«A che pensi?» domanda lei.
E’ metà ottobre. Sul letto cade quella luce dorata che hanno le sei di pomeriggio. L’aria sa di coperte e chiuso. Fuori, seimila metri più in alto, un aereo porta passeggeri chissà dove.
«Ascolta» dico.
«Puoi sempre prendere il brevetto più avanti» sospira.
«Pilotare un Cessna non è come pilotare un Harrier, ostrega» sbotto.
«Dovevi fare l’accademia, giusto?»
«Hm hm»
«Ormai è fatta. Stop. Fai altro. Hai la musica, l’università, lo sport…»
«Non è come volare»
«Prendilo come insegnamento. La prossima volta, corri incontro alle cose invece che pensarci troppo. Rimpiangerle serve solo alla gastrite. E poi credo il volo per te sia una specie di sogno che è un bene rimanga tale»
«Non ti seguo» dico, confuso.
Lei indica il soffitto: «Guarda quella mosca. Sta cercando di uscire da quando siamo qui. Il soffitto deve sembrarle la fine del mondo, eppure continua a provarci»
Il tizio vola addosso una coppia che sta ballando e molto prima che quello si rialzi gli corro dietro, gli monto sopra e gli pianto le mani nel collo. Così. La faccia gli diventa rossa, prima mi piglia a pugni, poi prende il collo anche a me, poi all’improvviso la faccia gli diventa rossa paonazza, gli occhi cambiano molto espressione, la bocca gli si spalanca e allora cerca di togliermi le mani, cosa che sarebbe pressoché impossibile se un’incudine non centrasse la mia mascella in pieno con un *crùnk* in bocca facendomi cadere dalla parte opposta. Per nulla intimorito mi rialzo in tempo per vedere quello per terra contorcersi tra conati di vomito e gli amici dell’entrata che mi corrono addosso. Non ne ho il minimo timore.
Prendo tante di quelle botte che non ho idea da dove arrivino o perché, il dolore è relativo ma non vedo più nulla e quando capisco cosa succede sono fuori dal locale, per terra, con in bocca un saporaccio e tutta la camicia coperta del mio rossissimo 0+. Mi rialzo e comincio a camminare verso l’entrata da cui mi hanno sbattuto fuori, solo che proprio quando i neandertaliani erano pronti a ripartire esce Ale che confabula qualcosa e mi tirona via. Lo seguo barcollante. Sputo per terra una roba che ho in bocca. Guardo, è metà del mio premolare di sinistra. Mi fermo un attimo a guardarlo, lo raccolgo. Mi tocco in bocca, non sento niente. Il nervo è morto, il dente pure.
Me lo metto in tasca.
All’improvviso 21 anni di vita mi crollano addosso assieme a un dolore acuto al viso, al braccio, alla testa, in bocca. Mi accorgo degli odori che fanno tutti schifo. Rimango fermo, imbambolato. Ale mi osserva con quel suo sorrisetto sulla faccia. Sto male. Immagini di lei mi tornano in mente come coltellate. Mi giro e vomito su un’aiuola del parcheggio.
«Ale, voglio andare a casa» sputo.
Allarga il sorriso e mi mette il braccio attorno alle spalle, incamminandosi: «Ho visto gente che la droga la piglia male, tu le batti tutte» sorride.
«Una volta mi han dato un cartone» dico «mi sono cagato addosso dalla paura»
«Sul serio?»
«No non sul serio, ma mi sono visto tipo i fantasmi che mi parlavano, una roba…»
«Che dicevano?»
Quello che dicono tutti, immagino.
«Non so» mento «Non so nemmeno perché faccio queste stronzate. Ti ho rovinato la serata»
«Macché, basta che ci leviamo di qui che magari il tizio ha chiamato gli sbirri»
«Per due sberle?»
«Non erano due sberle, ma stai tranquillo»
«Perché sono così? Sono così. Le peggio cazzate, una dietro l’altra. Sembrano sempre buone idee, poi passo la vita a-a cercare… Ho un lavoro di merda, a scuola vado di merda, ho una facoltà di merda e faccio musica di merda»
«Madonna, che down t’ha preso» sghignazza.
«Che?»
«Scommetto che ti faresti un altro tiro»
«SI»
«E se invece lasciamo perdere e andiamo a Jesolo?»
«Così?» dico, indicando la camicia ridotta ad un grembiule da macelleria.
«Si rimedia»
Massì, corriamo incontro alle cose.
Andiamo a Jesolo.