06. Vamos a la playa

Da qualche parte in Liguria, verso le 13.00

«Avete mai pensato, tipo, alla morte?» fa Atza dal nulla.
«Occhio che parte col Valhalla»
«Metallari merda»
«ELLAMADONNA, per una volta che uno prova a-a… a dire qualcosa che…»
«Atza, vai avanti»
L’autostrada scorre quieta sotto le ruote della 127.

«Ci sono un sacco di modi per morire, no?»
«…sssì»
«E’ un migliorare continuo, ‘sta conversazione»
«Ma solo a me prudono i coglioni?»
«Vabbè, lasciamo stare»
«ARRIVA AL PUNTO, ATZA, DAI, PAR CHE LO FAI APPOSTA»
«Il punto era Manolo»

Manolo è uno dei tanti truzzabbestia da provincia violenta senza personalità o carattere, tipo le scimmie del borneo. Quelli che tengono la voce in gola per sembrare più duri, ce ne sono in ogni città. Li trovi nei titoli della domenica mattina, “GIOVANE MUORE IN INCIDENTE STRADALE” o “ACCOLTELLATO DURANTE UNA RISSA”. Cose così. Si ammazzano tra loro senza motivo, mollano scuola a 13 anni per andare a lavorare in officina ed avere più soldi di tutti. Noi, avendo come posto di ritrovo una sala giochi, avevamo a che fare con questi soggetti quotidianamente. Il motivo per cui fin da allora sconsiglio a tutti di donare gli organi è che se stai per tirare le cuoia di sabato sera è probabile usino i tuoi resti per salvare uno di questi individui. Arrivano verso le cinque del mattino in pronto soccorso con una lamiera nello stomaco o un coltello nella milza o un cuore esploso.
Non voglio privare la terra del mio fertilizzante per salvare questa gente.

«Manolo? Mbè, non è crepato?»
«Sì, ma è il COME che mi… cioè…»

Manolo stava trasportando quei francobolli da mettere sulla lingua che ti fanno avere buffe visioni tipo angurie che ballano in centro pista o Gremlins che t’inseguono. Se li era attaccati addosso con lo scotch per non farsi sgamare. Il sudore ha rilasciato le sostanze psicotrope in blocco, che assorbite dalla pelle lo hanno ucciso.

«Da idiota»
«Sì ma chissà cosa vedi, in quei casi. Tipo il cielo che si apre e la mano di Dio che ti tira»
«Eh, son soddisfazioni»
«Meglio di un platano»
«Ma il platano è sfiga, qua è lui che si era trasformato nell’uomo droga perché era un povero idiota, cambia un bel po’»
«Difatti, notoriamente i platani attraversano la strada all’improvviso»
«Dimmi cosa c’entra»
«C’entra che anche il platano lo prendi per idiozia, è la stessa cosa, se sei in moto a 130 e pigli un dosso fai un volo che fai prima a crepare di asfissia nello spazio. E’ sfiga? No. E’ che sei stronzo e te le vai a cercare»

«Ehi» dico.
«MA SARA’ DIVERSO, vedi una zoccola, ti giri e sbandi un attimo, pciack. Sarà diverso dal mettersi cartone per cartone sulla pelle con lo scotch, quanto ci metti, tre ore? Quattro? Non ti viene in mente come funzionano?»
«Ehiiiii»
«COSA C’E’?»
«A sinistra. Il mare»
E’ vero.

Siamo sulla costa ovest. L’istintivo benessere derivante dalla vista dell’acqua salata ci ammutolisce. Un silenzio religioso, irreale, davanti alla più bella e grandiosa espressione della natura. La 127 corre con i suoi dignitosissimi 100 chilometri all’ora e per un pezzo non succede niente, finché a me vien voglia di andare in spiaggia e fare un bagno.

«Quale spiaggia?»
«Che ne so, è tutta spiaggia, esci ad un casello»
«La volta che siamo usciti ci hanno sfondato un finestrino»
«La seconda tu hai giocato ad Airton, quindi?»
«No, fioi, serio, non mi ricordo più come si cammina»
Mozione popolare approvata.

Pineta. Rocce brulle. Triangoli e trapezi di cielo azzurro, gente in costume. Avere un finestrino sfondato è un problema, se devi parcheggiare. Si sa mai. Scegliamo di lasciare la macchina in una pineta isolata, con il lato malandato coperto dagli alberi. Lo striscio del passaggio a livello bresciano sul tettuccio, l’auto che fa già schifo di suo, nel complesso pare abbandonata o zingaresca. Appurato che nemmeno un barbone la userebbe per dormire ci armiamo di costumi, asciugamani, stereo e via. Entriamo urlando come scimmie, attraversiamo spiaggia e file di ombrelloni mentre grida di gioia si tramutano in dolore a causa della temperatura della sabbia: “viva la figa”, “semo drogài”, “desso ‘riva Venessia”, scagliamo tutto per aria e planiamo in mare tranne Solero che si tiene lo zaino tatuato addosso. Stiamo un po’ a picchiarci in acqua finché notiamo cinque ragazze sulla sinistra. Carine. Stan giocando a palla e lanciano continue occhiate dalla nostra parte. Ridacchiano, parlano tra loro, palleggiano, guardano di nuovo.

«Che cazzo ridono, ‘ste stupide?» faccio.
La loro palla vola dritta da noi. Atza la raccoglie e la rimanda indietro. Ricominciano a giocare. Al secondo palleggio la palla è di nuovo da noi.

«Va bene, cerchiamo di non mandare tutto a schifo» fa Atza salutandole con la mano «andiamo lì e cerchiamo di fare i simpatici»
«Non posso» fa Ario con voce rotta «…non posso»
«Come “non posso”, che hai?»
«La brocca, fioi. Ho la brocca che pare di marmo»
Esce per un istante dall’acqua. Oh, Dio.

«Ma come?»
«EH NON LO SO COME, COME QUANDO VEDO TUA MADRE»
«Ma è duro duro?»
«CI SPACCO CASSAFORTI CON ‘STO MARTELLO, VA BENE?»
«Fattela passare in fretta, te prego, Ario, non ci ricapita una così»
«Cosa faccio, mi tiro una sega?»

Le ragazze aspettano il pallone. Una grida.
«Ommadonna, le vagine fremono. Nebo, guadagnamo tempo, tira la palla lontano»
«Perché devo fare la figura dell’incapace?»
«ALLORA TIRALA A SOLERO!»

Giusto. Solero è seduto sulla sabbia che si guarda attorno tenendosi lo zaino tra le braccia. Bilancio. Calcolo il tiro. Non devo puntare lui, devo fargliela rimbalzare davanti. Sparo.

…no.

 

 

No, onestamente.
No.

 

 

 

 

 

Ora si spostano.

 

 

 

 

 

 

«Spostati» mormoro.

 

 

 

«Fioi, FIOI, COMINCIATE A C