al popolo sottostante

«È ARRIVATO TORQUEMADA, VECCHIE PORCHE»
Tacciono gli invitati, tacciono i camerieri, i parenti, la sposa, tacciono persino le cicale.
E siamo qui solo da cinque minuti.

 

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Ore 11.20
Tre prosecchi, un rosato, tartine miste, sigarette.

«Piacere, Camilla» fa la testimone porgendo la mano ad Ario.
«Ma tu non compravi la bamba da Amir?»
Sputo il tramezzino.
«Come?» fa lei, ritirando la mano.
«Dai, mi ricordo di te, stavi a rota fuori dal Rivolta l’anno scorso, m’hai chiesto una sigaretta che tremavi come un vibratore»
«N-no, no, ti sbagli» fa lei, guardando il moroso.
«Dai, sei tra amici, tranquilla» ammicca Ario «c’ho dietro il kit di pronto soccorso, se serve»

Lo porto via prima che il moroso si avvicini. Atza è all’interno che smanetta sulla consolle dei CD, Luca sta parlando con dei vecchi. Tento di spiegare ad Ario che non è il caso di trasformare in rissa da bar quello che è il momento più bello della vita di un uomo.

«Della vita di sua moglie, semmai» mi corregge «quello di un uomo è quando l’Italia vince i mondiali. Un vero maschio conosce le sacre priorità: patria, droga, amici, famiglia, puttane. Altrimenti sei un ragazzino»
«…la droga prima degli amici?»
«Chiaro, meglio spaccarsi di bamba o ascoltarti raccontare battaglie navali di cui frega solo ai disoccupati?»
«È Storia, testa di cazzo»
«Appunto, io le so ‘ste robe? No. Ho una casa, una famiglia, un lavoro. Tu le sai? Sì. Sei un rapper fallito, non c’hai uno straccio di contratto, vivi a casa del polverizzato e devi venderla per pagare gli avvocati. Cazzo, utilissime le battaglie navali. Figurati cos’eri con una laurea»
«Ario, tu sei quello che ha rotto il cazzo a tutti perché voleva coltivar ganja su Farmville e rivenderla su Mafia Wars, eh»
«Secondo me uno veramente nerd ce la faceva»
«Ma basta»

 

 

Ore 11.40
Sei prosecchi, un rosato, un Bellini, tartine incalcolabili.

Lancio del bouquet. La sposa sale al primo piano tra i gridolini eccitati delle ragazze, esce dal balcone con un sorriso da spasmo alla tiroide, si gira e si prepara a lanciare, quando nell’aria esplode la batteria di “Warriors of the world” dei Manowar. Atza, solo in piedi su un tavolo, muove la testa a tempo mimando una chitarra. Luca con un balzo lo placca stile rugby, strappa i cavi dallo stereo, percuote il metallico con il lettore CD e fa il pollice in su alla sposa. Lei, ammosciata, tira a sboro. Il bouquet fa una parabola, gli uteri alzano le mani e indietreggiano tra gridolini. Il bouquet finisce in mano alla cameriera, le galline impattano contro il tavolo del buffet in una detonazione di tartine, bicchieri, bottiglie, ghiaccio e poderose bestemmie del vecchio maitre che approfitta della confusione generale per menare un ceffone a una tizia discinta. Dall’alto, la sposa osserva la distruzione col sorriso che le cola giù. Luca trascina Atza per la giacca e ce lo riconsegna.

«Riprendetevi ‘sto sacco della monnezza»
Atza rutta.

 

 

Ore 12.12
Sette prosecchi, un rosato, un Bellini, tartdsfrsdkf

«’sta festa è divertente come un incendio in un orfanotrofio» fa Ario, rovistandosi nella tasca «è tempo della polvere di fata. Vuoi?»
«Ario, NO. E neanche tu»
«Guardami»

Ario sparisce dentro. Il pranzo viene annunciato, alla spicciolata entriamo anche noi. Il nostro tavolo è così nascosto che per trovarlo dobbiamo chiedere a un cameriere. Luca sorveglia di soppiatto mentre blatera con delle tizie. Atza si congeda da una ragazza caruccia con cui chiacchiera amabilmente e raggiunge il tavolo. Ario arriva sudatino, occhio lucido e cerniera abbassata. Tris di antipasti, prosecco a fiumi. Inizio ad accusare il colpo.

«Atza, lascia la bagascia, non c’è storia» fa Ario, seguendo gli occhi di lui.
«Che ne sai, è simpatica»
«Eccolo là, classico» geme lui, mollando la forchetta «trent’anni a fare il figasitter»
«Il cosa?» chiedo.
«Il figasitter. Le donne si fanno prendere a sberle le tette e sventrare il buco del culo, poi vengono a questuar coccole da Atza. S’è scarnificato le mani più lui a carezze che io a seghe, e viaggio con una media di tre al giorno»

 

Ore 14.20
Gonfi come zecche
Fine pranzo, la gente sciama nelle stanze, poi nel giardino Ario è sparito in bagno per la seconda volta. Torna sudato come una suora incinta, occhio sbarrato, aria di chi sta per esplodere. È il momento del taglio della torta. Tutti gli invitati confluiscono nel banchetto centrale davanti a una splendida millefoglie. La sposa prende il coltello e fa per tagliare, ma la lama è affilata come un bastone; la torta s’inclina sparando crema da tutti i lati. Ario si fa largo tra la folla e dice che fa lui, oh, dai, fa lui. Mentre lo vedo afferrare il coltello mi accorgo che i pantaloni del suo completo sporgono in avanti a causa di un’ erezione spaventosa. Se ne accorge anche la sposa. Ario trasforma la torta in una raccolta di vinili senza accorgersi che la punta del suo pene si sta strusciando sulla crema. Quando si gira col piatto, uno sbuffo di crema sporge dal suo scroto come una perla in un’ostrica.

«Tò, viva la sposa» dice il nostro, mettendole il piatto in mano.
Si pulisce i pantaloni con una salvietta e la getta sul tavolo.
Luca lo porta via. Atza è scomparso.

La millefoglie mi fa schifo.

 

 

 

Ore 12.34
Dati dimenticati

Troviamo Atza grazie al fotografo che per il fotoset conduce la coppia alla fontana dei pesci. Atza è semisvenuto sul bordo, ha un rivolo di vomito sulla bocca, nell’acqua galleggiano tramezzini predigeriti, acidi gastrici e un’ecatombe di pesci rossi morti. La sposa scoppia a piangere. Luca tira un calcio in bocca ad Atza, barrisce una bestemmia e corre dietro alla sua amata. Il fotografo decide di cambiare location. Ario viene richiamato dalle grida, vede Atza e tenta di abbassarsi la lampo per pisciargli addosso “tanto ormai”. Il padre della sposa viene a farci una sfuriata e dice che dobbiamo vergognarci. Atza biascica “for the king… for the land… for the mountains“, io mi scuso per tutti. L’uomo avvisa che se continuiamo così ci butta fuori, cosa che accade precisamente alle

 

 

Ore 15.30
Perdoname madre por mi vida loca

Stiamo correndo tutti e tre nel bel mezzo del paesino padovano, Ario con in mano un mojito vuoto. Hanno chiamato davvero la polizia, noi siamo fuggiti alla chetichella. Siamo troppo ubriachi per ricordarci dove cazzo abbiamo messo l’auto, figurarsi se possiamo metterci alla guida. Vaghiamo per stradine di pavè e ciottolati mentre Ario farfuglia che un caffè ci rimetterà in sesto. Ha dimenticato che ne abbiamo già bevuti due. Ci riposeremo sulla panchina della piazzetta, addormentandoci e risvegliandoci alle nove di sera. Luca non ci parlerà fino al 2011.

A riscriverlo, mi rendo conto che fu un bel matrimonio, tutto sommato.