Ogni volta che qualcuno decide di raccontare I Grandi Problemi Delle Generazioni, da qualche parte un bambino muore.
Ne abbiamo viste di ogni tipo. Da immemorabili anni, qualche redattore sadico decide di spiegare o raccontare il degrado della generazione X, Z, CA2-Z0, etc. I risultati si contano sui tavoli degli obitori di tutto il mondo. Gente che per smettere di ridere ha dovuto recidersi l’arteria femorale. Studenti che dopo il titolo hanno dato fondo alle scorte di Xanax. Anziani giornalisti che si sono strappati gli occhi e li hanno fatti spedire in busta chiusa alla redazione.
Perché è una grande realtà: ogni volta che qualcuno decide di raccontare I Grandi Problemi Delle Generazioni, da qualche parte un bambino muore.
I motivi di questi catastrofici risultati sono molti, ma su tutti ne spicca uno: la nostra generazione è un’antologia di citrulli. Puoi essere il migliore reporter del mondo, ma se il tuo compito è documentare “stanza vuota con nulla dentro” c’è poco da fare. Tuttavia, come Boris insegna, si può fare il giro. Quando spingere sulla qualità è assolutamente inutile si può puntare sul peggio del peggio del peggio, spurgando pozzi neri fino a raggiungere la perfezione. Certo, ogni volta che qualcuno decide di raccontare I Grandi Problemi Delle Generazioni da qualche parte un bambino muore, ma pazienza.
Oggi sul Corriere è uscito un pezzo di tale Antonella Lattanzi che titola “La mia vita da sbandata – Tra un barbone e un punkabbestia la differenza c’è ma a volte non si vede. Lo racconta una scrittrice con un passato randagio”.
Possiamo cominciare.
«M’incastro, io m’incastro troppo con la testa. E poi mi chiedo dove sta l’amore. Mi ritrovo che perdo la testa, sempre, per persone complicate. Fanno la vita che faccio io, quindi sono instabili come me. Oppure è il contrario, facciamo questa vita perché siamo instabili? Io non lo so».
Sono domande che hanno il potere di annoiare qualunque essere vivente e preludono al peggio. Tollero questi vaniloqui solo se poi la donna mi prende il pene in mano, ma qui non vedo mani tese, Antonella. Non le vedo.
È un sabato sera di settembre, Elisa è molto bella, ha 26 anni e un corpo minuto, sembra la Natalie Portman di Léon che usa come profile picture su Facebook. Sedute a un tavolino Peroni davanti a Rosi, baretto nel cuore del Pigneto, Roma, Italia, mi guarda con desolata dolcezza. Ma non c’entra con quanto mi sta raccontando, è la sua espressione naturale. Capelli cortissimi tranne un ciuffo che lambisce gli occhi, tre piercing neri — setto nasale, labbra, lingua —, maglia celeste, shorts di jeans su collant neri tagliati, anfibi, chiodo in cui si abbraccia perché inizia a far freddo, se volessi catalogarla la chiamerei punkabbestia.
E’ il giorno in cui gli adolescenti escono, Elisa è alla soglia dei trent’anni e ha un disperato bisogno di figure paterne. Siamo sedute in un posto di cui non frega un cazzo a nessuno davanti a un tavolino di una marca di cui non frega un cazzo a nessuno. Mi guarda come un cane bastonato perché è il suo normale atteggiamento passivo aggressivo. All’alba dei trent’anni si colora i capelli e li pettina come Rhianna, si veste come una quindicenne e se volessi catalogarla la chiamerei “non ho spicci”.
Facciamo un rapido reality check.
PUNKABBESTIA DI FANTASIA
AHAGLARBLALALARGLALAGROOOO
Proseguiamo.
«Ma ci soffro il triplo, perché sto sempre in bilico, e continuo a chiedermi dove sta l’amore. Dove, sta, l’amore. Però quando sei completamente smarrito su qualsiasi valore come mi sento io, ti trovi in situazioni che nemmeno tu riesci più a capire. Se è giusto o sbagliato per te. Perché sei completamente perso riguardo a tutto. Tutto. Rispetto a te stesso, a ciò che ti sta intorno, all’amore, a ciò che ci dobbiamo vivere, che sia l’università, il lavoro, il rapporto con le droghe, o il mondo artistico, soprattutto».
Non ho capito un cazzo, pare Nichi Vendola. Però ci sono le parole “amore, valori e artistico” quindi è potenzialmente profondo. Mi piaci, Elisa. Le tue parole mi hanno colpito, qualunque esse fossero.
Elisa è sarda, vive nello studentato di Casal Bertone. Studia teatro di mattina, Scienze dell’educazione il pomeriggio, e poi «mi sfascio, quasi ogni notte. Sono sempre stanchissima».
No, un momento: questa carneficina su gambe la mattina studia come si educa la gente e la sera si riduce ad una betoniera di sostanze psicotrope? Cos’è, hanno sbagliato il titolo del praticantato? Antonella, devi capire che qui la cosa scricchiola.
È come Pacciani che di giorno scriveva poesie sulla pace nel mondo e la notte infibulava donne con un rasoio. Qualcosa non torna.
Cerca riscontro negli occhi della sua amica Anna, capelli rasati da un lato, rosso fuoco dall’altro, codice a barre tatuato sul collo, dilatazione all’orecchio, maglia stretta, leggings, cintura borchiata, stivali, occhi lunghi e obliqui e un sorriso che riaffiora di continuo ridisegnandole i caratteri del viso. Anna viene da Bracciano, si è appena laureata in Scienze dell’educazione, lei ed Elisa si sono conosciute là, adesso sta cercando di capire cosa fare. «In carcere è bellissimo ma difficilissimo. E se vado a lavorare in comunità… finisce che mi rinchiudono», ride.
“RIDE”!? Come “ride”?! Fammi capire, Antonella, l’altro rottame è addirittura laureata in scienze dell’educazione? Ma che cazzo di corsi fanno? In base a cosa danno i voti? Alcolismo applicato? Teoria e tecnica dell’assunzione di Minias? Accattonologia? Quanto denaro pubblico spendono in deodorante per ambienti, lì dentro?!
Da cosa si riconosce un punkabbestia? Dallo spaesamento nei confronti del normale? Dalla musica che ascolta, le persone che frequenta, le droghe che usa? Dai vestiti, dal luogo in cui vive — per strada, in uno squat, in una casa? Dal lavoro che ha o non ha? Dalla tristezza? Dai cani, e da come si chiamano, e se sono grossi, se hanno o meno il guinzaglio? Dall’ora in cui si sveglia?
Dal fatto che i barboni non hanno Facebook.
So che questa spiegazione semplicistica urta quel tuo “normale” in corsivo, ma è così. I barboni non hanno un profilo Facebook a cui mettere la foto profilo di Lèon. Li riconosci dal fatto che non hanno un computer, non pagano l’elettricità, non pagano un abbonamento Internet, non sanno chi è Lèon, non hanno cani perché sono una bocca in più da sfamare, non spendono soldi in tinture per capelli, non spendono soldi in rate dell’università, non hanno piercing perché con la scarsa igiene sarebbe un suicidio e non hanno soldi per andare dal medico, non vestono seguendo la moda ma per stare caldi/freschi.
Magari è una mia impressione, però.
Aspetta che cerco il sor Gino di professione “cabernet ore 7.00” su Linkedin.
Il sor Gino non c’è, Antonella.
Potrebbe essere un indizio.
Tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila sono stata punkabbestia anch’io.
Che, comunque, fa curriculum.
Ma vivevo a Bari e come tanti adolescenti baresi il mio mito erano le città del Centro Nord. Credevamo che fuori dal Sud il mondo fosse più eccitante, ricco. Per certi versi, almeno all’epoca lo era. Per esempio per la mentalità della gente, di cui un punkabbestia (come un extracomunitario, o un barbone) è una cartina al tornasole. Poiché ti costringe a rivelarti subito a te stesso: lo guardi male, eviti di guardarlo, lo guardi bene. Essere punkabbestia negli anni Novanta, poi, quando anche solo un piercing produceva sconcerto («Perché lo fai?» «Sei autolesionista?»), era totalizzante. Capelli dai colori scioccanti, catene per cinte, cani in libertà, collette, urla. Lo sforzo di apertura richiesto alla gente non era indifferente. Come si riconosce un punkabbestia? Da quanto è rissoso? Tatuato?
Antonella, smettila. Ne abbiamo già parlato. Ripetere una domanda che tu consideri provocatoria sta sterminando i bambini del Ruanda e soprattutto mi sta scartavetrando la minchia. Ogni volta che vedo quel corsivo è una fitta. Si è capito che hai visto Trainspotting e ti è piaciuto, ma se vai avanti sarò costretto a pisciare in un piatto, congelarlo e farti scivolare il disco sotto la porta di casa.
Lo farò per anni.
Smettila, per favore.
«Se non sono a teatro o allo studentato, io sto sempre buttata qua», Elisa mi indica con gli occhi il Pigneto, «anche se, ti dico, ormai è pieno di radical chic». «E gli altri?». «Dici gli altri come me, come noi?». «Sì», e abbasso la testa perché mi vergogno.
Accendi le casse e clicca qui.
Sino a lunedì prossimo non ha soldi. La finanzia Anna, insiste perché mangi, «prendi ’sto pezzo di pizza, devi mangiare, dài. Ogni tanto ci ricordiamo di mangiare, e dormire», mi sorride. «A proposito Elì, vieni da me stanotte?». «Ma è da quando sono tornata che sto da te!». «Dài tesò! se vieni sono felice». Quando servirà, sarà Elisa a finanziare lei. «È che il tipo con cui Eli si fa le storie vive a casa mia», mi dà di gomito. «Ah!», rido, «allora non è che vuoi andare a dormire dalla tua amica, è che vuoi stare con lui…». Elisa abbassa la testa, «Eh…», sorride. «Fai bene, io ci andrei», le faccio l’occhiolino.
È forse uno dei dialoghi più emozionanti che abbia mai letto in vita mia. Potrebbe averlo fatto Jessica la salumiera in Erasmus con le amiche o Samantha in turismo sessuale in Marocco. Tu devi stare attenta a coprire bene gli spifferi sotto la porta di casa, perché qui le cose vanno di male in peggio. Questo non è un dialogo, è il sottofondo del bar della facoltà X della città X.
Capisci che se nel mio freezer non c’è più spazio è colpa tua?
Da cosa si riconosce un punkabbestia? E un fighetto? E un radical chic?
Antonella, io capisco questa sia una domanda che ti assilla e su cui hai basato probabilmente la tua vita, ma è facile: un fighetto ha un reddito. Un radical chic ha un reddito. Elisa ha una quasi laurea in scienze della droga.
Non è difficile. Cerca d’impegnarti, per favore.
Per loro, la differenza tra un barbone e un punkabbestia non c’è. Me lo sono chiesto spesso: qual è la differenza? l’età? la possibilità di scelta? i vestiti?
Antonella, sappiamo che questa domanda è tipo la cosa più bella della tua vita, ma l’hai già fatta ottantordici volte. O sei affetta da deficit cognitivo o i conti non tornano. Hai presente quando a scuola dicevano “è intelligente ma non si applica”? Sospetto a te dicessero “si applica un casino ma si mangia la tempera delle matite”.
Provo a farti un disegno.
Persona bisognosa di aiuto
Persona bisognosa di manganellate
E se il punto non fossero i radical chic o i punkabbestia? Se il punto fosse essere «completamente smarriti»? Su via L’Aquila facciamo la fila al distributore di sigarette. Davanti a noi, due donne e due uomini cercano di inserire gli spiccioli nella macchinetta, gli cadono, ridono, riprovano, le braccia come scivoli lungo i quali le borsette di pelle slittano sino a terra, le giacche morbide sbottonate sulle camicie, i vestitini mossi appena dal vento, gli occhi liquidi. Un po’ spaventata dai rumori, Chaos [il cane] ci guarda con lo sguardo tipico dei cani: che sta succedendo? Tu lo sai, vero?
E’ certamente degno di nota il fatto che un cane abbia lo sguardo tipico dei cani, Antonella. Uno magari pensa che un cane abbia lo sguardo di un condor, o di un odoroso cespuglio di lavanda. Invece no. Un cane ha lo sguardo tipico di un cane. Non di un fenicottero rosa, non di un cormorano del Madagascar, non di uno scarabeo stercorario.
No.
Di un cane.
Un cane ha lo sguardo tipico di un cane.
Voglio comunque ringraziarti per avermi regalato questa lettura, perché è grazie a te e ai ragazzi come te, così profondi e sensibili, che ci sarà la pace nel mondo. Ho già un piano. Un giorno una trentina di camionette blindate circondano i vostri ritrovi, vi ficcano un sacco nero in testa e vi portano di corsa in aeroporto. Vi imbavagliano e vi fanno indossare un costume con le fattezze di coniglio rosa con tanto di maschera, orecchie pelose e coda a pon pon.
A quel punto vi paracadutano in zone di guerra tipo Siria, Afghanistan, Libia.
I terroristi all’improvviso si vedono piovere dal cielo decine e decine di conigli rosa che, una volta atterrati, corrono qui e là facendosi abbattere dal fuoco nemico, detonando sopra campi minati, venendo investiti da blindati o bombardati con gli RPG. I terroristi credono sia finita, ma ne arrivano ancora. E ancora. E ancora.
Immagina migliaia di conigli rosa che piovono dal cielo.
Pensa che effetto farebbe nella mente dei terroristi.
Loro, abituati a incursori e soldati, scoprono di avere dichiarato guerra a uno Stato che non esita a paracadutargli gente disarmata e vestita da coniglio rosa senza motivo. O meglio, senza nessun motivo comprensibile. A me uno Stato così farebbe più paura dell’atomica, perché se i conigli rosa sono la prima mossa, quale sarà la seconda? C’è un posto per ognuno di voi, nel mondo.
Ciao.