LA MADRE
Shahla Mateen è una estetista. Nel salone dove lavora, le colleghe la definiscono “scontrosa e paranoica”. C’è stata una volta in cui Shahala s’è presentata in salone urlando che una collega le aveva lanciato uova marce contro casa e le aveva tagliato le gomme dell’auto. Spesso si assentava dicendo “ho problemi familiari, ciao”. Non si presenta mai agli incontri coi professori anche quando il figlio inizia a venire sospeso per liti a sfondo religioso. In vent’anni di matrimonio diventa sempre più violenta col marito finché, nel 2002, viene arrestata per averlo menato. Viene incarcerata con una cauzione di 5000 dollari, ma il marito ritira la denuncia e lei torna a casa.
Dopotutto, se una donna picchia un uomo non lo picchia davvero, dai.
IL PADRE
Seddique Mateen si considera un importante analista e politico di spicco. Sul suo canale YouTube sostiene che il Pakistan stia inviando negli Stati Uniti dei sicari per ucciderlo. Via satellite tiene una trasmissione dove farnetica contro il Pakistan, parla con Obama o gli scrive lettere aperte, sostiene i Talebani siano patrioti e crea un’organizzazione no-profit per finanziarli. Intestata alle figlie. Poi registra al comune il PROVISIONAL GOVERNMENT OF AFGHANISTAN (allego foto).
In Afghanistan comunque lo conoscono e lo reputano un divertente imbecille alla stregua di Andrea Diprè. Si candida alla presidenza dell’Afghanistan (no, sul serio) mentre nel mondo reale vende polizze assicurative. Lui e la moglie vengono denunciati tre volte per non aver saldato dei debiti, e altre quatto volte sono loro che provano a truffare l’assicurazione o i datori di lavoro, prendendola clamorosamente nel culo. Ecco quindi come si svolge una normale conversazione a casa Mateen durante il pranzo.
Padre: «Amore, com’è andata al lavoro?»
Madre: «Le mie colleghe cospirano, le sento camminare nel buio, lì fuori.»
Padre: «No, potrebbero essere i sicari pakistani.»
Figlio: «QUEI FROCI»
IL FIGLIO
A scuola, Omar cerca di mettersi in mostra coi ragazzi dichiarando che suo zio Osama Bin Laden in persona gli ha insegnato a usare il mitra. Stranamente, invece di cazzo prende un sacco di botte. Opta quindi per Jack’d e Grindr, app per incontri gay e va a spettacoli di drag show. Tutto questo di nascosto dal padre, che però inizia a sospettare al figlio piaccia la banana. Omar deve dissimulare, così si sposa Sitora Yusufiy. La pesta per motivi risibili, tipo perché non ha fatto la lavatrice. O perché lei sa stare sui tacchi e lui no. Quando il padre li va a trovare, chiama il figlio “frocio”. Nella costante lotta per mascherare la propria identità, Omar si iscrive in palestra e tenta di entrare in polizia. Va in moschea quattro volte a settimana, scrive su Facebook insulti all’occidente e loda i terroristi. Nel 2013 riesce a diventare una guardia giurata. Non ha però perso il vizio di spararle grosse, così dice ai colleghi di essere in contatto con membri di Al-Qaeda.
È vero? No.
Però finalmente possiamo introdurre il vero, assoluto idolo della vicenda.
L’FBI
2013
La sala interrogatori del Federal Bureau of Investigation è grigia, coi muri imbottiti di pelle, un tavolo d’acciaio inchiodato al pavimento, due sedie, un faretto incassato nel soffitto, una telecamera nell’angolo e un grande specchio. Omar è seduto con le manette ai polsi. Dietro lo specchio, le migliori menti degli Stati Uniti lo studiano con attenzione mentre i monitor registrano la sua temperatura corporea. Monitor e sensori si alternano a tazze di caffè di Starbucks. Una ventina di agenti speciali è in attesa di ordini.
«Allora, signori, ricapitoliamo» dice l’agente capo «il signor Mateen ha un padre pazzo che parla a favore dei talebani e pensa di essere in contatto con Barak Obama. Il figlio ha dichiarato ai colleghi di essere collegato ad Al Qaeda e la sua bacheca Facebook è un tripudio di insulti all’occidente e giuramenti di fedeltà agli hezbollah, ai talebani, all’Isis e agli eldiani che dei terrestri son nemici alieni.»
«Parrebbe confuso» osa un’agente in tailleur gessato «Al-Qaeda e Isis si odiano. Di recen… scusi» arrossisce l’agente, abbassando la testa.
«Ecco, meglio. Il mondo è fatto di buoni e cattivi. Non partire con le cazzate tipo uahhabiti, falafeliti o roba incasinata che poi finisce come Syriana.»
«Com’è finita con Syriana?» domanda un agente.
«Guarda l’autofill di Google.»
«Chiaro? Buoni e cattivi, o nessuno capisce un cazzo. Ora mandate dentro l’agente speciale McCallan.
McCallan, completo grigio antracite e cravatta blu, è sulla trentina. Sull’occhiello porta la bandiera USA. Prende la sedia con studiata lentezza, si siede, incrocia le dita e fissa Omar: «Signor Mateen» dice «nell’assoluto rispetto e senza alcun pregiudizio di natura razziale, religiosa o sessuale, basandomi sul mio ruolo, sul mio addestramento e sulla mia esperienza come agente del bureau, consapevole della mia colpa di essere un biomaschio di razza bianca eteros
«Può saltare il disclaimer?» fa Omar.
«Sei un terrorista?»
«No.»
«Ah ok»
Lo rilasciano.
2014
L’FBI riceve una telefonata da un commesso di un negozio di armi. Il tipo racconta di un arabo che s’è presentato chiedendo tre giubbotti antiproiettile e munizioni varie, poi ha parlato al telefono dicendo “Allah u akbar” e se n’è andato. L’FBI indaga e scopre che si tratta di Mateen. Lo stesso che in una conversazione con un collega guardia giurata dice che “se l’FBI uccidesse mia moglie e mio figlio sarei libero di diventare un martire.”
È tipo “se la Polonia mi invadesse sarei libero di invaderla”, credo.
Questa volta l’FBI prova un approccio diverso e lo mette sotto sorveglianza digitale. I g-man scoprono che era amico di Mohammad Abusalha, recentemente autodetonatosi in Siria, ma non ci vedono niente di strano perché Omar è arabo, e alla fine gli arabi si conoscono tutti. Omar frequenta il Pulse, club gay di Orlando dove gorgoglia che a casa sua moglie e suo padre gli impediscono di bere, poi si sbronza e scatena risse. Ma questo lo rende un buon americano. Dopotutto a gente così fanno pilotare gli Jaeger, ricordiamo.
Nella realtà Omar di giorno parla con la moglie di fare attentati, va con lei a Disneyland pianificando una strage e si fa addirittura accompagnare a comprare l’AR-15 in armeria. La sera, però, esce a farsi carotare il trinciastronzi da quelli che di giorno insulta e disprezza. Tutto questo continuando a scrivere su Facebook cazzate deliranti su tutto quello che somiglia al terrorismo. L’FBI, memore della prima volta, questa volta lo richiama con una nuova strategia.
«Omar, sei un terrorista?»
«No.»
«Sicuro?»
«Sì.»
Lo rilasciano.
Dopo tre anni che Omar va al club Pulse a rimorchiare, il 18 giugno ci entra con pistola, mitra, esplosivi. Inizia quindi un’escalation di ritardo mentale senza alcun precedente nella storia del pianeta. E se siete persone particolarmente sensibili, non andate oltre. Perché tutto quello che state per leggere vi farà accapponare la pelle.
LA STRAGE
Alle 2.02 un poliziotto armato dentro il club sente gli spari. All’inizio pensa facciano parte della canzone. Quando sente gente urlare e vede gente fuggire, capisce. Dichiara di sentirsi “outgunned” e scappa fuori. Chiama aiuto. Due SWAT di passaggio arrivano, sparano a Omar in mezzo al casino generale. Omar si barrica in cesso dove trova decine di clienti e li stermina come zanzare.
Alle 2.07 Eddie Jamoldroy Justice scrive alla madre di essere nascosto in bagno e che sta per morire perché qualcuno spara. Lei prima gli chiede se l’attentatore è un poliziotto, poi prova a telefonargli perché se tuo figlio è nascosto, fargli squillare il telefono è un’idea eccezionale e conclude con ANSWER THE DAMN PHONE. Non “ti voglio bene”. Non qualcosa di dolce, di materno, di umano.
I’m calling them now
U still in there
Answer our damn phone
Call them
call me
Alle 2.09 la pagina del club Pulse pubblica lo status “uscite tutti dal Pulse e correte”. Perché? A cosa serve? Se sono fuori, non mi serve. Se sono dentro il Pulse so già che c’è una sparatoria e comunque non mi metto a leggere Facebook mentre volano proiettili, ti pare? Il post, comunque, è un successo.
E io immagino la gente a casa col mouse fermo sopra il like, straziata dalla decisione se mettere la faccina triste o quella a bocca aperta. Deve fare in fretta, è questione di secondi. Sotto, i commenti.
Alle 2.22, mentre fuori un popolo di scimmie analfabete emette grugniti, Omar telefona al 911 e dichiara fedeltà all’Isis, poi tira in mezzo i bombaroli della maratona di Boston, un suo amico che s’è fatto schioppare in Siria e conclude dicendo che gli USA devono smettere di bombardare il suo paese.
«Ma signore, la guerra in Afghanistan è finita nel 2014.»
«VABBÈ COMUNQUE»
Alle 2.45 Omar telefona a News 13, parla con il produttore Matt Gentili e dichiara di averlo fatto per l’Isis. Poi – sempre continuando a sterminare gente – posta su Facebook e si assicura i social parlino di lui.
Alle 3.58 la polizia arriva coi mezzi necessari. Dentro, un testimone dichiara di aver visto e sentito Omar telefonare alla moglie e dirle che lui è il quarto terrorista, ma che nel club ce ne sono altri tre e anche una donna con un giubbotto esplosivo. Inizia la trattativa coi poliziotti.
Alle 4.57 gli SWAT fanno esplodere un ordigno per fare un buco nel muro, ma non gli viene bene. Allora usano i veicoli corazzati per allargarlo, ma questo li porta solo nella stanza principale. Omar è barricato nel cesso, e ha tutto il tempo d’incazzarsi e sterminare gli ostaggi. A fatica, gli SWAT rimuovono i detriti e avanzano dentro la discoteca col mezzo corazzato. Arrivati al bagno lo buttano giù ammazzando tutto quello che c’è dentro. Camerieri, clienti, cubisti, DJ, ballerini. E Omar. Non che sia strano. Vedete, la polizia in queste situazioni considera gli ostaggi vittime di omicidio temporaneamente vive.
CONCLUSIONI
Più guardo la vita di questi presunti “attentatori”, più mi convinco che l’Islam non c’entri niente. Né qui, né a Parigi, né in Belgio. Hanno dato la colpa all’integralismo, al degrado delle periferie, al razzismo. All’omosessualità repressa. A me colpisce come Omar abbia mentito a sua moglie fino all’ultimo. Come le abbia raccontando di essere integrato in chissà che gruppo di spaccaculi mentre invece era solo, circondato da cadaveri, in una discoteca che un po’ rappresentava il suo mondo interiore. E nei suoi ultimi istanti di vita non ha parlato con Dio.
Ha guardato Facebook.
Così ho pensato che forse oggi Dio sono gli altri. La rete. Il web. I like, le condivisioni, gli iscritti. Una massa ascesa a entità, in grado di giudicare gli esseri umani come nessun altro ha fatto prima: 10,000 like hanno lo stesso valore per un israeliano e un palestinese. Per la prima volta, l’umanità ha creato un Dio indiscutibile, numerico e inequivocabile. E chi ha una mente semplice farà qualsiasi cosa per averne l’approvazione. C’è chi si suicida su Periscope. Chi per farsi un selfie muore su Instagram. Chi vende la verginità su eBay. Chi si masturba su cam4. Chi ammazza su Facebook. Chi chiede gli auguri, chi supplica condivisioni. Mi viene in mente l’AMMIRAMI gridato dai figli della guerra di Mad Max. O il 42 di Guida Galattica per autostoppisti. Un Dio da venerare mostrandoti e che ti giudica a numeri. Che roba, sarebbe. Che cosa squallida, disperata e immensa.
Ma dopotutto sono uno che scrive vaccate rigonfio di bourbon alle tre di mattina, quindi meglio se la pianto.