Paura e disgusto a Trapani (2/3)

 

Il catamarano sfiora la superficie dell’acqua a quella velocità che ti sposta dalle fail compilation al tavolo dell’obitorio. Tra me e il mare c’è solo una rete di corda sfilacciata a cui sono aggrappato convulsamente. Schizzi d’acqua salata mi piombano addosso rendendo difficile respirare e vedere. Provo una sensazione di onnipotenza e libertà che non è descrivibile a parole, mentre cavalchiamo onde come fossero studentesse universitarie. Il mio istruttore diceva che gli inglesi sono i migliori marinai del mondo, ma vederli all’opera è uno spettacolo senza precedenti. Il completo, assoluto dominio dei due elementi è grandioso, umiliante ed esaltante.

«YOU’RE HEEEERE, THERE’S NOOOOTHING I FEEEL»
«Nebo, shut up!»
«AND I KNOOOW THAT MY HEART WILL GO OOOOOON AAAAAND»
«SHUT THE HELL UP!»

Il catamarano di Luna Rossa si avvicina a velocità spaventosa e non mi importa niente. Trapasserò come un eroe. Alzo le mani al cielo e comincio a cantare Titanic. Dal palco le telecamere inquadrano un catamarano inclinato su cui c’è un tizio con un sorriso folle che sbraita qualcosa mentre impatta sull’acqua a mezzo millimetro da Luna Rossa, quasi uccidendogli il timoniere e salutandolo felice. Sono io. Arriviamo così vicini che gli ho visto le corna, ci guardiamo con astio e io gli faccio ciao ciao con la manina, poi lo scafo tocca di nuovo l’acquaUn pezzo della scena lo trovate qui, pochi minuti prima del botto. Sono quello al centro in basso.

«Nebo, what the fuck» fa David, tirandomi un coppino.
«YOU SHOULDER SING WITH ME»

Il nostro catamarano riceva una penalizzazione per la manovra troppo azzardata. Alle nostre spalle Luna Rossa manda improperi in romanesco. Ci rimettiamo in posizione per la prossima virata, più potente della prima. La bora s’è alzata, tanto che il catamarano rischia di scuffiare. Questo giro devo correre da una parte all’altra e non ho tempo di tenere alto il morale con le mie qualità canore.

«Ok ladies, ready in three, two, one, and go»

Il gennaker si apre con uno schiocco che pare una frustata. Lo scafo reagisce istantaneamente, sobbalzando. Per un attimo siamo tutti e cinque per aria, e in quel secondo mi trovo a poppa che quasi volo fuoribordo. L’arabo stringe la cima, ci affianchiamo ad Alinghi con la vela che è già troppo tesa. Lui vira secco, obbligando Ben a rallentare. In teoria. Non è molto diverso dai sorpassi in autostrada, quando sei in corsia di sorpasso e vedi uno dietro un camion con la freccia.

«NON OSERAI» dico in italiano «NO STA NIANCA A PENSARGHE»
Ben osa.

Molla di nuovo il gennaker, la bora lo ingravida e derapiamo in virata, inclinandoci sempre più. Non accenna a rallentare. Alinghi vede la manovra e tenta di chiudere ancora più stretto, ma non può perché col vento a ventidue nodi rischia o di lascare la vela o di trasformarsi in un aquilone diretto verso la Libia. Ci infiliamo in mezzo con una tale brutalità che vi dico, secondo me la moglie di Alinghi dopo quella roba poteva darci del tu. Questo giro è nostro, rallentiamo serrando il gennaker e a bordo applaudono. Sono carico come uno sotto metanfetamine per il terzo round, ma un gommone si affianca e pretende che io torni a terra perché il vento è davvero troppo forte. A malincuore abbandono i ragazzi e torno sul molo, dove gli altri giornalisti mi guardano con un odio. La tipa dell’agenzia accorre preoccupata, ignoro tutti e mi dirigo al free bar per vedere come se la cava l’equipaggio. Entro col suono delle scarpe fradice che spruzzano acqua ad ogni passo. La maglietta è zuppa, così me la levo.

«MOJITO, PLIS» faccio al cameriere.
«Sir, it’s only two ‘o clock»
«I KNOW I’M ITALIAN WE HAVE CLOCKS»
«Yes, but…»
«DONT MAKE ME SING PO PO PO PO PO POOO»
«Oh God no, here» dice, mettendosi al lavoro.

Sgocciolo acqua salmastra tra gli sguardi inorriditi della security, le ragazze dello staff che ridono cercando di non farsi vedere e decido che sarebbe il caso di asciugarmi.

 

 

 

Esco, stendo maglietta e scarpe sul cornicione e rimango in pantaloncini ad aspettare si asciughino. Alinghi se l’è presa di brutto e fa un giro che non lo pigliava manco un siluro. Uno dei colleghi arriva con la morte in faccia.
«EFISIO» domando, terrorizzato «COME STA, EFISIO?»
«Nebo, non ci si comporta così. Se noi diciamo che non ce la sentiamo di andare anche tu non dovresti dirlo, perché così abbiamo fatto tutti la figura dei pirla. Se eravamo compatti quelli dell’agenzia magari ci facevano restare un giorno in più, adesso ci hai lasciati in mutande. Non siamo nemmeno riusciti a parlare col portavoce del sultano»
«My friend!» dice Danny Trejo delle televisioni «did you enjoy the ride?»
«SHIT YES»
«Do you want something to drink?»
«I ALREADY HAS IT»
«Come with me, then, my boss want to talk to you»

Ci sono battute che si possono fare. Altre che non si dovrebbero fare. Altre che rovinano tutto. Altre che garantiscono risse e morti orribili. E’ per questo che dalla mia bocca esce
«WHY? I DON’T WANT TO BE BEHEADED ON YOUTUBE»






























Il barista si gira. Le ragazze dello staff hanno occhi come gufi. Il giornalista al mio fianco smette di respirare. Quelli nella vip lounge sbiancano. I catamarani si scontrano nel silenzio absidale. Per un attimo Danny Trejo assume l’espressione docile e paciosa di Osama Bin Laden quando imbracciava un lanciagranate, poi ridacchia e mi fa cenno di seguirlo.

«Chi è il suo boss?» domando a denti stretti.
Il collega è sul verdino.
«Il portavoce del sultano»
«HERE I CAM!» dico al plantigrado.

«Nebo» fa il giornalista «così ci si fanno un sacco di nemici, questo non è giusto»
«QUESTO E’ MENSHEALTH!» rispondo, e con un calcio lo scaravento giù dal balcone.
No, non lo faccio.
Mi incammino e basta.

Passo davanti ai colleghi che se gli sguardi uccidessero starei bruciando all’inferno. Entro nella sala in bermuda con le scarpe che gocciolano dal collo. Dentro si respira un profumo di incenso misto limone. L’arabo che muove la baracca è quello piccino col sorriso facile. Vengo presentato dal cicciabomba che gli dice qualcosa in arabo, quello gli fa una domanda e il colosso gli risponde ridendo. A quel punto ride anche lui, ridono gli arabi che sono seduti sul tavolino a fianco, io mi guardo attorno cercando di vedere dov’è la telecamera. Mi siedo.

«So you’re the funny guy from Venice» esordisce «you don’t look like a journalist»
«ITS BECUASE AIM JUST AN EXPENDABLE IMBECILE»

Chiacchieriamo in inglese per un po’, vuole sapere per quale testata scrivo. Spiega che a lui e ai suoi sgherri piace un sacco il mio senso dell’umorismo, che in Oman ha un nome tutto particolare e ci fanno interi cabaret. Sospetto si chiami “1000 motivi per una jihad”, invece è tipo “il buffone di corte”. È proprio una corrente di umorismo che è fatto apposta per suscitare indignazione, offendere, scandalizzare, e i pochi che osano farlo sono strapagati e resi quasi intoccabili dalla protezione dei principi, che spesso li invitano a cena apposta per molestare gli ospiti. Il resto della giornata scorre senza niente da rilevare. In camera leggo che noi siamo arrivati secondi, ma ha vinto Alinghi perché le corna sono una grande motivazione. Doccia, qualche appunto, due minuti dopo sto russando.

Giorno 2, Trapani
Alle sette plano tra i tavoli della colazione a buffet. La voglia di lavorare dei camerieri ricorda i tempi del servizio civile, ma sticazzi. Finisco in fila dietro il tisico comunicatore che sul piatto ha muesli, tè e frutta. Lo sapevo, è gay. Efisio sembra ristabilito, siedo con lui e gli racconto tutto. Si parte. Arriviamo nella hall con le ragazze dello staff che ridono a vista. Sono fastidiosamente lucido. Prima che io possa rimediare a questo inconveniente scopro che mi hanno messo alle calcagna una tizia che ufficialmente è delle pierre, praticamente è il mio cane da guardia. Ovunque vado, lei va. Indossa quelle orripilanti scarpe da ginnastica anatomiche con le dita di fuori per cui la ribattezzo Bigfoot.

«SO WHERE ARE YOU FROM?»
«Essex»
«WHY DO YOU WEARING BONER KILLER SHOES?»
«Still drunk from yesterday?» domanda con un sorriso finto.
«PLIS DON’T BE MAD FOAR MY ANGLISH IT CAN’T BE WORST THAN LOOKING AT YOUR SHOES»
«You know everybody hates you, do ya?»
«A WOLF DOESNT CARING ABOUT OPINIONS OF SHIPS»
Chiude gli occhi con una smorfia: «Sheeps. Ships doesn’t have an opinion»
«HOW DO YOU KNOW THAT»
«Yes, yes, whatever, just try to avoid alcohol for today»

Mi passa vicino il sessantottino: «Oh, Nebo, indovina chi ha due pollici e oggi farà il quinto uomo? Se muà!»
A quanto pare il mio compito oggi sarà non fare un cazzo, fingere di guardare la corsa e liberarmi di Bigfoot. Medito il da farsi. Gironzolo per il porto osservando le attività di preparazione.
«OF WHO IS DIS CATAMARAN?» chiedo a Bigfoot.
«Try to read the sail, would you? L-U-N-A-R-O-S-S-A. It’s not that hard»
«IM ALWAYS HARD BABY»
«Oh, for God’s sake» dice, retrocedendo.

Arriva il mio equipaggio, tutti allegri salutano sbracciandosi e dicendo che ieri si sono divertiti un botto. Colgo l’occasione per fare qualche domanda. Cosa gli piace del mare, se hanno famiglia e come se la vivono, quanto conta nascere in Inghilterra, non ho ancora fatto in tempo a domandargli se preferiscono Sasha Grey a Roxy Raye che il sessantottino ripassa, smadonnando. Chiedo che è successo.

«Troppo vento, non fanno salire nessuno»
«GUYZ, MAY I COME WITH YOU?» chiedo a Ben.
«Too much wind, Nebo» scuote la testa.
«I DONT FEAR DEATH, I FEAR DIS WOMAN» dico indicando Bigfoot che diventa paonazza.
Saluto lei e i miei colleghi dal catamarano che si stacca dal porto.
Loro non ricambiano.
[continua]