Fuck yeah, Ikea

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Domenica mattina. Tempo di dormire e scopare e dormire e
«Dobbiamo comprare le cornici per la casa! Fare il gallery wall! Arte! Design!» grida la mia soave compagna, poi mi spara il caffè in faccia, sporge dalla finestra il cane, ne spreme il contenuto sulle strade sottostanti e possiamo partire per l’Ikea.

Parcheggio tra un SUV con la targa tedesca e una Porsche con targa spagnola. Prendo il carrello e avanzo tra falangi di gente mai vista per strada. È come se un’occulta organizzazione terroristica allevasse queste creature e poi, all’alba, le riversasse qui. All’improvviso realizzo che l’organizzazione potrebbe essere la figa.

«OH AMORE GUARDA» dice una voce maschile alle mie spalle.
Mi giro.

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Il tizio muore sull’asfalto nell’indifferenza generale. Le porte a vetri si spalancano con uno sbalzo termico di 59°. Un’allegra armonica suona un motivetto dagli altoparlanti. Il lampadario Splokkenbeurk di carta igienica a 22 euro e 49 centesimi! Mi precede una famiglia di bomboloni. Lui con la faccia che poi vedi sul Gazzettino sotto il titolo “uccide la moglie e fugge in Moldavia”, lei una medusa di stracci neri e stivaletti modello Joe Tempest con tacchi rinforzati titanio, preceduti da due palle di lardo alte mezzo metro che producono più rumore dell’intera industria siderurgica.

«MAMA GWARDAMI!» barrisce un botolo, poi galoppa verso un letto matrimoniale, inciampa nel tappeto di fintomontone e plana su una poltrona distruggendo lampada, tavolino, cornici, lampadari. A manina, un putto alto sessanta centimetri ulula come una sirena antiaerea. Una ragazza zompetta in una cucina di 4mq:

«Marika, tocco i due lati! Fammi una foto!»

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Una vecchia di età presocratica tenta di sedersi su un divano ecopelle e piazza una brena tale da costringere lo staff a rendere inagibile il reparto. Una coppia di gay limona in centro corsia da quarantadue minuti, guardandosi attorno nella speranza qualcuno si scandalizzi o dica qualcosa di omofobo. Una sessantenne sciabatta dentro tacchi 12 di tre numeri più grandi lanciando occhiate maliziose. L’armonica suona felice. Sono all’inferno.

«Ti piace quella camera?» domanda la mia donna.

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Sì. È meravigliosa. La voglio. Voglio le lampade da prendere a testate tutte le mattine quando mi alzo e gli spigoli dei comodini altezza gengive quando mi giro. Voglio i deliziosi cavi in bella vista. Voglio il letto pro-ana in truciolato che se pesi più di un bambino del Botswana cede. Voglio i lampadari di carta a ricordarmi che di solido, nella vita, non ho nemmeno la luce. Voglio copriletti bianchi, tappeti bianchi, cuscini bianchi, tende bianche, vasi bianchi, affinché appena torno da un lavoro precario io abbia la gradevole sensazione di precipitare nel vuoto. Solo quando mi assalirà l’horror vacui potrò guardare le ragnatele e scoprire che in realtà dormo in uno sgabuzzino.

«Hai di meglio da proporre?» domanda la guardiana dell’utero.
Mostro la foto nel cellulare.

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«Sì vabbè, ciao nonno» sospira, tirando dritto.
«Una camera così ci costerebbe un terzo.»
«Tappeto zebrato incluso?»
«Ma perché voi donne vi fissate sulle puttanate?! Sto dicendo ch
Eccoci nella sezione salotti.

«Casa nostra sarà bianca con dettagli neri e rossi» dice una trentenne con la faccia da gangbanger, passandomi di fianco. Mi domando quale mente malata possa arredare casa ispirandosi alla sbarra di un passaggio a livello, ma subito
«A me piace uno stile molto particolare, sai» dice un’altra in felpa Gucci.
«Che tipo?» domanda il marito.
«Eh… Ho un sacco di idee, ho un dono per l’interior design» fa lei.
«Sìsìsì, figurati se penso tu sia una di quelle che vedono due foto su Facebook coi mobili di vernice scrostata e i fiorellini, leggono shabby chic e si credono arredatrici d’interni!»
«Ha ha ha» ride lei.
«AAAAAAHAHAHAHA MAGARI I MOBILI FATTI COI BANCALI DEL CAZZO HAHA HAHAHAA E LE GABBIETTE DEGLI UCCELLINI AAAAHAHAOHOHO QUALE TROIA DEMENTE POTREBBE MAI VOL
Lei gli spacca un vaso in testa.

Al bar vedo un’altra coppia. Lei tirata come fosse al matrimonio della sorella, lui pantaloni della tuta e scarpe collezione Prophughy 2003. Doppio passeggino coi loro trofei da scopata, uno s’è cacato addosso, l’altro vuole il saccottino. Ta ta tararà, tararà ta, canta l’armonica. Intere tribù in processione sono accorse per esprimere un parere su un salotto che, montato a Milano, crolla alla prima scossa di terremoto in Basilicata.

«Su questo non puoi dire niente» dice la mia consorte.

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Ma infatti.

Immagino la delizia di stare disteso lì, tremando a ogni scricchiolio del divano col terrore gli scaffaletti soprastanti crollino uccidendomi. La lettera Z in acciaio, lassù, vigile, pronta a conficcarsi su chiunque osi ruttare troppo forte. La lampada di plastica col cavo che pesa più di lei e come tenti di accenderla ti arriva in faccia. In questo salottino si respira l’epica del quarantenne felpa&canna che dai bastioni del suo castello respinge l’assalto delle responsabilità.

«Dai, proponi, invece di fare il disfattista» incrocia le braccia la suggitrice.

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«Oh, tesoro, ma certo» mi abbraccia «poi quando tornerai dai campi i nipotini ti chiederanno di raccontare la guerra di Albania.»
«E allora viviamo nella rete delle palline del McDonald.»
«No, meglio nel delirio di un vecchio latifondista del 1800.»
Ta ta tararà, tararà ta.

Su una scrivania, un uomo della mia età è a pecorina mentre un commesso gli stantuffa nel culo un martello pneumatico con la punta a pugno. La moglie gli accarezza la testa e lo tranquillizza: stanno acquistando il sublime divano BUDDAK, millesettecento euro per plastica, truciolato e pregiato acetato cinese. Terminato il pagamento ci si siedono sopra e il Buddak si rompe in tre pezzi, ma per quel breve istante hanno assaggiato il paradiso. Un ragazzo prende un deodorante per ambienti, lo esamina con attenzione, estrae un accendino.

«Voglio vedere se è davvero infiammabile» dice, poi si immola.

Siamo qui dentro da due ore. Ormai ho raggiunto una sorta di torpore atarassico, niente m’importa, ho solo fame e voglia di andarmene. Usciamo nel parcheggio con due tappetini per il bagno, canovacci e stracci, attaccapanni, una bottiglia, un set di bicchieri.
E nessuna cornice.

 

Torneremo domenica prossima.