E’ il 1970, in Giappone. Nelle radio c’è quasi solo funk. Le notti sono a base di droghe psichedeliche, erba buona, pantaloni a zampa, minigonne e l’AIDS è sconosciuto. Le feste sono prive di iPhone con cui twittare e la gente è costretta a giocare con questo. Le camicie hanno colletti imbarazzanti. I primi effetti speciali nei film di arti marziali infoiano il pubblico che tenta di volare o spaccare muri a pugni, morendo in maniera divertente. I reggiseni sono a punta. Per strada girano utilitarie. Nelle cucine ci sono i primi elettrodomestici.
Nel piazzale esterno del palazzo della Difesa è un giorno come un altro. Circa ottocento soldati vanno e vengono dagli uffici. Alle 12.22 del 24 novembre 1970, nell’aria risuona un urlo.
«ASCOLTATEMI!»
Alcuni militari si fermano, guardandosi attorno.
«SONO QUI A PARLARVI A RISCHIO DELLA MIA STESSA VITA!»
Altri soldati imitano i primi. Oramai ufficiali, sottoufficiali e passanti sono quasi tutti fermi in cerca del misterioso oratore. Qualcuno indica il terrazzo del secondo piano. Tutti alzano la testa. Dalla balaustra si srotolano dei lenzuoli con incisi ideogrammi, poi appare un uomo con la fascia da kamikaze sulla testa.
«VOI SIETE SAMURAI, NON E’ VERO?!» tuona l’uomo.
Un giornalista che in un bar abbatte tavolini e camerieri per afferrare un telefono.
«SE SIETE SAMURAI, PERCHE’ PROTEGGETE QUELLA COSTITUZIONE CHE NEGA LA VOSTRA STESSA ESISTENZA? RISPONDETE!»
Il rullo tribale degli elicotteri inizia a martellare il cielo. Una ventina di furgoni della stampa inchiodano nel piazzale, da cui sciamano frotte di cronisti facendosi largo tra i soldati. Le agenzie stampa di tutto il pianeta vengono allertate.
«CHI DI VOI QUI OSEREBBE SFIDARMI A DUELLO?!» grida l’uomo dal balcone.
Altrove.
L’Imperatore del Giappone sta bevendo il tè osservando il giardino colorarsi d’autunno. A rispettosa distanza c’è Haichi Tamacoguro, capo della sicurezza. Un servitore arriva trafelato e gli sussurra qualcosa all’orecchio. Haichi chiude gli occhi e fa un respiro profondo, poi fa cenno di andare. Il servo fa un inchino e si dilegua.
«Qualcosa ti turba, Haichi?» chiede l’Imperatore di spalle.
«Nulla d’importante, maestà»
Il sovrano si volta: «Perché menti?»
Haichi non aggiunge altro. Tiene il capo basso. Fuori, la canna di bambù della fontana zen tocca la pietra con un sordo e caldo TUC, che riecheggia nella quiete del giardino. L’Imperatore torna a guardare l’esterno. Una foglia si stacca dal ciliegio e si poggia lieve sullo specchio d’acqua.
«Kimitake?»
«Sì» annuisce Haichi.
TUC
«Cos’ha combinato di così grav
«E’ asserragliato nel quartier generale della Difesa e urla alle telecamere del mondo che voi siete Dio»
TUC
«Come sa
«Con una katana»
TUC
«Non capi
«E quattro palestrati»
TUC
«C
«Sodomiti»
TUC
«Mi sono pisciato addosso di nuovo» annuncia l’Imperatore.
«E’ perché siete Dio» annuisce Haichi.
Kimitake Hiraoka nasce nel distretto di Yotsuya nel 1925. Viene allevato dal nonno, il quale è vagamente imparentato col cugino del fratello dello zio dell’amante del cane dello stalliere che lavora vicino a una famiglia nobile. Per insegnare al nipote come si comporta un vero aristocratico il nonno opta per “pugni in faccia, dita nel culo e femminizzazione coatta”, un metodo infallibile per allevare la crema della società. Gli impedisce di uscire alla luce del sole, di socializzare con la plebe o di fare qualunque tipo di sport. Kimitake quindi passa la maggior parte della sua infanzia asserragliato in casa con le cuginette e le loro bambole di porcellana. Gli storici sostengono sia qui che ha elaborato la sua attrazione per la morte, e io non mi sento di biasimarlo.
A 12 anni fa ritorno dalla sua famiglia d’origine, dove i pugni in bocca hanno il sapore di casa. Il padre è uno di quei fanatici di disciplina militare che non ha mai fatto il militare, ossia i peggio subdotati di Forza Nuova. Papino adora insegnare il coraggio a Kimitake tenendolo vicino ai binari quando passa un treno, facendo irruzione nella sua stanza in cerca di letteratura “effemminata” e incendiandogli i manoscritti perché scrivere è una cosa gay.
Di nuovo, come biasimarlo?
Kimitake ha talento nella scrittura. La sua giornata media consiste nel farsi riempire di botte dai professori, farsi riempire di botte dai compagni di classe, tornare a casa e farsi riempire di botte dal padre, fare i compiti in fretta per non mancare l’aria calda dell’interregionale Okinawa-Tokio, tornare a casa per il serale raptus piromane di papà che incendia tutto giacché ha intravisto un ideogramma presumibilmente effemminato, andare a letto per ascoltare i mugolii di papi che tromba la faccia di mami dietro la parete di carta con le foglioline dipinte, tornare a scuola spiegando che papi ha dato fuoco ai compiti, non essere creduto e ripetere dall’inizio.
Possiamo quindi facilmente comprendere il suo bisogno di evasione. Il piccolo pungiball scrive le sue prime storie a 12 anni. Viene pubblicato sotto pseudonimo perché a quanto pare tutto il Giappone adora scrociarlo di sberle, per non parlare dei controllori dei treni. Diventa famoso come Yukio Mishima. Sebbene papi gli proibisca di scrivere lui continua in segreto, e ce la fa. Uomini intelligenti dall’infanzia traumatica possono creare cose bellissime; Kimitake pubblica libri che vengono tradotti in tutto il mondo, scrive e dirige film, viene nominato a tre premi Nobel e diventa l’autore più riconosciuto del Giappone.
Io però ho più like di lui.
Anzi, no.
“Tanto non contano niente”
Si sposa e fa due figli. Si definisce “fervente anticomunista” ed entra nel mondo del culturismo, cosa che alla moglie piace, e frequenta gay bar, cosa che alla moglie piace assai meno. Alle proteste di lei Kimitake spiega di voler far parte di un disegno più grande. Lei domanda in che senso, lui risponde “spada e onore”.
«Ti cola della roba bianca dal culo, Kimitake»
«E’ onore»
Nelle interviste inizia a farneticare di valori seicenteschi con maggiore frequenza. Spade, muscoli, onore, samurai e codice cavalleresco fanno un effettone nei libri e nei film; purtroppo siamo nel 1970 e davanti a un F-4 in bombardamento a tappeto questi valori durano il tempo di dire
Sguainiamo le spà
…poi ti raccolgono con l’aspirapolvere. Questo però non ferma la fervida immaginazione di Kimitake, anzi. Nelle interviste dichiara
«Per me è ovvio trovare ripugnante un uomo che vive solo per sé stesso. Chiamatelo fastidio di vivere. L’essere umano non è abbastanza forte per vivere e morire senza scopo»
Per questo ha sposato una donna e fatto due figli, direbbe qualcuno. No. Farsi svegliare alle due di mattina da un putto che urla uso sirena antiaerea perché gli è partito l’airbag e c’ha il pannolino ridotto come le paludi di Mordor non è epico. Guardare metà stipendio in omogeneizzati ridotti a merda in sette minuti netti non è epico. Prendere in braccio un tubo digerente che per ricompensa ti rutta nell’orecchio e ti piscia sul petto non è epico. Tua figlia che si sposa col vestito “Midnight in Budapest” non è epico. Tuo figlio che molla l’università per il rap no, non è epico.
«L’uomo ha bisogno di un ideale, o si annoia in fretta all’idea di vivere. Ecco perché nasce il bisogno di morire per qualcosa. Ci serve una “grande causa” di cui parlavano gli uomini di una volta. Morire per una causa è considerato il più glorioso, eroico e bel modo di morire. Il fatto è che non ci sono più “grandi cause”, oggi»
O meglio, nessuna che implichi venerare ragazzini muscolosi e sudati. Certo bastava dare una katana a Balotelli e il gioco era fatto, ma Kimitake decide di risolvere il problema alla giapponese: fonda la “società dello scudo”, una setta di squinternati dove puoi entrare solo se hai un bicipite accettabile, l’ano a doppio senso di circolazione e vorresti tanto vivere 1000 anni fa. Qui, tra una sessione di squat su palo di carne e drammatiche simbologia falliche, Kimitake dice le solite stronzate di tutte le sette.
«Il Giappone ha tradito la sua anima. Il governo non è altro che un manipolo di vecchi coglioni corrotti»
«Sì, maestro!»
«Sarebbe fichissimo tornare a quando si viveva meglio, a contatto con la natura, dove orgoglio, onore e onestà erano di moda»
«Sì! Quando le donne abortivano a pugni!»
«Quando avevamo case di amianto!»
«Quando mangiavamo topi!»
«Quando crepavamo per un’infezione a dieci anni!»
«Quando le famiglie si sterminavano per uno sguardo sbagliato!»
«Si! VAFFANCULO GLI OSPEDALI! VAFFANCULO I TELEFONI E LA CARTA STAMPATA!»
«VAFFANCULO I SOLDI!»
«VAFFANCULO LA KASTA!»
Kimitake annuisce compiaciuto, poi fa cenno di calmarsi: «In Giappone oggi conta solo il denaro. Siamo diventati schiavi delle potenze estere, burattini nelle mani di USA/Bildenberg/Merkel/Monti/Bush/Berlusconi… insomma, tutti tranne me»
«Giusto!»
«Vero!»
«Per rimettere il Giappone a posto bisogna tornare indietro! Una decrescita felice, restituendo il paese alle sue tradizioni. Per questo noi siamo la società dello scudo. Noi e solo noi possiamo difendere il candidato che il popolo vuole, ossia…»
Silenzio.
Kimitake cerca risposte negli occhi dei discepoli.
«…Lei, maestro?» osa uno.
«Ohoho, no. Ti ringrazio ma no, io sono un semplice portavoce. Mi piaci, però. Stasera t’inculo»
Pacche sulle spalle, strette di mano.
«E chi allora? Rodotà?»
«Fuochino»
«Byoblu?»
«No»
«Marta Grande, la giovane italiana col sorriso da Monna Lisa che ammalia e strega…
«NO!» tuona Kimitake «L’IMPERATORE DEL GIAPPONE DEVE TORNARE A ESSERE DIO! E’ questo che vuole il popolo, è questo ciò di cui ha bisogno»
Gli alunni osservano i propri piedi. Calciano sassetti, puliscono macchiette invisibili.
«Bè, con Rodotà comunque…»
«Ma infatti, aveva preso 4.677 voti, in Giappone quanti siamo?»
«104 milioni»
Kimitake emette proclami di fedeltà assoluta e si dichiara disposto a gettare il sangue per l’Imperatore. Solo che nel 1970 l’Imperatore non ha nessun potere decisionale, appare solo per gli auguri di capodanno e viene considerato dai giapponesi con affettuoso fottesegare. E’ come se domani Fini (lo scrittore) giurasse di difendere con la propria vita Sofia Loren, poi si facesse ritrarre nelle copertine dei suoi libri così
E all’interno, con parole di fuoco, incitasse gli italiani a ribellarsi contro Cinecittà usando solo sciabole perché d’ora in poi i film dovranno essere recitati tutti da lei o dai suoi familiari.
L’Imperatore si chiude in un imbarazzato no comment. Poi passa a “lasciatemi solo con la mia prostata”. E’ a questo punto che accade l’irreparabile. A 45 anni Kimitake raduna quattro suoi fedelissimi amanti, invade il palazzo della Difesa impugnando spadine, prende in ostaggio un console, si barrica nel suo ufficio, esce dalla finestra e incita la folla alla rivolta in mondovisione. Ossia parla da otto metri di distanza con tono imperioso e colloquiale sopra ottocento soldati che urlano insulti. Al termine si gira verso il suo amante, dichiara “credo non mi abbiano neanche sentito” e torna dentro per suicidarsi.
E’ il tipo di batterista che non vorresti mai avere in gruppo, Kimitake.
Fa seppuku. Questo. Si infilza la pancia, se la apre e aspetta uno dei suoi più fidati amanti lo decapiti. Il problema è che decapitare un essere umano è dura. Se hai una ghigliottina che pesa 60 chili e ti crolla sul collo da cinque metri d’altezza stai sereno, ma perché una persona possa fare un taglio netto sono necessarie forza e controllo assoluti. Il collo ha vertebre, muscoli, cartilagini. Se io dovessi suicidarmi mi schianterei di rum e bamba, farei entrare due ventitroienni con la quinta e mi farei cavalcare cazzo e faccia fino al soffocamento. Kimitake invece opta per affondare la faccia nelle proprie interiora mentre il suo fidato samurai lo ravana di spadate mugugnando “ops”, “scusa”, “ora riprovo”, “petta”.
E’ proprio vero che non ci sono più gli uomini di una volta.