Del salone del mobile, dei miei cambiamenti e del futuro dell’editoria italiana



Siccome per la mia vita il 2012 è stato l’equivalente della raffica di mitragliatori nel finale de L’ultimo samurai mi sono trovato a decidere che fare di me. O rimango a Mestre e trovo un qualsiasi lavoro in grado di farmi sbarcare il lunario oppure vendo casa ed emigro tentando di entrare in un mondo dell’editoria al collasso che taglia, licenzia e non paga. 


La prima è il giovane contadino che ara l’orto. La seconda è un imbecille che risale sulla Costa Concordia sgomitando tra profughi e cadaveri mentre urla agli elicotteri “fatemi passare, a bordo di sicuro si è liberato un posto da cameriere”. E’ un uomo che si mette il preservativo dopo essersi fatto un doppio aidsburger nella darkroom gay. E’ un quarantenne eroinomane che smette di fumare. E’ Pistorius che mette la sicura.

«RRobe, io pensavo…» dico al telefono.

«Butta male»

«Metti che volessi trasferirmi, dove mi converrebbe andare?»

«Voi fa’ cinema?»

«In che senso?»

«Capito. Lascia perde Roma, vai a Milano»

«Ale, io pensavo…» dico al telefono.

«Oh Dio, no»

«Metti che volessi trasferirmi, dove mi converrebbe andare?»

«Vuoi fare cinema?»

«Continuate a chiedermelo, è per quel provino hard del 2006?

»

«Vieni qui, pirla»




Mi documento.
Nell’unica città dove ascoltano i Club Dogo ci sono degli eventi che richiamano milioni di persone e di giornalisti, nello specifico il Salone del mobile. Creo un profilo Twitter fasullo fingendomi un’azienda di mobili, contatto tutte le redazioni che mi interessano domandando chi c’è, dov’è e quand’è. Buona parte di loro risponde e in questo modo so chi ci va, quando ci va e che viso ha. Loro invece non sanno che faccia ho io, cosa che mi risparmia l’effetto stalker e rende credibile l’essere lì per caso. Il passo successivo è farsi accreditare da qualcuno. Chiamo tutte le mie vecchie testate domandando accrediti e ricevendo “STIAMO MORENDO OH DIO NEBO HAI UN POSTO IN FALEGNAMERIA TI PREGO AIUTO”.

Hmm.
Dovrò improvvisare.

L’ingresso giornaliero al salone del mobile costa 23 euro. Rido delle loro farneticazioni. Già la metro andata e ritorno costa 5 euro, mi sembra l’unica cifra accettabile calcolando che probabilmente i mobili esposti li ho fatti io nel 2002 a Gaggio di Marcon. Un lettore di Proeliator scopre da Twitter che vado al salone. Lui è veneto, è lì per lavoro, vuole conoscermi e forse mi procura un pass.

Ho un aggancio, ho le coordinate, ho chi mi ospita: è ora di comprare un biglietto del treno.






Arrivo alle 21, troppo tardi per lavorare ma l’orario giusto per cazzeggiare e ambientarmi. Vago per le strade in compagnia di Minoggi che barcolla perché è già oscenamente ubriaco alle 22 e per trovare la macchina deve usare il GPS. Mi guardo attorno entusiasta; in nessun posto ho mai visto tanti bersagli da poligono camminare liberamente. Tizi con i baffi arricciati, vestiti come rincoglioniti e dotati degli immancabili occhiali a montatura d’osso bevono e parlano di design, minimalismo, innovazione, Internet. Sembrano ignorare i torrenti di fica che li circondano. Tizie che hanno trasformato la loro lingua in sciarpe da cazzo deambulano indossando guardaroba che vanno dalla collezione LSD primavera estate alla versione triste di Tempi moderni. Culi, tette, occhiali d’osso. Gente in skateboard su una città che è per il 90% pavè. Ovunque risuonano gruppi indie rock. La vita freme. La telecamera si allontana da me ruotando e mi rendo conto che qui c’è quello che mi serve. Qui, in questa specie di Alice nel paese della droga, posso farcela.

Qui posso vendere spray colore bianco a graffittari esquimesi.





Il giorno dopo è una splendida giornata di merda. Il cielo plumbeo piscia una pioggerella triste che mescolata ai palazzoni aumenta la desolazione, ma io sono pieno di buoni propositi. Quando vedo l’albergo dove devo intrufolarmi noto che il meno elegante è in giacca e cravatta di Prada. Io sono in felpa, tshirt, pantaloni larghi e Timberland. Il mio talento nell’essere quello vestito sbagliato non mente mai. Finisco in mezzo a cinesi e mistress hostess tailleur e vagine ricostruite. Raggiungo il bar, il lettore mi vede, mi gira un pass e già che c’è mi presenta un imprenditore russo che pare la salma di Riccardo Schicchi gonfiata con la pompa da biciclette. Due chiacchiere in dialetto e lui torna a lavorare.


BEEP.
Entro nel salone aggratis.

Le persone presenti sono svariati milioni e si dividono in evasori fiscali, gente bionda che parla solo a dittonghi, escort da 8000 euro a botta, omosessuali d’assalto vestiti come Pulcinella e turisti. Vago per i padiglioni e osservo i mobili. Alcuni sono capolavori. Di stile non capisco un cazzo, ma di tecnica sì. Per uno che ha tagliato, piallato, inchiodato e verniciato il legno, questa roba è straordinaria. Mi innamoro di SHĀKE. Vorrei fotografare ma il tizio me lo impedisce riportandomi alla realtà. Cos’è che dovevo fare?

Sulla lista c’è 1) crearmi una rete di contatti 2) cambiare vita e 3) cambiare città. Meglio sbrigarsi o entro il pomeriggio non ce la faccio.
Secondo l’idea del salone dovrei presentarmi con un foglio stampato con invito e accredito stampa. Rido nuovamente delle loro farneticazioni. Arrivo al bancone giornalisti e affronto la receptionist con il tono del maresciallo che cazzia l’appuntato.

«Buongiorno, sono NEBO, vorrei il mio pass stampa»

«Certo, mi dà l’invito?»

Sgrano impercettibilmente gli occhi. Guardo la sua collega, riguardo lei.
«Signorina, pensavo che per me non servisse l’invito»

 

Panico.

«Ah. Ah, bè, f-forse c’è il suo nome nel database, può ripetermelo?»

«NEBO» rimarco, sconvolto da tanta incompetenza.


Ticcheti ticcheti ticcheti tic.

«N-non ci risulta…»

«”Non le risulta”» ripeto.

«Di che testata è?»

«Sono NEBO DI CASA IN FIORE, signorina…» dico, poi abbasso deliberatamente lo sguardo sul tesserino con il suo nome «Silvia»
L’orrore si dipinge sul volto della poverina. Sono effettivamente vestito più di merda di tutti, questo statisticamente mi rende il più spaccaculi in un mondo dove i designers indossano tonache da monaci, capelli fucsia, berretti da notte anni ’20 e altra roba imbarazzante. La collega le sgomita.

«Ohi, Silvia, direi che…»

«…sì. Sì, certo. Senta, facciamo così, lei mi compila cortesemente il modulo, firma e io la accredito, non c’è problema»

«Se bisogna» sbuffo.



E’ carina, la sala stampa.
Ci sono il caffè e la colazione gratis.

Buona parte dei giornalisti che mi servono non ci sono, così dopo essermi rifocillato ritorno a caccia. Cammino senza vedere niente di utile per quasi un’ora, finché l’occhio mi cade su una donna grassa con un tesserino rosso dello staff.




Per infiltrarsi nei posti davvero cool la donna grassa è perfetta. Funziona così: le PR gnocche servono solo a fare presenza, il lavoro sporco lo fa l’unica cessa che si deve guadagnare a morsi un posto che le miss 90-50-60 ottengono solo esistendo. La ricompensa delle donne grasse è zero. Le colleghe la trattano di merda, i fighi la schifano, i clienti la evitano, i datori di lavoro la sottopagano, ma è la chiave di volta di tutto ed è quella più debole del branco.
Con il pass stampa in bella vista sto a guardarmi attorno e le sorrido. Lei lo nota incredula e se ne va. Rimango lì fingendo di fotografare la folla. Lei ripassa guardinga, le regalo un altro sorrisone e un cenno del capo. Si ferma, confusa ed emozionata. Le vado incontro. Vieni a me, piccola balena spiaggiata sugli scogli della vita. Posso essere quello che lenisce il tuo dolore esistenziale. Posso essere il tuo futuro marito, il tuo amante, il padre dei tuoi figli. Posso essere quel giornalista che ti aiuterà ad uscire dall’inferno delle agenzie di comunicazione. Posso essere la scopata dopo anni di astinenza. Vieni, anima oppressa da lavoro e solitudine, da mottarelli e da abbonamenti in palestra mai rinnovati, da un letto troppo largo e freddo, da un blog lacrimoso e sarcastico sulla vita da single. Teniamoci compagnia. Riscaldiamo i nostri cuori al fuoco della passione e amiam

PASS FULL ACCESS!

Mi dirigo nei privée. Il buttafuori, un tipo color arancione dalle lampade, mi ferma dicendo che l’ingresso è riservato ai VIP. Mostro la tessera dei giornalisti, niente. Mostro il pass di stamattina, niente. Si intesisce. Non capitano molti giornalisti espositori. Gli passo quello della ciccionaBeep. Luce verde. Vedo che è tentato di domandarmi come faccio a essere un giornalista espositore VIP, ma gli dò una pacca sulla spalla dicendogli che lo perdono e che lui fa solo il suo lavoro. Si fa da parte.


E ta sboro, Zoidberg.


Il privée è carino. Champagne e tartine gratis, una giornalista del Fatto quotidiano stronza come la merda e un paio d’imprenditori che mi scambiano per non ho capito chi e salutano senza avvicinarsi.


Però la coreografia è carina.

Appurato che anche qui non c’è un cazzo da fare me ne vado indignato dalla mancanza di superalcolici. Riproverò domattina, ora è tempo di rilassarsi. Grazie alle chiavi gialle, blu e rosse di Doom il resto dei giorni li impiego in maniera più proficua. Alcuni contatti si riveleranno utili, altri meno, altri molto. Il resto del tempo lo passo a chiacchierare e sbronzarmi coi milanesi girando per il doposalone senza niente di rilevante da segnalare.

Ecco, sostanzialmente, come mai non ho postato in questi giorni.
Cambiare vita è un casino.