Nel metaverso uterino è di nuovo tempo di prova costume

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Entriamo in un negozio qualunque che vende roba qualunque con etichette diverse. La temperatura è in modalità tempesta di fuoco. La radio gronda merda. Commesse che invece di sfruttare il loro vero potenziale si aggirano annoiate. Faccio l’errore di incrociare lo sguardo di una. Si avvicina, sebbene io faccia di tutto per somigliare a un manichino tipo quando entrano gli indiani con le rose.

«Ciao! Posso aiutarvi?» domanda.

La donna al mio fianco risponde con l’immancabile “No, diamo solo un’occhiata” ma mente, come tutte le meretrici di Bisanzio. Passeremo ore, qui dentro. Ore. Mostruosità temporali inconcepibili per un essere umano, qui, vengono definite “un’occhiata”. La commessa replica “Se avete bisogno chiamatemi” e io mi domando in quale metaverso se un cliente ha bisogno di informazioni invece di chiamare la commessa telefona a Pronto Pizza. Il fatto è che dopo anni di peregrinaggi in questi boudoir di psicologhe e laureati in ginnastica anale sono giunto alla conclusione che più il posto smercia pattume e più i commessi fanno i simpa. Entri al Duca D’Aosta? “Buongiorno signori”. Entri da Berska? “Hey, ciao, come state?”.

Il che mi dice molte cose sulla differenza di prezzo tra educazione e simpatia.

 

Inseguo il mio utero consenziente tra oceani di jeans devastati, magliette ironiche per ritardati, scarpe incollate a catarro, felpe mutilate, gonne sdrucite, cinture di plastica, borse di plastica, braccialetti di plastica, giacche di plastica, costumi di plastica e poi mi stupisco perché dopo sei anni ancora mi fa mettere il goldone.

Raggiungiamo il reparto costumi da bagno. Il soffitto del negozio esplode, i frantumi vengono risucchiati da una spirale nera e blu che vortica sopra di noi. Le pareti scompaiono. Il pavimento svanisce. Siamo nell’universo della prova costume, ove ogni legge della fisica scompare. Ogni logica è sovvertita. Un coccodrillo parlante con cappello da elfo irlandese, bandoliera da Carabiniere prima guerra mondiale e tanga tigrato s’infila una scopa nel culo, ci saltella incontro e indica i camerini. Le mie mani hanno otto dita. Seguo la cortigiana nel girone infernale, un corridoio infinito di tende nere costellato di abiti e attaccapanni da cui escono mani femminili che sporgono vestiti. Davanti a ogni tenda è posizionato un dannato, maschi dall’occhio vitreo che afferrano abiti, se ne vanno, ritornano, dicono “sì” o “no”, si chinano sul cellulare tentando di forzare la password del wifi del negozio perché il 3G non prende.

«Tranquillo, ci metto solo un secondo»

Quando c’è da scopare la spoglio in cinque secondi e al sesto ha già un dito nel culo.
Qui solo per rimuovere i pantaloni impiega dieci minuti.

«Amore, come mi sta?» chiede.
Scosto la tenda.

«MA CHE CAZZO FAI, CHIUDI!»
Richiudo.

«Devi mettere la testa dentro ma tenere la tenda bloccata con le mani, altrimenti mi vedono!»

 

 

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Dunque.

I costumi da bagno sono mutande e reggiseni colorati. Per quale innominabile ragionamento se le vedi in spiaggia va bene ma se le vedi in camerino si coprono urlando? Dev’essere lo stesso per cui se una si veste poco sembra una troia e non va bene, ma se una la cala a tutti non è giusto che la si chiami troia. Sul soffitto, elefanti rosa.

«Allora? Come mi sta?» domanda.
E io che cazzo ne so.

Un costume da bagno non può stare “bene” o “male”. Stiamo parlando di pochi centimetri di stoffa che coprono capezzoli, ano e vagina. Non sta bene o male, STA E BASTA. Nessun fazzoletto tra le gambe trasformerà una balena in Alexis Amore e nessun sacco di juta renderà LupeFuentes un’obesa. Ma queste sono considerazioni che appartengono a un universo lontano. Qui lei è consapevole che a me piace la combinazione topless + tanga, ma per lei è volgare. Sa che a me piacciono i fisici prosperosi, ma per lei è bello il fisico della Barbie. E siccome l’obiettivo è ufficialmente piacere a me, segretamente piacere agli altri uomini e contemporaneamente avere l’ammirazione delle altre donne, la cosa migliore da fare è chiedere a me se mi piace quello che piace a lei.

«Aspirina?» chiede un uomo, offrendomene una.
«Grazie, ho il Moment» rispondo.

Faccio una carrellata di quello che piace a me.

 

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E ora quello che piace a lei.

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Ovvero cagate che “stanno bene” solo alle clienti di Guantanamo.

Quando avevo la barca era tutto più facile: vigeva la regola che le donne erano ammesse a bordo solo con tanga o perizoma. Loro protestavano dicendo che era sessismo, io rispondevo che potevano sempre andare a Jesolo restando tutta la mattina in macchina sotto il sole e salvare l’onore.

Ho così scoperto di conoscere solo donne di bassa moralità.

Sfortunatamente la Fusillus appartiene a un mondo dove due più due fa quattro, non ai camerini di Bershka dove due più due si declina al congiuntivo col resto di nove.

«Ti sta bene» dico.
«Non mi intozzisce?»
«Tesoro, non è una cintura da palombari»
«Dici che è meglio meno sgambato?»
«Io dico zeppa di sughero 15, tanga leopardato e crema solare. Volendo, un pareo»

«Trasparente» precisa il tizio dell’aspirina.

«Dai, seriamente»
«Sono serissimo»
«Non ho il fisico da tanga!»
«E allora perché starei con te?»

 

 

 

 

 

Silenzio.

 

 

 

 

 

 

 

«…perché mi ami?»
Un mormorio di risate percorre i camerini.

Alla fine, bikini anche quest’anno. Le donne hanno un sadismo tutto loro per ricordarti che se vuoi la carne devi avere il grano. E la mente ritorna all’estate del 2013, quando la cumpa beveva birre, io governavo magistralmente e a prua, grazie al sobbalzo delle onde, vedevamo questo.

 

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