L’eterna lotta tra il pene e il male

L’eterna lotta tra il pene e il male

Il Key Beach è una di quelle discoteche dove la fauna vip, chic, frik e frok si raduna all’insegna del divertimento più esclusivo, trasgressivo e mondano. Tradotto, una masnada di contadini arricchiti si vestono bene e cercano di non sembrare provinciali agli occhi degli esterni; nessuno si diverte senza massicce dosi d’alcool perché indossa abiti che stanno ad un passo dalla mummificazione e lamenta il fatto che da vent’anni c’è sempre la stessa gente che fa gli stessi discorsi.

Sì, è la sceneggiatura di Population 806.
C’è gente che ha la fortuna di vivere in un film, cosa volete che vi dica.

Ora, le persone all’interno di questi posti sono seguaci dell’anticristo. Presi fin dall’infanzia a colpi di Beverly Hills 90210, al liceo Melrose Place e all’università Sex&The City, il bombardamento mentale li ha trasformati in non morti la cui mente è instabile come una carica di nitroglicerina; non tanto perché sono superficiali come un missile Cruise o interessanti come le repliche delle previsioni del tempo in Ruanda, ma perché pur restando trincerati là dentro, prima o poi, incontreranno l’uomo con il fucile. Può capitarti uno normale. Può capitarti uno normale e retoricamente pericoloso. Può capitarti uno non tanto normale e retoricamente letale.

Se proprio hai sfiga, può capitarti Ario.

«Ario, dove mi hai portato?»
«A farti vedere la gente per bene, sai mai che metti giudizio.»
«Ho una brutta sensazione, posti come questi sono una specie di setta. Andiamo via.»
«Setta?»
«Setta, si conoscono tutti e scopano tra loro. Entri a presentazione, tipo.»
«È tutto sotto controllo.»
«L’ultima volta che hai detto questa frase siamo affondati in laguna alla tre di notte.»
«È diverso.»

La guida del bon ton impone comportamenti rigorosi in caso di ordinazioni al banco.

Raggiungere la postazione senza trasformarsi in un caterpillar

«Ti levi?» domanda Ario ad una bionda, urtandola senza fermarsi.
Quella si gira assieme alla sua amica giusto in tempo per guardare male me.

Attendere pazientemente l'arrivo del barman, banconiere o chi per lui.

«BARISTA? GARSON? HOSTESS? HOSTESS PIENA DI MERDA?»
«Andiamo via» insisto.

Domandare educatamente la bevanda prescelta evitando di alzare la voce nonostante la musica sia a volumi peculiarmente alti.

«QUANTO MI RUBI PER UN MOJITO?» domanda montando sopra le spalle di un tizio che cede sotto il peso e si accascia.

Il buchetto sulla drink card dice otto euro. Nel mio portafogli, spauriti e trincerati, restano 45 euro che si stringono tra loro terrorizzati. La posizione da sardina mi concede di ascoltare le conversazioni dei presenti. Lui camicia, pantalone, scarpa lucida. Nell’insieme più che uno lì per divertirsi pare un impiegato appena uscito da una riunione. Lei minigonna, stivaletti con tacco, top, braccialetti, orecchini, collanina, pettinatura perfetta, rossetto, rimmel, phard, mascara, piercing sull’ombelico, lampade, push up, brillantini. Sotto forse c’è una donna, ma anche no. Si conoscono. Il tizio l’aggancia con una frase tipo “la mia velina preferita” e lei risponde trillando. Sgomita l’amica, mormora qualcosa, aspetta.

«Ciao bellissima, come stai?»
«Eh, dai, io bene, te?»
«Noi siamo stati all’Havana, a Trevisooo!»
«Daaai? E com’era?»
«Bello, tanta gente!»

No. L’Havana è guardare vostro figlio dentro un forno a microonde acceso che grida il vostro nome prima di esplodere in una nuvola di carne.

«Noi invece siamo state a mangiare al X.»
«Ah-ha, anche noi l’altra sera, hai visto il cameriere?»
«Guarda, c’è la Giò che si è innamorata!»
Risate.

Guardo la Giò. La Giò è un oggetto che trasmette serenità. La voglio anch’io come amica, la Giò. Mi piace. Mi potrei innamorare di questa donna. Dondola da una gamba all’altra, ti guarda, sorride e ti trasmette quella pace che solo la morte cerebrale concede.

«Giò!» grida l’amica.

Il piccolo computer collegato al cervello di Giò riceve il messaggio vocale, lo converte in impulso elettrico e spara una scarica da 300 watt al reggiseno-defibrillatore. Giò gesticola, ride, gira su sé stessa, conversa, poi si spegne. Ripiomba nella sua deliziosa, lobotomica, catatonia. Mentre nella mia testa si forma l’idea che forse Giò sta per farsi esplodere assieme agli avventori perché ha finalmente capito la cosa giusta da fare, Ario mi strattona e mi porta via, ha attaccato bottone con delle quaglie.

«Eccolo qua. Ragazze, lui è Nebo.»
«Nebo? Hihihi, è la sera dei nomi strani!»
«Tu come ti chiami?»
«Carlotta.»
«In effetti è un nome qualunque» dico.
Aargh. Facce brutte. Riprova.

«Cioè, no, nel senso, è un bel nome ma non è strano.»
«Dicevo perché la mia amica si chiama Eusebia.»
«Ah, mi spiace.»
AAARGH. FACCE BRUTTISSIME. RIFAI.

«No, momento» agito le mani «mi spiace per aver capito male, mica mi dispiace perché lei si chiama Eusebia.»
«E perché dovrebbe dispiacerti perché lei si chiama così?»
«Sì, difatti» precisa Eusebia, la donna con il nome più brutto del mondo.
«Ecco, io…»

« Che poi avresti anche avuto ragione, è un nome del cazzo, ha ha ha ha» ride Ario felice.

Le tizie si girano e se ne vanno. Io guardo a sud, là dov’è il mio cuore, dov’è la mia anima, dov’è Giò. Giò è in pista. Ogni volta che tenta di uscire, qualcuno le va addosso. Ogni volta che tenta di ballare, la stringono e non ha spazio. E’ lì, ferma, immobile, inespressiva, un fagottino di carne senza vita che deambula urtando oggetti. Comincio a pensare di attaccare discorso con quella meravigliosa creatura mentre in sottofondo Ario sta disquisendo con l’amico di Carlotta ed Eusebia che tenta di apparire minaccioso. Visto il locale ora arriverà l’amico dell’amico a fare la scena dei film americani in cui trattieni la maschia potenza. Questa manovra se la sta facendo qualcuno con le scarpe lucide non è un fattore rilevante. E’ tipo uno che ti chiede che ore sono.

Eccolo. Bla bla bla, lascia stare, bla bla, vieni via, bla bla blaaaah. Ok, fatto. I maschi portafogli tornano dalle rispettive tasche femmine tutti orgogliosi. Ario ritorna e mi ferma mentre sto puntando Giò, che ora è su un divanetto schiacciata da una coppia in atteggiamenti intimi quando, in quel momento, l’aria cambia. Percepisco che l’eterna lotta tra il bene ed il male sta per ricominciare, il vento della Storia porta il presagio della bufera divina. E’ l’eco delle grida degli uomini morti sui campi di battaglia che stuzzica le nostre orecchie. Lo yin e lo yang, ancora una volta, ancora una, si affronteranno. Il locale si fa a cerchio, la musica sfuma e fa partire Ebla. Si guardano, sorridono, e poi ci corrono incontro:

«Francesca si sposa! Ha ventotto anni! Dissuadetela, ragazzi! Ditele che sbaglia! Dàààài!»
«Ti sposi a ventotto anni, Francesca? Hai finito l’università?» mi difende Ario prendendo tempo.
«Sì!»
«E in cosa ti sei laureata?»
«Psicologia!»

I vetri del locale esplodono mentre il pavimento collassa. In un boato attorno a noi crescono dei menhir evocati dalla parola, su ognuno dei quali sono incisi milioni e milioni di parole, migliaia, milioni di microscopiche incisioni ognuna recitante un lavoro più serio di quello che quelle donne vogliono intraprendere. L’onda d’urto mi schiaccia i miei occhi annebbiati dalle lacrime leggono “assaggiatrice di veleno per topi”, “panchina umana”, “prostituta”, “fermaporta”, “divorzista”, “manichino”, “portaombrelli orizzontale”, “pedone investito”. Dio mio, sono miliardi. Francesca sorride:  «Quindi attenti, che vi psicanalizzo!»

Nella mia testa parte l’Esorcista versione gabber.

«Dobbiamo dissuaderti dallo sposarti, dici?» fa Ario «Ma scusa, pensaci un attimo: nella vita ti danno degli obiettivi, diplomalaurealavoro, e poi? Che ti resta? 15 giorni a Sharm-el-Sheik d’estate, un’amante, il divorzio? Hai corso tutta la vita per arrivare così presto al traguardo, sposarti e non avere più un solo scopo nella vita solo perché ti hanno detto che è rispettabile? A nemmeno trent’anni? –

Oh, Dio. Le amiche non sorridono più.
Francesca ha la morte sul viso, la cassettina con le offerte le penzola dalla mano.

«Sai, a volte i figli trascurano la propria felicità solo per vendicarsi o dimostrare qualcosa ai genitori» conclude con la faccia più seria che gli abbia mai visto.

L’iceberg del Titanic piomba nella discoteca esclusiva schiacciando ogni entusiasmo e io vi dico, o Francesca sta empatizzando la vita dell’ultimo Dodo sulla terra o quella è una splendida crisi esistenziale da psicologa. In quei momenti ogni cosa tu dica verrà recepita nel modo errato quindi ricorda: più positivo sarai, più farai danni irreparabili. Viceversa, più tenterai di essere cattivo meno farà effetto.

«Vabbè dai, Francesca, fregatene» dico io «tanto se stai per sposarti di sicuro saprai che lui è l’uomo giusto, ventotto anni bastano e avanzano per decidere con chi avere un figlio, figurarsi tenere al proprio fianco lo stesso uomo per il resto della vita. Ti vedo, non saresti mai una che tradisce la fiducia di qualcuno.»

Ario riceve dalle mie mani la spada di Shannara. Fende l’aria, bilancia e piazza il fendente tra mille e mille effetti speciali hollywoodiani: «E anche lui sarà innamoratissimo. A proposito, da quanto stavate insieme?»

Sì, sì, l’ha detta così. Notate il genio, la finezza: stavate.

«Cinque anni…» comunica Francesca con aria assente.
«EALLORATRANQUILLA!» dico io felice, arrancando verso il cuore del nemico «ormai sai com’è fatto, non ti riserva certo delle sorprese.»
«E poi…» inizia Ario con aria sognante, girandosi a guardarmi.

E poi tocca a me.

Tocca a me perché Ario non si agita tanto quanto me. E’ bravo, ma io mi agito. Provo enorme affetto per tutto e tutti, per ogni men c’è sempre un più. Solo che a volte bisogna cambiare l’equazione. Capelli sciolti, può voler dire come no ma non ho tempo. Presto. Hmm, gioielli sommari, roba qualsiasi.
Presto, cazzo, dai.
Orologio assente? Vestiti qualsiasi né troppo troia né troppo seria? Presto. Ciondolo a cuoricino. Forse l’ex. No, troppo vecchio stile, l’oro non va più. Nonna. Materna o paterna? Quale parte le ha compromesso irrimediabilmente l’esistenza? Manca qualcosa, un dettaglio qualunque.
PRESTOPRESTOPRES
La borsa.

Vuitton originale, roba da molti migliaia di soldi. I padri non comprano borsette. E’ la madre che ha i soldi. Molti soldi, molte assenze, molti regali per farsi perdonare. Ora o mai più: «…del resto sai come si dice, figlie e mamme fan bimbe compagne» sorrido. Il mondo cade in silenzio.
«…eeVABENVABENEVABENE così, ragazzi, grazie» dice l’amica spingendo Francesca che ora mi sta fissando con lo sguardo di chi ha appena visto il proprio necrologio «ora noi andiamo, eh? Franci, và tranquilla che non c’entra niente tua madre, qua.»

Si allontanano. Per questa volta hanno vinto i buoni.
Cerco Giò nella folla di cadaveri, ma non c’è o non noto la differenza.