La percezione è una delle qualità più rare e preziose un essere umano possa avere. Ogni secondo il cervello immagazzina tonnellate d’informazioni che degli impiegati scartano. Rumori, persone, luci, gesti, azioni vengono catalogate come secondarie e passano oltre.
La percezione è un impiegato in più nella catena di montaggio che è addetto a rovistare tra gli scarti.
Ha un ufficio tutto suo, viene interpellato di rado e si disinteressa di quello che avviene fuori dal suo cubicolo, ha altro da fare. Nonostante questo è l’unico dotato di un filo diretto con il vertice della catena di comando. Dice “so che può sembrare una cazzata, ma”. E’ quello che ci fa capire quando è il momento di baciarla, ci fa prevedere un incidente, ci fa togliere dalla porta del ristorante un attimo prima che esca il cameriere. Quando gli chiedono come ha fatto a capirlo lui scuote la testa frastornato: non ne ha idea, è solo quello che sa fare. La percezione in questo momento mi sta tempestando di telefonate, domandando con insistenza se qualcuno sa dove sono e con chi sono.
Però è probabile siano i postumi della mia prima tirata. O forse il dolore sordo che mi pulsa all’altezza del petto e mi toglie lucidità. Il dolore fisico è come le sigarette. La prima volta basta un colpo e ti annienta, la seconda volta ne servono due e così via. Nel rugby devi cominciare da piccolo per quello. Se inizi a trent’anni non importa quanto in forma sei, al primo placcaggio sei da codice rosso e sirene spiegate. Cerco di concentrarmi. E’ un mio vecchio compagno di classe, l’ho incontrato per caso in un bar dove lavoro – non è strano, per piazza Ferretto passa tutto il veneto prima o poi – poi per caso siamo andati a Jesolo, dove per caso abbiamo incontrato la Giada che per caso lo conosce. Può essere. Però le fatalità sono come le isole, togli l’acqua e sono tutte collegate. Ho l’impressione di star tralasciando qualcosa ma appena mi sistemo sul sedile una fitta di dolore resetta tutto.
«Chi non ha problemi con le donne, Ale?» chiedo «oh, scusa.»
«Di che?»
«No, che tu non hai…»
Scoppia a ridere: «Chiavo più di te, tranquillo»
«Dicevo quelle non a pagamento.»
«Le donne mica le pago per scopare, le pago per levarsi dai coglioni dopo!»
«Se sono come quelle due a Treviso ti costava meno comprare una catapulta.»
«Costano meno della tua. Te per un pompino quanto credi di spendere tra tempo, cene, aperitivi, benzina e regalini? Mica te la danno gratis. E poi è più divertente. Quello che vuoi, hai. Non c’è “nel culo no perché non mi piace”. Non c’è “non mi va”. Poi cosa c’è di più affascinante che vedere una persona contorcersi e dimenarsi per tre pezzi di carta? Sai che in Giappone ci sono mignotte che partoriscono a comando?»
«Eh?»
«Sì. Sai, restano incinte. Quando gli si rompono le acque si crea istantaneamente una specie di asta per chi vuole assistere… comodamente, diciamo – spiega alzando e abbassando il pugno – o partecipare in vari modi. C’è anche in tanti paesi dell’est. Del resto ci sono quelli che si eccitano immaginando di essere mangiati, questa mi sembra tranquilla»
«Mangiati?»
«E’ diffusissima. Non solo il vore, ti ricordi in Germania il tizio che ha messo un annuncio in Internet? Papale papale, cerco gente disposta a farsi mangiare, punto. Hanno risposto in centinaia. Lui ne ha scelto uno, si sono trovati, prima gli ha tagliato l’uccello e se lo sono mangiati insieme, poi l’ha accoppato e c’ha fatto colazione. Si chiamava Meiwes qualcosa. Armin Meiwes, mi pare»
«Non è vero»
«Lo è. Ed è bellissimo.»
«…cosa?»
«E’ bellissimo. E’ una bellissima dimostrazione di quello che la mente umana può concepire dal nulla. A volte sono i viaggi nello spazio, a volte sono il cannibalismo. Sono la stessa cosa. Tu credi che gli scienziati della NASA si facciano le seghe guardando porno? Cristo, come minimo obbligano la moglie ad incularseli con un dildo a forma di Shuttle. O vivi fuori dagli schemi o ci stai dentro, non esistono vie di mezzo. E’ quello il bello, che parte tutto da un’idea. La dici, poi la metti in pratica, poi ti abitui a farla, poi diventa una tua caratteristica che decide la tua vita. Diventiamo quello che pensiamo, Nebo. Oppure diventiamo quello che pensano gli altri.»
«Quindi dici che è meglio essere un cannibale di un barista.»
«Una non esclude l’altra. Si dice sempre “un tranquillo impiegato di banca” e poi salta fuori che hanno segato e seppellito prostitute per mezzo triveneto. Nessuno dei vicini di casa dei serial killer ha mai detto “si vedeva che era sbroccato, aveva la cresta rossa e le catene”. Macché. Brave persone tutte casa e lavoro, tipo Michele Profeta. E’ solo che la testa o sta nella scatola o non ci sta, non importa dove sia il corpo. Guarda là fuori, che vedi?»
Guardo dal finestrino. Buio. Campi. Meravigliose colline italiane, fertili e rigogliose. File e file di vigneti che nel sole dell’estate sono uno spettacolo per gli occhi e circondano piccoli paesini sperduti nel nulla, dove senza macchina uscire è impossibile.
«Campi e paesini.»
«Ecco. T’immagini vivere lì? Non c’è niente. Una chiesa e un’osteria. Internet non arriva. La TV funziona si e no, la corrente elettrica c’è arrivata solo nei primi anni ’70. Quando sei lì hai un sacco di silenzio attorno – e dentro. Da quei silenzi, qualcosa potrebbe nascere. Dalle brave persone non è mai uscito un cazzo di niente, sono la fine della catena alimentare. Un insieme di animali che si rispettano l’un l’altro perché sguazzano nella merda cagata da un dinosauro che non li capisce. Tra loro c’è chi fa il verso al dinosauro, chi lo venera, è irrilevante. O lo sei o non lo sei. Adolf Hitler si faceva pisciare addosso. Napoleone chiedeva espressamente a sua moglie di non lavarsi qualche settimana prima di arrivare a casa a scoparsela. Ghandi odiava i negri, si scopava ragazzine e adorava farsi inculare da un culturista. Ebreo. D’Annunzio poi manco ne parliamo. Le persone mediocri sono mediocri anche nei difetti.»
Forse ho le allucinazioni.
Forse tutto questo è un delirio, in questo momento sono in pronto soccorso imbottito di antidolorifici che gorgoglio puttanate ad un’infermiera con le tette grosse ed un lavoro normale. Sarebbe bello. In realtà dentro di me c’è qualcosa di peggio, uno di quei sussurri che senti prima di addormentarti e soffochi nel cuscino perché domani devi alzarti presto. Domani devi slegare i tavolini del bar che la sera rimetterai a posto in questa bellissima estate dei miei vent’anni. L’università, l’aria, le cosce della Miriam, era tutto così bello prima di salire su questa macchina. Tutto aveva un senso, un luogo, un posto.
Tipo il mio premolare sinistro.
«Tu quando vai a letto con una donna credi di essere nudo?» domanda Ale.
«Stando alla mia esperienza, sì.»
«E invece no. Sei nudo quando dici chi sei, non quando ti levi un vestito. Sei nudo quando chiedi ad una puttana di chiamarti “papà”, non quando scopi a pecorina una stronza con cui parli di economia per far colpo. Per questo tanti divorziano. Puoi fingere di essere qualcosa che non sei solo per un periodo limitato di tempo, poi smetti e la persona che hai a fianco chiede
«E’ un circolo vizioso. Conosciamo le persone per i loro pregi. Sono belle, educate, ricche, intelligenti… tutte cazzate. Tutti i pregi si possono fingere, per un po’. I difetti invece sono genuini. I difetti ci dicono chi siamo.»
Una voce nella mia testa inizia a dirmi che ascoltare quest’uomo, forse, è più pericoloso che fare un tiro di bamba o farsi pestare da dei buttafuori. Perché dentro di me sta succedendo qualcosa che non deve succedere per nessuna ragione al mondo.
Fitta.
«Ahoia» gemo.
«Che hai?»
«Mi fa male qui, punge.»
«T’han conciato bene. Dai, non pensarci.»
«Una parola.»
«Se il discorso non ti piace lasciamo stare, eh!»
Ecco, questa è una bella domanda.
Mi piace, questo discorso?
Bologna ci accoglie come tutte le città grandi italiane. Uno scorcio di periferia squallidina, un centro storico stupendo. Sono le quattro di notte, ma in giro è ancora pieno di macchine e studenti che sbraitano ubriachi. Molliamo la macchina in un parcheggio a pagamento, due piani di cemento armato sotto i pavé bolognesi. Fa un caldo umido soffocante. Scendo dalla macchina con un gemito, facciamo le scale ed usciamo. La mia camicia attira gli sguardi, ma la faccia e le ferite dissuadono dai commenti. Ale va sul sicuro e mi guida attraverso un dedalo di viuzze che per me hanno nomi incomprensibili. Bar, locali, volantini, bottiglie vuote, studenti sbronzi che si fanno canne per strada senza problemi. Mi piace, Bologna. Ora devo solo capire che ci faccio qui.
«Allorallorallora, il locale dovrebbe essere da queste parti. Cerca una specie di scultura romana piena di fica che esce con un bicchiere. No, petta, non serve. Eccolo lì!»
All’ingresso rimango incredulo. Sono nelle fogne romane. Anzi, in una cripta. Statue, pietre, candele, teschi e decine di stronzi che ci bevono tra luci viola e musica elettronica in sottofondo. Ale puntualmente sparisce, così mi siedo ad un tavolino ad aspettare. L’età media è la mia. Al tizio vestito di nero con grembiule dico una birra, che mi arriva insieme a mora&bionda vestite da studentesse giapponesi. Tra tutti, queste mi guardano più con curiosità che con orrore.
«Ehm, questo sarebbe il nostro tavolino» dice la mora indicando la sedia al mio fianco.
C’è una borsa.
«Scusami, non l’avevo vista» dico, alzandomi.
«Va tutto bene?» domanda lei, guardandomi incerta.
«Sì, ho solo litigato con un buttafuori. Non fidarti delle apparenze, vedessi come sono ridotte le sue nocche.»
L’altra sorride.
«La camicia invece l’ho presa a Jesolo perché il sangue spaventa i camerieri, solo che ora questa spaventa le ragazze.»
«Non è così tremenda…»
«Questa bugia vale un drink» dico «facciamo tu caipiroska e lei mojito.»
Si guardano, titubanti: «Ma sei qui da solo?»
«No» dice Ale, dietro «è male accompagnato. Non so se possiamo raccontare in giro quello che è successo stanotte, Nebo.»
All’esame visivo Ale sembra tanto una brava persona. Mora e bionda si siedono, io ordino da bere domandandomi se finiremo tutti e tre squartati da qualche parte. E indovina indovinello, non ci vado così distante.
[continua]