Made in Libia



















WTF, Libia?
I nostri Servizi segreti continuano ad organizzare pizzate per capire come mai non sono riusciti a prevedere che ai nordafricani scoreggiasse il cervello. Gli sarebbe bastato andare in qualunque discoteca. Le condizioni della Libia pre guerra sono ottime. Il regime nel 1970 usa il petrolio per costruire un welfare coi controcazzi. Case, auto, posti di lavoro, benefici. Perfino quelle fighette dell’UNICEF dicono che la Libia sta bene. L’aspettativa di vita è di 74 anni per gli uomini e di 77 per le donne. Il tasso di alfabetizzazione è del 95% tra gli uomini e del 78% tra le donne. La spesa complessiva annua passa dai 27,7 MLD$ del 1998 ai 93,2 MLD$ nel 2009. Nella graduatoria dello sviluppo umano passa dalla 182° posizione alla 55°.
Non sono dati da guerra civile. 
Per entrate, la Libia ha lo stesso PIL della Norvegia. 
Solo che gli stronzi non sono mai contenti e la stampa invece di guardare i progressi fatti rispetto al passato fa paragoni con altri stati arabi. Essendo loro appena 6 milioni e avendo sotto il culo un patrimonio in petrolio dovrebbero essere “come e meglio di quello che crediamo sia Dubai dai depliant turistici dai contrasti elevati e le modelle con l’airbrush”. La corruzione dilaga assieme alla sensazione il governo preferisca favorire stati esteri invece del proprio. Molti libici fanno almeno due lavori per vivere, uno dei quali è quasi sempre statale dove gli stipendi sono congelati al 1981. Non ci sono case, ne servirebbero almeno 540,000 in più. 
Nel 2003 le sanzioni ONU vengono sospese. Tutti i benefici derivati finiscono a figli e parenti di Gheddafi che monopolizzano salute, edilizia, turismo ed energia. L’umore dell’opinione pubblica peggiora quando Wikileaks rivela come i Gheddafi’s attingano dal tesoro per cazzeggiare in alberghi a sette stelle con troie e champagne. 
Basta questo a scatenare una rivoluzione?
Direi di no, altrimenti in Italia staremmo a spararci dal ’92. 

Secondo i nostri i motivi della rivolta libica vanno cercati nel razzismo e nell’avidità. La Libia non è mai diventata uno stato moderno che fotografa gatti e litiga su Facebook. Oggi come cento anni fa è suddivisa in clan, dette “cabile”, che si scannano per la spartizione dei soldi provenienti dal petrolio. Non c’entra nulla l’Islam. Per quarant’anni tribù e famiglia di Gheddafi dominano le rivali, poi negli ultimi anni i rapporti s’imputtanano. A Bengasi, città che tradizionalmente lo detesta, il raiss nel 1996 reprime una rivolta causando 1200 morti e nel 2006 ne aggiunge altri 14. Un nome incarna tutte le cose che Gheddafi detesta, quello dell’avvocato Fethi Tàrbel, un attivista per i diritti umani che da anni chiede un risarcimento per le famiglie delle vittime delle stragi. 


Gli rispondono di fare moderata attività fisica e bere molta acqua.



Come inizia? 

Il 15 febbraio l’avvocato Tarbel viene arrestato con una scusa qualunque, tipo che ha rubato un Mars in tabaccheria. I bengasini s’incazzano ed esaltati da quello che sta succedendo in Egitto si presentano al commissariato chiedendone la liberazione. La polizia risponde qualcosa tipo “il più grande è Allah, di Dio ce n’è uno/Tàrbel sta qua, voi andate affanculo”. Quelli fanno un sit-in fino a tarda notte, poi finisce in scazzottata come tutte le serate interculturali. 
Il 17 febbraio visto che l’altra volta si sono tanto divertiti decidono di replicare, ma questo giro si presentano armati di Kalashnikov, RPG e granate: aprono il fuoco contro la Guardia Presidenziale e crepano in sessanta. La Libia cessa di esistere in quel momento.

Dove hanno preso le armi? 

Le hanno grattate. Molti reparti dell’esercito appartengono alla stessa cabila dei ribelli o sono gli stessi militari che cambiano bandiera. Gheddafi, tuttavia, è un ottimo stratega, conosce bene il proprio paese ed i suoi uomini. Sa che l’esercito è inaffidabile, così in questi anni l’ha addestrato male apposta per ridere. Gli lascia dei rottami, non li addestra e lascia proliferare corruzione e assenteismo. Sa che in caso di problemi ci sarà la sua guardia presidenziale, un’élite di fedelissimi a cui nel 2008 ha regalato 5 milioni di euro tra fucili e pistole dal Belgio. I primi scontri sono perlopiù soldati che accoppano soldati e straccioni che partecipano con entusiasmo perché “ce sta da fà m’po’ de casino”. Poi sai come vanno queste cose, l’entusiasmo si propaga, un drink tira l’altro, a volte tua figlia torna dalla Spagna incinta, a volte in Libia scoppia la guerra civile.

La guerra 

Il 20 febbraio è ormai chiaro al mondo che non si tratta di un matrimonio troppo vivace. Fonti esterne parlano di un centinaio di morti, altre di diecimila. Saif al Islam, il figlio più scemo di Gheddafi, dice in TV che verranno fatte delle riforme importanti per il paese. La gente lo ignora. Quando anche a Tripoli iniziano a scoppiare focolai di rivolta il variopinto raiss in persona fa un discorso breve e conciso: “Potete manifestare dove volete, tranne che nelle strade e nelle piazze o vi ammazzo tutti”. A quel punto il mix di disertori, voltagabbana e ribelli danno fuoco alla sede della TV cantando “ma che ce fregaaa, ma che ce ‘mportaaaa” e dal 21 febbraio i caccia libici iniziano a bombardare le scettiche piazze trasformandole in un’enorme grigliata mista. Il bilancio dei morti sale. Due aerei disertano e, armati di tutto punto, invadono lo spazio aereo di Malta atterrando e chiedendo asilo politico. 
L’ONU si riunisce per far due chiacchiere sull’argomento mentre in Libia si sparano pure tra salotto e tinello. 
Il 24 febbraio Tripoli è assediata su due fronti, ma proprio quando sembra che il casino si concluderà per l’ora dello spritz Gheddafi riesce a reclutare un gruppo di mercenari, detti “dogs of war”. Sono un misto di miliziani del Ciad, ex berretti rossi di Milosevic e qualche scarto della Legione Straniera. Gente abituata a saccheggiare, uccidere, stuprare, rubare e distruggere. Pigliano 30.000$ per ogni giorno di battaglia e 10.000-12.000$ per ogni ribelle ucciso. Hanno a disposizione arsenali di prim’ordine come aerei, carri, batterie missilistiche e antiaeree, artiglieria pesante. 
In una settimana dei ribelli rimane un po’ di marmellata.
Gheddafi si fa vedere in TV dicendo che la Libia è perfettamente calma e promette un bagno di sangue se un solo occidentale metterà piede in Libia. Gli aerei continuano a bombardare i nostri amati straccioni, decimandoli. Si fa largo la possibilità che i ribelli non ce la facciano. L’occidente capisce che a parte fargli le multine e togliergli l’amicizia da facebook bisogna sporcarsi le mani. Comincia a lavorare per l’istituzione di una no-fly zone, che di fatto interromperebbe i bombardamenti sui civili. 

Cos’è una no fly zone? 

E’ un ombrello. Prendo la cartina, ci faccio un cerchio, tutto attorno sistemo batterie antiaeree, fregate o portaerei e ti dico che se voli qui dentro ti raccolgono col cucchiaino. Funziona? Dipende. Buona parte della guerra oggi è basata sul bluff. Con la Libia che ha schierati dalla sua parte Russia e Cina non è il caso di mettersi ad abbattergli quei cessi con cui volano. L’obiettivo è farglielo credere. Quelli si avvicinano e testano le difese, ci provano ma poi scappano, via così. Questo giocondo “un due tre stella” a base di missili dovrebbe distrarli dal bombardare i ribelli che da soli al massimo gli tiravano sassi usando i preservativi come fionda. 
Il 28 febbraio il Pentagono riposiziona parte della propria flotta al largo delle acque territoriali libiche. Sono lenti e i ribelli non si stanno divertendo. I francesi (dichiareranno solo dopo) paracadutano al largo di Misurata acqua, viveri e 36 tonnellate di armi e munizioni.

Servono a poco, da sole.

E noi che facciamo? 

Noi? Per ora niente, smacchiamo coccinelle con aria distratta e quando nessuno ci vede recuperiamo i nostri connazionali sul suolo libico, sennò poi arrivano i peggio rincoglioniti tipo Gino Strada a dire che bisognerebbe lasciar fare Gheddafi perché la guerra è sempre brutta. Siamo tutti consapevoli che un mondo senza armi è possibile, che il dialogo, la tolleranza ed il rispetto reciproco sono la sola cosa giusta da fare e che noi italiani non siamo assolutamente portati per fare operazioni di infiltrazione, sabotaggio ed assassinio in territorio straniero. Siamo portatori di pace.

Davvero?

Sì. Pace eterna. Gli mandiamo le nostre forze speciali.
L’articolo per L’Espresso inizia da qui.
Incursore del COMSUBIN dopo 72 ore di scontri a fuoco
ininterrotti a Bala Murghab, Afghanistan, agosto 2010
Nicolai Lilin dopo un servizio fotografico per Vanity Fair.