12. La locanda sul porto



Montecarlo, Monaco
ore 16.40


I francesi sono patriottici.
Basta saper dire “viv l’amur, viv la fràns, sciampagn, laboratuar garniè paris, uì madam” e sai parlare francese, il resto della comunicazione è di contorno.

Nelle città ci sono le stesse persone che vestono le stesse marche nello stesso modo. Solo incredibilmente più fighetti. Nulla di cui preoccuparsi. In Francia per strada ci sono più ricchi, nei piatti c’è molto più burro e per terra potresti mangiarci. Queste profonde riflessioni attraversano il mio cervello mentre percorro la strada con Solero scrutando la fila di macchine, camper, autobus e furgoni incolonnati mentre il meraviglioso mare si stende alla nostra sinistra.

Non credo abbia più speranze di ritrovare lo zaino di quante ne abbia io, ma appare calmo.

Stranamente, irrealmente calmo.

Calmo come una bomba atomica che lenta e quieta scende su Nagasaki dove paciosi cittadini dal viso identico svolgono le loro quotidiane abitudini tra giardini zen e cinguettar di uccellini. Un refolo di vento, un lampo che potrebbe essere il sole riflesso su una finestra e invece è Danny Boy che ha raggiunto il suolo, portando la temperatura a 45.000 gradi fahreneit, carbonizzando ogni forma di vita e trasformando i giardinetti zen in un parcheggio dell’Auchan lungo molte miglia.

«CERTO CHE E’ BELLO QUI VERO?» dico, spontaneo come un ostaggio in Iraq.
«No».
Proseguiamo.
Montecarlo trasmette POTERE. 
Girare per le strade di Montecarlo ti fa sentire come il quarantenne-anima-dannata che sbava sotto al palco di una spogliarellista bellissima, straniera, irraggiungibile senza l’American Express Platinum. Gli uomini per strada son quasi tutti sulla cinquantina, cicciotti ed accompagnati da sberle di donne che vedi solo nelle riviste. Per le strade di questo paradiso affacciato sul mediterraneo giriamo io vestito come un operaio e Solero, un metro e novanta di stecchino pallido con gli occhi azzurri che pare un motociclista sperduto. Scrutiamo la folla, la strada, la coda. Ci muoviamo tra esseri di un altro mondo che cambiano marciapiede se li fissiamo per più di tre secondi. La coda ricomincia a muoversi e noi abbiamo percorso trecento metri senza trovare il furgone di tedeschi canterini. L’auto di Ario si affianca. Non abbiamo voglia di andare avanti. Tre birre piccole, un caffè.
«…e facciamo un gelato»
«Alle sei di sera? Mangiati un tramezzino»
«Mangiati una merda»
Eccitati per essere in luoghi sconosciuti, disperati per aver perso una valigia di soldi, tutti facciamo spallucce pensando “che mi frega, tanto è amico suo”. L’unico ad essere sprofondato in un silenzio pressoché totale è Solero che con occhiali da sole e mascella serrata scruta la zona come terminator. Le nuvole in cielo s’ingrossano e ringhiano. Siamo un po’ troppo stanchi e depressi per dormire di nuovo in macchina, così chiediamo al cameriere se esiste un ostello.

«Qui? Non saprei»

«Sa a chi potremmo chiedere?»

«Qui? Non saprei»
«Sa dove potremmo dormire che costi tipo… pochissimo?»
«Qui? Non saprei»
«Quant’è una birra piccola?»
«In lire? Cinquemila»
«Ah, questo lo sai»
Dedichiamo il resto della giornata a cercare un posto dove sia possibile dormire. Escludiamo alberghi di ogni tipo, gli ostelli a Montecarlo sembrano non esistere. Alle otto di sera la prima goccia di pioggia centra il mio cappello. Dal cielo cominciano a lanciare secchi d’acqua. Fuggiamo per le stradine in cerca della 127 parcheggiata vicino ad una Lamborghini Countach ed una Maserati blu dal valore pressochè incalcolabile. Scendere arrivando al centro del porto di Montecarlo è uno spettacolo abbastanza impressionante perché pare il Grand Canyon. Palazzoni altissimi tutti attorno a yacht di tre piani da cui una volta esce una stangona in topless, bicchiere di champagne e sigaretta.
«AH BELLISSIMAAAAA!» urliamo di corsa sotto la pioggia.
Lei non si gira, continua a fumare con una naturalezza che trasmette senza possibilità d’errore quante possibilità avremmo con lei e qual’è la nostra posizione nella scala sociale. Per la prima volta in vita mia mi sento un escherichia coli. Arriviamo alla 127 fradici, partenza alla disperata. Un paio di chilometri e la banchina ricomincia ad assumere i contorni del pianeta terra. 
«…ho fame»
«Io ho freddo»
«Eh, e io ho sonno, bambini, piantatela di rompere i coglioni»
Pioggia scrosciante.
«Non ce la faccio più a stare qua dentro» fa Atza. Tono nervoso, sgomita Solero.
«A Montecarlo non è che puoi pretendere di trovare l’ostello della mestizia col posto letto a mille lire e cuscino a parte»
«Io lo odio ‘sto posto, ti fa sentire uno schifo»
«Anche perdere uno zaino con dentro un milione aiuta»
«Nebo, cerca di tenere fermo l’impermeabile»
Piove sempre di più. 
Proseguiamo a passo d’uomo mentre un muro d’acqua si rovescia su di noi e onde entrano dal finestrino rotto dritte sui miei pantaloni. Non so più se siamo in una 127 o in un vascello. In macchina la pioggia urla il furore degli dei e dobbiamo gridare per capirci. Fuori inizia a fare buio. Ario sta per fermare la macchina ed io penso che moriremo quando nel nubifragio leggiamo un cartello in legno: la belle oie, 100mt. Una freccia verso il basso indica una stradicciola che scende verso il molo con due tornanti. Ci troviamo in uno spiazzo con un capannone crollato a metà pieno di bancali marci, erbacce e barchette da pescatori abbandonate. La locanda “la belle oie”è lì di fronte: si presenta come una topaia in legno e pietra che sta in piedi per miracolo. 
Dall’interno, se non altro, proviene luce.
Intima, vissuta, coccola e soprattutto rustica. Una decina di tavolacci da sagra, lavato negli anni 70, un tanfo di cucina da basso prezzo, tabacco stantio, sudore. La gente ai tavoli è perlopiù autoctona, pescatori o lavoratori del porto. L’oste, una donna che pare un uomo e batterebbe tutti e quattro a braccio di ferro viene avanti facendo risuonare le assi del pavimento.

«Volete mangiare?»

«Anche. Prima, senta… noi, mettiamo che volessimo forse un giorno mica oggi, però tipo non so, prendere una stanza da dormire, quanto verrebbe, quel giorno? Una notte sola, eh»

 «Non ho capito»
«Quantovieneunastanza?»
«Trentamila lire a testa»
Ario si gira a guardarci. Tre teste si scuotono impercettibilmente.
«Ma nemmeno un posto meno lusso, qualcosa di simile ad un fienile o una stalla»
«Signora, va bene anche un materasso in corridoio» intervengo.
La donna ci osserva con più attenzione ed intravedo sotto strati di lardo, vino e pelo un barlume di compassione femminile. Il fatto di essere giovani, tremanti e bagnati aiuta.
«Quanto sareste disposti a spendere?» domanda, mani sui fianchi.
«Tipo diecimila lire in quattro?»
La donna alza un sopracciglio e sbuffa una risatina.
«PERO’ POSSIAMO FARE QUALCOSA!» dico, lanciandomi in avanti «guardi, siamo giovani, forti, onesti. Lei ci dà due… una. Una stanza in quattro per una notte, una cena e noi le laviamo i piatti, le sistemiamo il cortile, le falciamo il prato. Quello che vuole. Quello che ha bisogno, ha trovato quattro braccianti»
I miei sono statue di sale. Il tavolo di tizi più vicini si è girato a guardarci.
«Braccianti» ripete la donna, divertita.
«Sì. Come una volta, chi non aveva i soldi lavava i piatti, no?»
«Una volta non c’era la lavastoviglie. E comunque non posso, perché…»
«Le sistemiamo il cortile»
«Quale cortile?» domanda la donna, civettuola.
«Quel cacaio là fuori che pare un accampamento zingari»
Grazie, Ario.
«Ecco, eh» dico, a corto di argomenti nuclearizzati dal mio amico «veda lei, signora»
«Se anche volessi, diciamo perché mi siete simpatici» mugugna «chi mi dice che non ve la filate?»
«Le lasciamo le nostre carte d’identità. Se le tiene fino a domani»
«Guardate che qui si lavora»
«Va benissimo»
«Mi mettete in ordine la cantina e la legnaia, ma domani, adesso piove»
«Sì. D’accordo. Ora, sempre se le va bene…»
«Avete fame» sorride.
«Non mangiamo da stamattina»
«Vi porto qualcosa»
Pasta pasticciata e cotolette. L’ingresso di proteine nel nostro organismo viene salutato con squilli di trombe. Beviamo acqua, sterminiamo due cestini del pane. Si siede al nostro tavolo il marito, un tipo baffuto con l’aria del militare. Ci squadra, ci ascolta. Sembra capire. Finita la cena ci porta sul retro e ci mostra la legnaia, un ammasso di legni dietro una rete verde corrosa dalla ruggine che sta crollando. La cantina è anche peggio, mobili e cesti accatastati ed ammuffiti. In realtà, niente che quattro adolescenti non possano sistemare in una giornata. Alle 23 il tizio fa spallucce, non hanno clienti last minute quindi delle loro quattro stanze adibite ad albergo solo due sono occupate da turisti. Saliamo le scale, ci troviamo in un corridoietto spiovente. La porta bisogna spingere per riuscire ad aprirla, le stanze sono doppie con letti separati. Io ed Ario nella 3, Atza e Solero nella 4.
«Il bagno è in fondo» dice l’uomo «ha anche la doccia»
Doccia. Calda. Ci si illuminano gli occhi.
Litighiamo su chi sarà l’ultimo e su quanto tempo si ha a disposizione. Accordati non più di cinque minuti a testa. Vedo i miei amici entrare e vedo uscire non morti che mancano di anima, raziocinio o ragione ed il loro unico desiderio è dormire. Dormire. Dormire. La doccia è un orgasmo senza precedenti, minuti orgiastici che mi fanno uscire in coma, dimentico del fatto che sono in una locanda. Passo seminudo davanti ai turisti della 2, un branco di crucchi felici che sghignazzano. Raggiungo il letto, Ario che sta già russando. Appoggio la testa. Buio.
“Auf wiedersehen, adieu, goodbye, wir fahren ta ta ta”, cantano nella stanza a fianco.