Paura e disgusto a Trapani (3/3)

«GUYS» ululo «GUYS, SERIOUSLY, I HAVE A GIRLFRIEND TO COME BACK»
«How old is she?»
«21»

Vedo l’onda arrivare a dritta. Ben vira, prendendola al giardinetto.
Il vento ulula sparando getti d’acqua che fanno un casino della madonna.

«How long have you been together?»
«TRE YEARS»
«So marry her!»
«ARE YOU ALL MARRIED»
«Two years, one kid»
«Three years, two kids»
«Lads, focus» dice Ben.

Siamo quasi alla partenza. Butta male, il vento è pressoché ingestibile. Non ci vedo quasi più.

«I WILL SURVIVE» grido, e l’impossibile accade. Forse perché son tutti della mia età, forse perché sono inglesi, forse perché sono dei cazzoni come me, ma David Carr risponde.
«Oh and as long as I know how to love I know I stay aliiiiive»

Gli altri ridono e proseguono. La seconda onda è più piccola, ma lunga. C’impenniamo il giusto perché la vela si sposti, David tira la cima e rimaniamo in rotta. Siamo alla stessa velocità di ieri, solo che nessuno ha ancora toccato il gennaker. Arriviamo alla linea di partenza cantando a squarciagola Gloria Gaynor con l’arabo che non la sa ma la canticchia divertito, poi voliamo per aria. Resto attaccato al catamarano solo con le mani tra la rete e crollo giù, battendo la testa contro il boma. Una valanga d’acqua mi schiaccia contro il telaio. Taci che ho il casco. Gli altri catamarani decollano sotto un cielo grigio diretti verso il massacro. Quelli dell’Oman sail (colleghi ma rivali) scattano in avanti, seguiti a ruota da Luna Rossa. Alinghi ci guarda con astio mentre stiamo fianco a fianco. Percorriamo duecento metri senza che Ben abbia i suoi soliti guizzi geniali. Capisco perché non appena Oman sail arriva alla boa. Il vento solleva il catamarano, conficcando la punta in acqua e tenendo tutto il resto per aria. Li sorpassiamo mentre cercano di riprendere velocità, Ben vira e ci troviamo in seconda posizione come per magia.

Luna rossa apre il gennaker calcolando male il vento. Vengono scaraventati via da una forza invisibile facendo la stessa fine di Oman sail. Anche loro riescono a salvarsi di un pelo, piroettando come una ballerina ubriaca. A bordo da me è una raffica di ordini e numeri.

«Alright, sixtynine degree, go for it»
«South south west in five, four, three, two…»
«Steady!»
«…now»
«Nebo, left! MOVE, MOVE, MOVE!»

Scatto in contemporanea al gennaker. Schivo il boma che mi passa sopra mentre il catamarano s’inclina alla velocità di una catapulta. Rimaniamo così inclinati che devo raggiungere il bordo arrampicandomi sulla rete solo con le mani, perché le gambe penzolano nel vuoto. Raggiungo lo scafo tossendo, ruttando e sputando acqua. Il catamarano tocca il mare si e no di un metro, il resto è sospeso in aria. E’ come stare seduti su una palla di cannone. Mi giro a guardarli e così come la paura arriva, svanisce. Sì, è possibile che io trapassi, ma sarà qualcosa di epico. Niente pisciarsi addosso a settant’anni. Niente coda per la pensione. Niente odio verso i giovani. Ci sto.

Non accade.
Trovate il riassunto dei disastri più spettacolari della gara qui.

Quando rimetto piede a terra traballo, ho una fame atroce e devo muovermi in continuazione, o Bigfoot mi trova. Fa freschino, così sto dentro e mi riposo un po’ buttando giù altri appunti e risistemando quello che ho scritto ieri tracannando prosecco e tramezzini. All’ora di pranzo Bigfoot entra nella lounge viola in viso, ansimante.

«I was looking for you»
«BIGFOOT LEAVE ME ALONER»
«What’s that?»
«A HELL OF A PROSECCO»
«Please, put it down»
«IT IS NOT A GUN»
Mi prende il bicchiere dal tavolo e lo appoggia sul bancone.

«WHAT THE FUCK, BIGFOTTO»
«Why you so called journalist can’t drink water, instead?»
«I DRINKS ENAF SALTY WATER ON THE CATAMARAN I DESERVE A REWARD»
«You deserve to be fired, if you ask me»
«THE PORTABLE VOICE OF THE SULTAN INVITED ME TO EAT I AM A GREAT JOURNALISTA»
«The what?»
«THE PORTABLE SMALL GUY. THAT GUY» dico, indicando.
Lei segue lo sguardo: «No, he didn’t»

Entro nella no fly zone dove Bigfoot non può entrare. Rimane dall’altra parte del vetro a fissarmi con odio e continua a farlo fino alla fine dell’antipasto, poi sparisce. Temo di vederla travestita da donna delle pulizie alla finestra. Nel pomeriggio il vento dà tregua e tutti gli altri giornalisti vengono caricati in massa sul catamarano per un giro turistico, me compreso. Sono affascinato dall’addetto alla comunicazione che è tutto preso a guardare la velocità a cui ci spostiamo sul suo iphone. Si è portato l’iphone su un catamarano da regata. Scaltro come un cervo, ‘sto comunicatore. Vedo la boa, mi preparo e osservo lui che smanetta. Penso di dirgli di metterlo via, guardo David che mi fa un impercettibile “no” con la testa, poi apre il gennaker.
La spinta dà uno scossone che obbliga tutti ad attaccarsi alla rete, poi un’onda ci centra in pieno lavando noi, lui e l’iphone. Circuiti e acqua salata non vanno d’accordo, così ora il comunicatore si trova in mano una portasaponette retroilluminato da 700 euro.

«NO!» urla, muovendo il dito su e giù «non mi funziona! Non funziona più!»

Le mani, rese scivolose dall’acqua, rendono la presa difficile. Al secondo sbalzo il cadavere del suo telefono gli cade di mano passando giusto giusto nella diagonale di una maglia della rete. Non sentiamo neanche il plunf. Rimane con le mani a mezz’aria, guardando il buco. Rientriamo con lui che si guarda attorno prima spaesato, poi euforico. Sono tutti molto eccitati perché ci sarà la cena con i membri dell’equipaggio. Riposo un po’, metto camicia e pantaloni decenti, scendo e so che è il momento più importante perché sarà un’intervista tutti contro tutti mascherata da cena. Guardo fuori. Il tavolo è lungo, i posti sono tutti uguali. Esco in giardino per fumare una sigaretta. Niente segnaposti, ma ci sono due capotavola. In una cena in albergo i capotavola sono strani, ma ci si devono sedere i più importanti o i più anziani. Efisio e Ben. So che l’equipaggio è composto tutto da figli di famiglie assai facoltose inglesi che sanno il galateo a menadito e lo applicano, a differenza di noi che siamo più cazzoni. Rientro, prelevo Efisio giusto quando annunciano di mettersi a tavola. Con la più grande faccia da tonno che ho riesco a sistemare Efisio a un capotavola, dopodiché mi siedo sul lato destro dell’altro. Nessuno bada al magheggio finché non sono tutti seduti, con io che sono di fronte a tre sedie vuote.

Il sessantottino mi guarda come un Urukai guarda Boromir.
Il bello di fare lo sbronzone è che ti sottovalutano.

Cinque minuti dopo gli inglesi arrivano e si siedono in perfetto ordine giusto davanti a me. Essendomeli ingraziati per due giorni facendo l’idiota, loro rilasciano dichiarazioni personali, fanno vedere le foto dei figli, parlano delle mogli, ambizioni, di quello che vorrebbero fare dopo, dove vanno in vacanza, cosa pensano davvero della regata e dei partecipanti, cosa credono di aver sbagliato. Scopro dei cazzoni con due palle tante, persone straordinarie dotate di una profondità che in uno sportivo non ti aspetti.

«Good evening» dice una voce femminile «may I join you?»
«I’VE ALREADY DRINK»
«Oh really» fa Bigfoot senza guardarmi.

La fanno accomodare di fronte a me, giustamente vicino agli inglesi. Le rivolgo occhiate sospettose ogni volta che tocco la bottiglia di prosecco ma non ci bada. Chiacchiera con giornalisti ed equipaggio, ogni tanto fa un sorriso dalla mia parte. Sto finendo il dolce quando, passando da un viso all’altro, capisco. Sono i piccoli gesti che definiscono le grandi cose. Occhiate che durano una frazione di secondo in più, silenzi che stonano, orientamento delle mani. Guardo Nasser, guardo lei e capisco che se t’innamori di un marinaio non è che sei stronza, hai solo 340 brutte giornate su 365. La serata finisce con i colleghi stremati che vanno a dormire, io e Ben che  chiacchieriamo di Dr.Dre e del fatto che non ha ancora fatto uscire Detox. Vado in camera, scrivo tre pagine senza interlinea di tutte le impressioni che ho di loro, della regata, dei pareri che hanno. Crollo.

Dormo due ore.

 

 

Si torna a casa.