Siamo un popolo così malato di vintage che per stare alla moda dopo le scarpe, la musica e i pantaloni abbiamo riportato anche i consumi ai tempi del 1990. Quel periodo è stato il mio Vietnam. Lo è stato per molti, troppi di noi che si sono assuefatti alla guerra aliena e oggi compilano tabelle Excel in cubicoli 2×2 con una capa dal culo stretto che s’è dopata di Sex and the city. Quelli che fanno le pagine sfigonostalgiche “noi, che mangiavamo il tegolino”, sono quelli che oggi passano la vita a mangiare pane e merda.
E devono morire.
I videogiochi per noi sono stati palestre di vita, templi del sapere, alfabeto e genitori. Abbiamo imparato tutto da loro, non certo dall’ex hippie reinventatosi professore che blaterava numeri, cifre, nomi, posti come un registratore.
La nostra educazione sessuale erano giochini demmerda che se riuscivi a chiudere le linee appariva una donna nuda pixelata. Chun li quando faceva la spaccata ci ha spiegato tutto quello che c’era da sapere sul sesso anale. Mortal kombat ci ha eruditi sul fatto che non importa quanto le hai fatto male durante il rapporto, alla fine sei figo solo se mentre vieni urli “finish her”. Poi vuoi mettere? Asteroids: punta sempre quelli più grossi di te e avrai soddisfazioni. Attacca i piccoli solo se ti puntano e comunque non ti sentirai granché. Super Mario Bros: devi costantemente star dietro alle bionde perché sono stupide e te le rubano tutti. Sonic: la metanfetamina è bella e fa bene. Tekken: più fanno capriole e coreografie, più sono delle seghe.
Noi dobbiamo tutto a Space Invaders, un gioco che dietro di sé ha più filosofia di quanto Hegel potrà mai concepire. Sei solo davanti a tanti. Se non li freghi sul tempo, prima che arrivino a toccare te e la tua missione, morirai o diventerai uno di loro. Le tue difese mentali e morali si logorano e hai ben poco spazio di manovra. Ogni tanto, lassù nel cielo, passa una fica che ti distrae. Riuscire a centrarla è quasi impossibile, preso come sei a sterminare ottusi ebefrenici che tentano di frantumarti le palle. A volte, se sei disfattista, negativo o imbranato, sarai tu stesso a distruggere le tue barriere. A infangare ideali e passioni che avevi in partenza.
Space Invaders è un trattato di filosofia, non un videogioco.
Ma se sei uno di quei diecimila alieni che avanzavano compatti, o uno che si è arreso, mi detesti. Tenti di rendere tutto uguale al tuo modo di vedere la vita. Inscatoli. Schematizzi. Dai una definizione anche a qualcosa di unico perché così lo sbattezzi, gli togli anima e credibilità. Un leone in gabbia non fa più paura. Mettiamo i resti dei nostri antenati nei musei e i cimiteri distanti perché smettano di farci sentire a disagio.
Perché se sei un alieno, un mediocre o uno sconfitto, l’idea che siano passati ti fa sentire bene.
I musei per videogiochi sono la stessa cosa. Significa inscatolare sensazioni selvagge ed ancestrali che provavamo quand’eravamo ragazzini. Quando la fica non ci aveva tolto ogni raziocinio, quando invece di elemosinare bucchini come piccoli fiammiferai esibivamo con orgoglio il nostro nome nelle topten, venivamo sponsorizzati dagli altri con dei gettoni per finire gli schemi. Quando eravamo piccoli uomini capaci di sconfiggere invasioni aliene, bande di assassini, barrette tenniste, zombie pixelati, sconfiggevamo qualcosa perché nella testa, nel cuore, eravamo capaci di farlo.
E alcuni di noi, pochi, lo sono ancora.
Mettere videogiochi nei musei significa venerare il passato e smettere di combattere per il presente o il futuro. Vedere Space invaders in una maglietta o dietro una teca è un messaggio molto chiaro: “ogni resistenza è vana, ogni cosa è passata”. I suoni digitali a 8 bit nell’iphone, film consolatori sfigodinamici come Scott Pilgrim, la costante venerazione per i videogiochi passati non sono altro che un tentativo di etichettare, bollare e rendere inoffensivo lo spirito selvaggio, libero e umano che avevamo nel cuore allora, quando se t’impegnavi e restavi concentrato vincevi.
Mettere vasi e ciarpame vario nei musei ha senso se li hai persi. Ma se hai ancora una vita e una barretta di energia non metti i videogiochi nei musei, li tieni nelle sale giochi più malfamate della città dove l’ultimo nerd avrà la possibilità di riscattarsi agli occhi della tribù.