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Vieni a conoscere i miei genitori?

 
 
Entri e la casa ti riconosce subito come organismo estraneo. 
Ogni cosa attorno a te fa di tutto per metterti a disagio. Apri la porta e appare il cane, una bestia immonda dal nome imbarazzante col respiro catarroso, la lingua di fuori e gli occhi divergenti. Metti la giacca sull’appendino, un albero di veliero del 16° secolo che non regge e precipita sul mobiletto con le foto della nonna trapassata.
 
Rimetti a posto, avanzi nella tenebra.
L’illuminazione rende il corridoio un oscuro campo minato. 

Paura e disgusto a Trapani (2/3)

 

Il catamarano sfiora la superficie dell’acqua a quella velocità che ti sposta dalle fail compilation al tavolo dell’obitorio. Tra me e il mare c’è solo una rete di corda sfilacciata a cui sono aggrappato convulsamente. Schizzi d’acqua salata mi piombano addosso rendendo difficile respirare e vedere. Provo una sensazione di onnipotenza e libertà che non è descrivibile a parole, mentre cavalchiamo onde come fossero studentesse universitarie. Il mio istruttore diceva che gli inglesi sono i migliori marinai del mondo, ma vederli all’opera è uno spettacolo senza precedenti. Il completo, assoluto dominio dei due elementi è grandioso, umiliante ed esaltante.

«YOU’RE HEEEERE, THERE’S NOOOOTHING I FEEEL»
«Nebo, shut up!»
«AND I KNOOOW THAT MY HEART WILL GO OOOOOON AAAAAND»
«SHUT THE HELL UP!»

Il catamarano di Luna Rossa si avvicina a velocità spaventosa e non mi importa niente. Trapasserò come un eroe. Alzo le mani al cielo e comincio a cantare Titanic. Dal palco le telecamere inquadrano un catamarano inclinato su cui c’è un tizio con un sorriso folle che sbraita qualcosa mentre impatta sull’acqua a mezzo millimetro da Luna Rossa, quasi uccidendogli il timoniere e salutandolo felice. Sono io. Arriviamo così vicini che gli ho visto le corna, ci guardiamo con astio e io gli faccio ciao ciao con la manina, poi lo scafo tocca di nuovo l’acquaUn pezzo della scena lo trovate qui, pochi minuti prima del botto. Sono quello al centro in basso.

«Nebo, what the fuck» fa David, tirandomi un coppino.
«YOU SHOULDER SING WITH ME»

Il nostro catamarano riceva una penalizzazione per la manovra troppo azzardata. Alle nostre spalle Luna Rossa manda improperi in romanesco. Ci rimettiamo in posizione per la prossima virata, più potente della prima. La bora s’è alzata, tanto che il catamarano rischia di scuffiare. Questo giro devo correre da una parte all’altra e non ho tempo di tenere alto il morale con le mie qualità canore.

«Ok ladies, ready in three, two, one, and go»

Il gennaker si apre con uno schiocco che pare una frustata. Lo scafo reagisce istantaneamente, sobbalzando. Per un attimo siamo tutti e cinque per aria, e in quel secondo mi trovo a poppa che quasi volo fuoribordo. L’arabo stringe la cima, ci affianchiamo ad Alinghi con la vela che è già troppo tesa. Lui vira secco, obbligando Ben a rallentare. In teoria. Non è molto diverso dai sorpassi in autostrada, quando sei in corsia di sorpasso e vedi uno dietro un camion con la freccia.

«NON OSERAI» dico in italiano «NO STA NIANCA A PENSARGHE»
Ben osa.

Molla di nuovo il gennaker, la bora lo ingravida e derapiamo in virata, inclinandoci sempre più. Non accenna a rallentare. Alinghi vede la manovra e tenta di chiudere ancora più stretto, ma non può perché col vento a ventidue nodi rischia o di lascare la vela o di trasformarsi in un aquilone diretto verso la Libia. Ci infiliamo in mezzo con una tale brutalità che vi dico, secondo me la moglie di Alinghi dopo quella roba poteva darci del tu. Questo giro è nostro, rallentiamo serrando il gennaker e a bordo applaudono. Sono carico come uno sotto metanfetamine per il terzo round, ma un gommone si affianca e pretende che io torni a terra perché il vento è davvero troppo forte. A malincuore abbandono i ragazzi e torno sul molo, dove gli altri giornalisti mi guardano con un odio. La tipa dell’agenzia accorre preoccupata, ignoro tutti e mi dirigo al free bar per vedere come se la cava l’equipaggio. Entro col suono delle scarpe fradice che spruzzano acqua ad ogni passo. La maglietta è zuppa, così me la levo.

«MOJITO, PLIS» faccio al cameriere.
«Sir, it’s only two ‘o clock»
«I KNOW I’M ITALIAN WE HAVE CLOCKS»
«Yes, but…»
«DONT MAKE ME SING PO PO PO PO PO POOO»
«Oh God no, here» dice, mettendosi al lavoro.

Sgocciolo acqua salmastra tra gli sguardi inorriditi della security, le ragazze dello staff che ridono cercando di non farsi vedere e decido che sarebbe il caso di asciugarmi.

 

 

 

Esco, stendo maglietta e scarpe sul cornicione e rimango in pantaloncini ad aspettare si asciughino. Alinghi se l’è presa di brutto e fa un giro che non lo pigliava manco un siluro. Uno dei colleghi arriva con la morte in faccia.
«EFISIO» domando, terrorizzato «COME STA, EFISIO?»
«Nebo, non ci si comporta così. Se noi diciamo che non ce la sentiamo di andare anche tu non dovresti dirlo, perché così abbiamo fatto tutti la figura dei pirla. Se eravamo compatti quelli dell’agenzia magari ci facevano restare un giorno in più, adesso ci hai lasciati in mutande. Non siamo nemmeno riusciti a parlare col portavoce del sultano»
«My friend!» dice Danny Trejo delle televisioni «did you enjoy the ride?»
«SHIT YES»
«Do you want something to drink?»
«I ALREADY HAS IT»
«Come with me, then, my boss want to talk to you»

Ci sono battute che si possono fare. Altre che non si dovrebbero fare. Altre che rovinano tutto. Altre che garantiscono risse e morti orribili. E’ per questo che dalla mia bocca esce
«WHY? I DON’T WANT TO BE BEHEADED ON YOUTUBE»






























Il barista si gira. Le ragazze dello staff hanno occhi come gufi. Il giornalista al mio fianco smette di respirare. Quelli nella vip lounge sbiancano. I catamarani si scontrano nel silenzio absidale. Per un attimo Danny Trejo assume l’espressione docile e paciosa di Osama Bin Laden quando imbracciava un lanciagranate, poi ridacchia e mi fa cenno di seguirlo.

«Chi è il suo boss?» domando a denti stretti.
Il collega è sul verdino.
«Il portavoce del sultano»
«HERE I CAM!» dico al plantigrado.

«Nebo» fa il giornalista «così ci si fanno un sacco di nemici, questo non è giusto»
«QUESTO E’ MENSHEALTH!» rispondo, e con un calcio lo scaravento giù dal balcone.
No, non lo faccio.
Mi incammino e basta.

Passo davanti ai colleghi che se gli sguardi uccidessero starei bruciando all’inferno. Entro nella sala in bermuda con le scarpe che gocciolano dal collo. Dentro si respira un profumo di incenso misto limone. L’arabo che muove la baracca è quello piccino col sorriso facile. Vengo presentato dal cicciabomba che gli dice qualcosa in arabo, quello gli fa una domanda e il colosso gli risponde ridendo. A quel punto ride anche lui, ridono gli arabi che sono seduti sul tavolino a fianco, io mi guardo attorno cercando di vedere dov’è la telecamera. Mi siedo.

«So you’re the funny guy from Venice» esordisce «you don’t look like a journalist»
«ITS BECUASE AIM JUST AN EXPENDABLE IMBECILE»

Chiacchieriamo in inglese per un po’, vuole sapere per quale testata scrivo. Spiega che a lui e ai suoi sgherri piace un sacco il mio senso dell’umorismo, che in Oman ha un nome tutto particolare e ci fanno interi cabaret. Sospetto si chiami “1000 motivi per una jihad”, invece è tipo “il buffone di corte”. È proprio una corrente di umorismo che è fatto apposta per suscitare indignazione, offendere, scandalizzare, e i pochi che osano farlo sono strapagati e resi quasi intoccabili dalla protezione dei principi, che spesso li invitano a cena apposta per molestare gli ospiti. Il resto della giornata scorre senza niente da rilevare. In camera leggo che noi siamo arrivati secondi, ma ha vinto Alinghi perché le corna sono una grande motivazione. Doccia, qualche appunto, due minuti dopo sto russando.

Giorno 2, Trapani
Alle sette plano tra i tavoli della colazione a buffet. La voglia di lavorare dei camerieri ricorda i tempi del servizio civile, ma sticazzi. Finisco in fila dietro il tisico comunicatore che sul piatto ha muesli, tè e frutta. Lo sapevo, è gay. Efisio sembra ristabilito, siedo con lui e gli racconto tutto. Si parte. Arriviamo nella hall con le ragazze dello staff che ridono a vista. Sono fastidiosamente lucido. Prima che io possa rimediare a questo inconveniente scopro che mi hanno messo alle calcagna una tizia che ufficialmente è delle pierre, praticamente è il mio cane da guardia. Ovunque vado, lei va. Indossa quelle orripilanti scarpe da ginnastica anatomiche con le dita di fuori per cui la ribattezzo Bigfoot.

«SO WHERE ARE YOU FROM?»
«Essex»
«WHY DO YOU WEARING BONER KILLER SHOES?»
«Still drunk from yesterday?» domanda con un sorriso finto.
«PLIS DON’T BE MAD FOAR MY ANGLISH IT CAN’T BE WORST THAN LOOKING AT YOUR SHOES»
«You know everybody hates you, do ya?»
«A WOLF DOESNT CARING ABOUT OPINIONS OF SHIPS»
Chiude gli occhi con una smorfia: «Sheeps. Ships doesn’t have an opinion»
«HOW DO YOU KNOW THAT»
«Yes, yes, whatever, just try to avoid alcohol for today»

Mi passa vicino il sessantottino: «Oh, Nebo, indovina chi ha due pollici e oggi farà il quinto uomo? Se muà!»
A quanto pare il mio compito oggi sarà non fare un cazzo, fingere di guardare la corsa e liberarmi di Bigfoot. Medito il da farsi. Gironzolo per il porto osservando le attività di preparazione.
«OF WHO IS DIS CATAMARAN?» chiedo a Bigfoot.
«Try to read the sail, would you? L-U-N-A-R-O-S-S-A. It’s not that hard»
«IM ALWAYS HARD BABY»
«Oh, for God’s sake» dice, retrocedendo.

Arriva il mio equipaggio, tutti allegri salutano sbracciandosi e dicendo che ieri si sono divertiti un botto. Colgo l’occasione per fare qualche domanda. Cosa gli piace del mare, se hanno famiglia e come se la vivono, quanto conta nascere in Inghilterra, non ho ancora fatto in tempo a domandargli se preferiscono Sasha Grey a Roxy Raye che il sessantottino ripassa, smadonnando. Chiedo che è successo.

«Troppo vento, non fanno salire nessuno»
«GUYZ, MAY I COME WITH YOU?» chiedo a Ben.
«Too much wind, Nebo» scuote la testa.
«I DONT FEAR DEATH, I FEAR DIS WOMAN» dico indicando Bigfoot che diventa paonazza.
Saluto lei e i miei colleghi dal catamarano che si stacca dal porto.
Loro non ricambiano.
[continua]

Paura e disgusto a Trapani (3/3)

«GUYS» ululo «GUYS, SERIOUSLY, I HAVE A GIRLFRIEND TO COME BACK»
«How old is she?»
«21»

Vedo l’onda arrivare a dritta. Ben vira, prendendola al giardinetto.
Il vento ulula sparando getti d’acqua che fanno un casino della madonna.

«How long have you been together?»
«TRE YEARS»
«So marry her!»
«ARE YOU ALL MARRIED»
«Two years, one kid»
«Three years, two kids»
«Lads, focus» dice Ben.

Siamo quasi alla partenza. Butta male, il vento è pressoché ingestibile. Non ci vedo quasi più.

«I WILL SURVIVE» grido, e l’impossibile accade. Forse perché son tutti della mia età, forse perché sono inglesi, forse perché sono dei cazzoni come me, ma David Carr risponde.
«Oh and as long as I know how to love I know I stay aliiiiive»

Gli altri ridono e proseguono. La seconda onda è più piccola, ma lunga. C’impenniamo il giusto perché la vela si sposti, David tira la cima e rimaniamo in rotta. Siamo alla stessa velocità di ieri, solo che nessuno ha ancora toccato il gennaker. Arriviamo alla linea di partenza cantando a squarciagola Gloria Gaynor con l’arabo che non la sa ma la canticchia divertito, poi voliamo per aria. Resto attaccato al catamarano solo con le mani tra la rete e crollo giù, battendo la testa contro il boma. Una valanga d’acqua mi schiaccia contro il telaio. Taci che ho il casco. Gli altri catamarani decollano sotto un cielo grigio diretti verso il massacro. Quelli dell’Oman sail (colleghi ma rivali) scattano in avanti, seguiti a ruota da Luna Rossa. Alinghi ci guarda con astio mentre stiamo fianco a fianco. Percorriamo duecento metri senza che Ben abbia i suoi soliti guizzi geniali. Capisco perché non appena Oman sail arriva alla boa. Il vento solleva il catamarano, conficcando la punta in acqua e tenendo tutto il resto per aria. Li sorpassiamo mentre cercano di riprendere velocità, Ben vira e ci troviamo in seconda posizione come per magia.

Luna rossa apre il gennaker calcolando male il vento. Vengono scaraventati via da una forza invisibile facendo la stessa fine di Oman sail. Anche loro riescono a salvarsi di un pelo, piroettando come una ballerina ubriaca. A bordo da me è una raffica di ordini e numeri.

«Alright, sixtynine degree, go for it»
«South south west in five, four, three, two…»
«Steady!»
«…now»
«Nebo, left! MOVE, MOVE, MOVE!»

Scatto in contemporanea al gennaker. Schivo il boma che mi passa sopra mentre il catamarano s’inclina alla velocità di una catapulta. Rimaniamo così inclinati che devo raggiungere il bordo arrampicandomi sulla rete solo con le mani, perché le gambe penzolano nel vuoto. Raggiungo lo scafo tossendo, ruttando e sputando acqua. Il catamarano tocca il mare si e no di un metro, il resto è sospeso in aria. E’ come stare seduti su una palla di cannone. Mi giro a guardarli e così come la paura arriva, svanisce. Sì, è possibile che io trapassi, ma sarà qualcosa di epico. Niente pisciarsi addosso a settant’anni. Niente coda per la pensione. Niente odio verso i giovani. Ci sto.

Non accade.
Trovate il riassunto dei disastri più spettacolari della gara qui.

Quando rimetto piede a terra traballo, ho una fame atroce e devo muovermi in continuazione, o Bigfoot mi trova. Fa freschino, così sto dentro e mi riposo un po’ buttando giù altri appunti e risistemando quello che ho scritto ieri tracannando prosecco e tramezzini. All’ora di pranzo Bigfoot entra nella lounge viola in viso, ansimante.

«I was looking for you»
«BIGFOOT LEAVE ME ALONER»
«What’s that?»
«A HELL OF A PROSECCO»
«Please, put it down»
«IT IS NOT A GUN»
Mi prende il bicchiere dal tavolo e lo appoggia sul bancone.

«WHAT THE FUCK, BIGFOTTO»
«Why you so called journalist can’t drink water, instead?»
«I DRINKS ENAF SALTY WATER ON THE CATAMARAN I DESERVE A REWARD»
«You deserve to be fired, if you ask me»
«THE PORTABLE VOICE OF THE SULTAN INVITED ME TO EAT I AM A GREAT JOURNALISTA»
«The what?»
«THE PORTABLE SMALL GUY. THAT GUY» dico, indicando.
Lei segue lo sguardo: «No, he didn’t»

Entro nella no fly zone dove Bigfoot non può entrare. Rimane dall’altra parte del vetro a fissarmi con odio e continua a farlo fino alla fine dell’antipasto, poi sparisce. Temo di vederla travestita da donna delle pulizie alla finestra. Nel pomeriggio il vento dà tregua e tutti gli altri giornalisti vengono caricati in massa sul catamarano per un giro turistico, me compreso. Sono affascinato dall’addetto alla comunicazione che è tutto preso a guardare la velocità a cui ci spostiamo sul suo iphone. Si è portato l’iphone su un catamarano da regata. Scaltro come un cervo, ‘sto comunicatore. Vedo la boa, mi preparo e osservo lui che smanetta. Penso di dirgli di metterlo via, guardo David che mi fa un impercettibile “no” con la testa, poi apre il gennaker.
La spinta dà uno scossone che obbliga tutti ad attaccarsi alla rete, poi un’onda ci centra in pieno lavando noi, lui e l’iphone. Circuiti e acqua salata non vanno d’accordo, così ora il comunicatore si trova in mano una portasaponette retroilluminato da 700 euro.

«NO!» urla, muovendo il dito su e giù «non mi funziona! Non funziona più!»

Le mani, rese scivolose dall’acqua, rendono la presa difficile. Al secondo sbalzo il cadavere del suo telefono gli cade di mano passando giusto giusto nella diagonale di una maglia della rete. Non sentiamo neanche il plunf. Rimane con le mani a mezz’aria, guardando il buco. Rientriamo con lui che si guarda attorno prima spaesato, poi euforico. Sono tutti molto eccitati perché ci sarà la cena con i membri dell’equipaggio. Riposo un po’, metto camicia e pantaloni decenti, scendo e so che è il momento più importante perché sarà un’intervista tutti contro tutti mascherata da cena. Guardo fuori. Il tavolo è lungo, i posti sono tutti uguali. Esco in giardino per fumare una sigaretta. Niente segnaposti, ma ci sono due capotavola. In una cena in albergo i capotavola sono strani, ma ci si devono sedere i più importanti o i più anziani. Efisio e Ben. So che l’equipaggio è composto tutto da figli di famiglie assai facoltose inglesi che sanno il galateo a menadito e lo applicano, a differenza di noi che siamo più cazzoni. Rientro, prelevo Efisio giusto quando annunciano di mettersi a tavola. Con la più grande faccia da tonno che ho riesco a sistemare Efisio a un capotavola, dopodiché mi siedo sul lato destro dell’altro. Nessuno bada al magheggio finché non sono tutti seduti, con io che sono di fronte a tre sedie vuote.

Il sessantottino mi guarda come un Urukai guarda Boromir.
Il bello di fare lo sbronzone è che ti sottovalutano.

Cinque minuti dopo gli inglesi arrivano e si siedono in perfetto ordine giusto davanti a me. Essendomeli ingraziati per due giorni facendo l’idiota, loro rilasciano dichiarazioni personali, fanno vedere le foto dei figli, parlano delle mogli, ambizioni, di quello che vorrebbero fare dopo, dove vanno in vacanza, cosa pensano davvero della regata e dei partecipanti, cosa credono di aver sbagliato. Scopro dei cazzoni con due palle tante, persone straordinarie dotate di una profondità che in uno sportivo non ti aspetti.

«Good evening» dice una voce femminile «may I join you?»
«I’VE ALREADY DRINK»
«Oh really» fa Bigfoot senza guardarmi.

La fanno accomodare di fronte a me, giustamente vicino agli inglesi. Le rivolgo occhiate sospettose ogni volta che tocco la bottiglia di prosecco ma non ci bada. Chiacchiera con giornalisti ed equipaggio, ogni tanto fa un sorriso dalla mia parte. Sto finendo il dolce quando, passando da un viso all’altro, capisco. Sono i piccoli gesti che definiscono le grandi cose. Occhiate che durano una frazione di secondo in più, silenzi che stonano, orientamento delle mani. Guardo Nasser, guardo lei e capisco che se t’innamori di un marinaio non è che sei stronza, hai solo 340 brutte giornate su 365. La serata finisce con i colleghi stremati che vanno a dormire, io e Ben che  chiacchieriamo di Dr.Dre e del fatto che non ha ancora fatto uscire Detox. Vado in camera, scrivo tre pagine senza interlinea di tutte le impressioni che ho di loro, della regata, dei pareri che hanno. Crollo.

Dormo due ore.

 

 

Si torna a casa.

Paura e disgusto a Trapani (1/3)

Giorno 1
Milano.
La sveglia s’incazza alle 6.00, apro gli occhi e rutto negroni. Ho dormito tre ore dopo una notte iniziata con “un aperitivo” e terminata sproloquiando abbracciato alla porta di casa Minoggi. Riesco a svegliare Alessandro percuotendolo con una rivista di design. Grugnisce, si alza dal divano, si accende una sigaretta, scoreggia uso mostro e montiamo in macchina. Facciamo colazione in un bar vicino a casa sua, biascichiamo appena tra operai di varie nazionalità ed un barista strabico. Mi molla davanti alla sede dell’agenzia con l’alba che fa capolino tra i palazzi.

«Non vedo nessuno»
«Quello è un giornalista sicuro» dice indicando un tizio in fondo.
«Che ne sai?»
«Ha la faccia da stitico. Tutti i giornalisti hanno la faccia da stitici»
«Che ne sai?»Io non sono stitico»
«Vabbè che c’entra, sei negro»

L’ultima immagine che ho di Minoggi è lui che sgomma ed al mio “buona giornata” risponde con un vaffanculo e tre bestemmie. Non faccio a tempo a presentarmi al tizio che altri colleghi si palesano sbucando da tutte le parti.  Dal portone escono un uomo e una donna sulla quarantina, proprietari dell’agenzia di comunicazione che gestirà le tre giornate seguenti. Sono tutti in camicia per una strana legge del mio lavoro: se mi presento in camicia sono tutti in maglietta, mi presento in maglietta sono in cravatta. L’unico dei presenti con un’età accettabile le poche volte che alza gli occhi dall’iphone guarda tutti con odio e diffidenza. Provo a socializzare.

«Ehilà, anche tu qui per Trapani?» mi esce una voce roca da tossico.
«Hm»
«E’ che ti ho visto con la valigia, credevo fossi un giornalista»
«Sì, sono anche giornalista» precisa smanettando col telefono.

Sospira. Alza gli occhi.
«Mgnwrmzzine»
«Eh?»
«Ho un’agenzia di comunicazione»
Si rimette a smanettare. Magari se gli mando una mail è meglio.

Gli altri colleghi sono un magnaccia, un sessantottino miliardario, un ciccione di Panorama, altri non meglio identificati che sembrano appena usciti da un club mediterranée. Un vecchietto da me ribattezzato “Efisio” ha l’aria di essere caduto dal lettino della rianimazione. Si conoscono tutti, essendo nel ramo turismo. Montiamo a bordo dell’autobus diretti a Malpensa. Al mio fianco Efisio ansima, cianotico.

«Tutto bene, capo?» chiedo.
«HHHHsì, sì, HHHH»
«E’ sicuro? Non la vedo molto in forma»
«HHHH tornato dall’Africa, HHHH, trentotto di febbre, HHH, non dormo, non mangio, sto bene, tu sei… HHH, sei simpatico… HHHH»
Ora dice che mi ucciderà per ultimo.
Non lo fa.

«Tu hai una barca?» domanda il sessantottino.
«Un Quicksilver a motore» rispondo.
«Giocattoli» sbuffa «la barca è altro. Guarda qui»
Tira fuori il telefono, scorre le foto. Ha gli stessi gusti di D’Alema, saranno undici metri di scafo.

«Dodici e trenta. Interni in legno. L’ho chiamata Revoluciòn III»
L’ha chiamata così.

All’aeroporto non mi ricordo il check in, impegnato com’ero a cercare un bagno dove farmi 20 gocce di Novalgina. A bordo si ciaccola. Sono tutti veterani del mestiere, parlano di prezzi, business class, qualità delle moquette e dei pasti, pulizia di stanze, bellezza dei mari e delle cameriere. Il magnaccia esalta il fatto che in alcune linee aeree arabe le hostess donne devono inginocchiarsi per parlare con i passeggeri che le chiamano, perché una donna non deve mai guardare dall’alto al basso un uomo che le rivolge la parola.

«Son queste cose che fanno la qualità» spiega al sessantottino.
«Cosa vuoi, altri paesi, altra mentalità»
«Guarda, io l’altro giorno ho fatto un volo per Dubai con la Ahmed Kaboom Inshallah air e devo dirti, si stanno occidentalizzando, eh? Mi hanno portato un breakfast ma era molto cheap, molto così… le posate di plastica, per dire»

 

Tre ore dopo metto piede a Palermo. Sole. 21 gradi. Un tizio tarchiato ci carica su un furgone e partiamo per Trapani tra autostrade deserte e macchia mediterranea a perdita d’occhio. Arrivo all’albergo, la tonnara di Bonagia. Un posto da vippanza vista mare con porticciolo annesso. Ho una tripla. Interrogo il centralino chiedendo chi siano gli altri due.

«Qui risulta sia solo per lei»
«Signorina, io qui dentro mi perdo»
«E’ in quella con terrazzino e panorama, giusto?»
«Userò il GPS e le saprò dire»

Si può fare il bagno in mare, dicono, l’acqua è calda. Abbiamo 40 minuti per darci una rinfrescata e poi si parte per andare a documentare l’evento. Due minuti dopo sguazzo nel Tirreno. Doccia rapida, telefonata alla base per dire che sono arrivato, saluti alla Leo. Leggo gli scartafacci che ci hanno rifilato per capire dove sono, chi sono loro, cosa sto per vedere e soprattutto cosa diavolo vogliono che io faccia. La redazione è stata chiara: “vai e facci fare bella figura”. Tanto valeva dirmi di urlare “Allah akbar”.
Tre fogli di bellissimo, bravissimi, prestigiosissimi e non ho ancora idea di cosa si tratti. Annaspo su Google e scopro che ci saranno catamarani che faranno a gara a chi è più uomo girando in cerchio tra palle di gomma sistemate nel porto, ma in un modo particolarmente spettacolare ed emozionante, un nuovo modo di regata in grado di coinvolgere anche i profani. Due minuti dopo sono su Google maps che cerco locali nei paraggi, tanto è chiaro come andrà a finire.

Bussano alla porta, si parte.
Attraversiamo Trapani. E’ bella, somiglia a La Valletta ma riesce ad essere più sporca. Lattine e cartacce trasformano le palme in alberi di natale trash. Cocci di bottiglia, carcasse di biciclette e vecchi copertoni adornano le strade ed imputtanano tutta l’atmosfera. Alcuni vicoli sembrano un immondezzaio. Quando arrivo al centro portuale capisco che la cosa è grossa. Tutti parlano inglese. Tutti hanno braccialetti e pass personalizzati e non rimovibili; te lo legano al polso e te lo devi tenere per tre giorni. Ci sono i pass stampa (rossi), i pass dello staff (verdi), quelli VIP (oro) ed i pass HIGH VIP (platino).

 

 

 

Tra personale, curiosi, spettatori paganti, auto blu, catering e giornalisti saremo tremila persone ed è solo mezzogiorno. Entriamo nella vip lounge raphrasent yo dove troviamo gli equipaggi di Luna Rossa, Oman Air, Alinghi ed altri tizi con la polo e i mocassini. Adocchio il mastodontico buffet. Tartine spinaci e gorgonzola. Pasta fredda. Prosciutto. Crema di salmone. L’occhio sinistro ha un sussulto quando leggo “free bar”. Il problema è che siamo qui per la conferenza stampa. Io le odio, le conferenze stampa. Sono lo sperma finto del giornalismo. Gente fa non affermazioni a cui seguono non domande che serviranno a redigere non articoli. Tanto valeva ricevere i foglietti via mail, correggere le virgole e tanti saluti. Del resto la nera la fanno così da anni. Poi a cosa serve farla prima? Vi aspettate di vincere, sì. Vi piace il vostro team, sì. Siete felici di essere qui, sì. Ora permettete che io faccia una domanda retorica di dieci minuti per far presente a tutti che io ne so a pacchi:

Sig. Alinghi, la sua prestazione in data 23/4/2011 è stata di 9.5 punti inferiore alla prestazione di Luna Rossa che ha totalizzato 10.4 punti virando alla 4° boa tagliando il vento che soffiava a 2 nodi da SSE in un tempo inferiore al vostro, dopo la virata della 2° boa avete orzato con un ritardo di 0.23 secondi subendo il calo di libeccio documentato a 0.5 nodi?
«What?»

Reputa quindi probabile che oggi, partendo da una posizione secondaria, uno scafo costruito dalla Western, per quanto in vetroresina avanzata – potrà competere con nuove generazioni di leghe al duranio che stanno prendendo piede? Stiamo parlando di un coefficiente di flessibilità che raggiunge i 2, forse anche tre millibar per centimetro quadrato.
«Hey Mark, how are you? Ready to sail? Haha, yeah, me too!»

Dunque non è d’accordo con l’opinione dell’ingegnere Kentamuro Fagakanasi, che in una recente intervista rilasciata al mensile “Le vele del cazzo e i tre stronzi che ci comprano magazine” sostiene la flessibilità alla lunga penalizzi l’effettiva durata dello scafo? Adduce il suo calo di prestazioni alle vele o all’equipaggio poco motivato a vincere una sfida dal punto di vista personale, più che scientifico?
«I think i’m gay.»

Non pensa che sfide di questo tipo mettano in risalto più l’aspetto tecnico dell’aspetto talentuoso, lasciando più spazio allo spettacolo fine a sé stesso piuttosto che ai tecnicismi che invece dovrebbero rimanere alla base di ogni singola sfida sportiva degna di questo nome? Che forse il suo calo prestazionale sia dovuto proprio a questo volere a tutti i conti abbracciare le nuove scuole, per quanto ammirevolmente, innovative e spettacolari?
«I’m definitely gay»

Questa caterva di puttanate mi ha stancato. Guardo il personale, basta un colpo d’occhio per capire che le selezioni le ha fatte un’agenzia esterna. Ragazzi e ragazze inglesi, neozelandesi, australiane, italiane di età massima 24 anni, tutte gnocche e che parlano minimo 5 lingue. Attorno security professionista, inglese, tra cui annoto due ex militari col riflesso condizionato di toccarsi una fondina assente. Arabi, gente coi soldi, macchinoni. In disparte sui divanetti c’è un tizio affiancato ad un pachiderma con la faccia più butterata di Danny Trejo. Sorride molto. Mi giro per domandare a Efisio chi sia quello. Efisio è bianco come il muro. Occhi lucidi, vacui, strani spasmi con la bocca.

«Efisio, tutto bene?»
«HHHHH, ma, HHHH, perché mi chiedi… heh, in continuazione, HHHH, perché sto bene?»
«Par di stare seduto vicino a Darth Vader»
«HHHHHH, a posto»
«Senti, chi è quello in fondo?»
«Credo, HHHHH, il portavoce del sultano dell’Oman, HHHH» tossisce.
«Ma se sembra un ergastolano»
«No non quello, quello non so chi sia, HHHH, dico quello a fianco»

Un arabo piccino e felice che sorride, annuisce e si guarda attorno con l’aria di un bimbo in coda per la brucomela. Se non ci sono altre domande, dicono, il buffet è aperto. Mi faccio due prosecchi, ingollo un primo, due secondi e il dolce e termino con caffè ed una doppietta di Montenegro. Mi trovo a fianco Danny Trejo versione Arab terminator che si sta servendo un bastimento di tramezzini. L’alcool mi fa dimenticare che il mio problema primario è l’inglese. Anni di film, telefilm, videogiochi e Internet mi hanno reso un ascoltatore e lettore della madonna. Lo capisco come l’italiano, non c’è problema. E’ quando dai ad un ex manovale il compito di parlarlo che iniziano i casini. Esordisco con

«YOU IS TEH BODYGUARD OV DE PRAZIDENT?»
«Haha, no, i’m the chief of the Oman televisions» gongola.
«WAT?» sbotto «IT AM NO POSSIBOL, OMAN HAS ONLY ONE CHANNEL TIVVI’?»
«No, 29»
«AND HOW IS DID YOU BECUM DE ONLY, YOU KILL TEH ATHERS?»
All’inizio mi guarda incredulo, poi comincia a ridacchiare. Poi ride. Poi ride di brutto, mi tira una pacca sulla spalla e dice
«Haha. Almost»
Almost vuol dire quasi. Lo so perché ho visto Apocalypto.
«ALRIGHT EXCUSE ME»

Raggiungo gli altri giornalisti che si stanno facendo vestire per salire a bordo dei catamarani durante la regata di prova. Lascio negli armadietti telefono, portafogli e chiavi, due stagiste mi vestono con giubbotto di salvataggio, casco, imbracature. Si scambiano strane occhiate.
«ITS FUNNY YOU SEE» dico entusiasta «IT IS DE FIRST TAIM CIU’ WIMMEN PUT CLOTHES ON ME, USUALLY IS DE OPPOSITE, HAHAHAH!!»
Una si allontana, l’altra fa una faccia strana.
Scendo le scale e raggiungo l’approdo. Dei gommoni caricano i giornalisti che saliranno a bordo dei catamarani. Sono sulla terza. Il tizio alla guida manovra da Dio, ci affianchiamo e la tizia dell’agenzia è agitata, dice che c’è forte vento e  che potrebbe essere pericoloso, quindi meglio rientrare. I colleghi concordano all’unisono, del resto c’han 60 anni per gamba e se pigliano mezza onda finiscono al creatore. Il prosecco che è in me dice che io vado lo stesso. David Carr, un marinaio di 98 chili, mi tira a bordo del catamarano prima che gli altri dicano niente. Ci guardiamo.
«What’s your name?»
«Nebo»
«Nebo, have you never been on a boat?»
«SHIT YES I GOT ONE»
«Ok, so you know what we’re doing?»
«BARELY, MY BOAT HAVE A MOTOR NOT DIS FUNNY BLANKET ON A STICK»
«You mean the sail?»
«YEEEEEAH BUDDAY»
«Right. So, listen. During the regade we’ll tell you where to go. When i say LEFT, you go there. When i say RIGHT, there. It’s likely the tension will rise, so we will shout at you, maybe even insult if you don’t move. Are you ok with this?»
«YOU DON’T KNOW MY GIRLFRIEND» rispondo.
«Really?» sogghigna Ben.
Fanno cenno di sedermi e la regata inizia.

Il meteo segnala bora in aumento e va tutto bene, il mondo è al suo posto, finché non ci avviciniamo a una boa, Ainsley vira e molla il gennaker. Il catamarano ha una spinta propulsiva simile a quella di un aereo al decollo, il vento mi impedisce di vedere chiaro, il catamarano s’inclina di trenta gradi a destra e c’arrampichiamo sullo scafo in alto. Poi vedo Luna Rossa che ci viene incontro.
«OH FUCK» grida Ben.
«OH FUCK» grida David.
«GHE SBORO, XE COPEMO» grido io.
[continua]