La bionda si chiama Chantal, l’altra Nadia. Tutte e due sono al terzo anno di scienze politiche. Chantal ha due tette da competizione ma è silenziosa, Nadia ha una conversazione discretamente trucida e spigliata. I drink arrivano al terzo giro ed ormai ho abbastanza alcool in corpo da trasformare il dolore in un vago intorpidimento. Le braccia sul tavolo si fanno più vicine, i sorrisi più convinti, le tette di Chantal mi tengono su di morale. Stiamo andando bene. Ale racconta che fa il PR, una versione light della realtà. Sta ciarlando di un appartamento quando colgo l’occasione al volo, mi scuso e vado in bagno.
I cessi somigliano ad una sauna turca, mi caccio dentro quello degli handicappati e tiro fuori il cellulare. La Gioia è sotto la voce NonDaSbronzo. Squilla una, due, nove volte, poi risponde la segreteria telefonica del numero. Starà chiavando col tipo. Rimango in stato catatonico per una decina di secondi, la schiena appoggiata alle pietre, incapace di pensare. Il dolore si fa sentire come un padre pensionato che all’improvviso ha troppo tempo libero. Sto pensando di tornare quando il Nokia mi squilla in mano.
NonDaSbronzo.
«Gioia, ho bisogno che mi dici chi è quel tipo.»
«Dimmi come lo conosci TU, piuttosto!»
«Te l’ho scritto, eravamo in classe insieme.»
Istante di incertezza, poi: «cos’hai fatto al labbro?» domanda in tono dolce, memoria di un tempo che non esiste più.
«E’ stata una serata difficile. Ora non posso parlare. Dove l’hai conosciuto?»
«E’ stato a girare per una settimana davanti al mio negozio.»
«Come “al tuo negozio”?»
«Lavoro da Max&Co. da un mese, ormai. Alle Barche.»
«Va bene. Lui girava a caso, tipo maniaco?»
«No… No. Parlava con quelli di Bulgari, davanti a noi.»
«Parlava e basta.»
«Sì. Col gestore. Però buttava spesso occhiate, un paio di volte ha fatto giri strani, tipo avanti e indietro, come per vederci…»
Bè, la Gioia per esser gnocca è gnocca.
«E tu l’hai conosciuto di persona? Ci hai parlato?»
«Mmm… qualche volta. Due volte. Ha attaccato bottone lui. Mi ha detto che si chiamava Luca Bosio e che fa il rivenditore.»
«Di che?»
«Non so, penso tipo gioielli, da Bulgari che ci vai a fare di pomeriggio per una settimana? Credevo me l’avessi mandato tu a spiarmi.»
«Gioia, ti sembro tipo da far ‘ste stronzate? Onestamente.»
Sospira: «No. Ma la mia collega c’ha avuto un ex maniaco e m’ha messo la paranoia.»
«Lui cosa ti ha detto?»
«E’ entrato dicendo che voleva fare un regalo, gli ho fatto vedere cinque o sei capi e poi non ha comprato niente, non penso fosse vero. Chiacchierava tanto, era… carino. La seconda volta è passato per salutarmi dicendo che probabilmente non ci vedremo più perché lui è a Milano. Mi ha chiesto il numero ma non glie l’ho dato.»
Non voglio dirti che da quando mi hai mollata ho chiavato tutto il mondo. Gli ho dato il numero, ci siamo visti e abbiamo scopato, altrimenti non avevo quella reazione a Jesolo e non avevo quell’incertezza alla parola “carino”. Sto mentendo e tu hai la sfortuna di non essere abbastanza stupido.
Non è vero.
O forse non vuoi che lo sia.
Sono cazzate.
Allora perché le è passato a fianco sapendo che lei avrebbe fatto finta di niente?
«Giò, perché non ci hai salutati? Capisco me, ma perché non hai salutato lui?»
Silenzio.
«Giò, la verità. Per favore, è importante. Questo non ci sta tanto con la testa, fa discorsi strani e c’ha giri anche peggio.»
«Te l’ha rotto lui il labbro?»
«No. Un buttafuori all’Avana.»
Ancora silenzio.
«Perché mi sono gelata. Siamo usciti insieme due settimane fa» sbuffa.
«…E?»
«E non ti riguarda.»
«PER. FAVORE.»
«Non è andata, l’ho scaricato e gli ho detto di non chiamarmi più. A metà serata volevo già andare via, mi metteva a disagio. Delle volte gli veniva uno sguardo da pazzo.»
«Gli hai parlato di me?»
Rumori.
«Giò, cosa gli hai detto?» dico, scavalcando la risposta.
«Le cose che si raccontano delle storie passate. Non sono stata gentile.»
«Gli hai detto cosa facevo, dove lavoravo?»
«Sì. Sì, glie l’ho detto. È stata una stronzata. Scusami.»
«Va bene. Ascoltami, sono a Bologna in un bar che pare una tomba romana con Alessio Seguso, quello che tu conosci come Luca Bosia, è un mio ex compagno di classe. Ci sono anche due tizie che studiano scienze politiche di nome Chantal e Nadia. Ti ricordi tutto?»
«Sì. Ma perché dovrei?»
«Perché perché perché. Perché magari dovrai dirlo a qualcuno. Ora vado.»
Chiudo il telefono.
Esco dal bagno, mi lavo la faccia, cerco di calmarmi. Son cinque minuti che sono qui dentro, non ho molto tempo. Mi guardo, faccio schifo. Non so cosa mi aspetti dietro quella porta. Non mi preoccupa quasi più, ora che so più o meno come sono andate le cose. Solo che le sensazioni dentro di me non si collegano con la realtà. Avrei potuto fargli mille domande mille volte e non l’ho fatto. Mi sono paralizzato come un animale quando gli spari la luce contro. Confuso, incredulo, spaventato. Eppure ho avuto paura altre volte, nella vita. Solo che questo è diverso. Mi esalta. Mi fa sentire bene sapere che là fuori esiste qualcuno come lui e una parte di me non vuole che si riveli essere una tra le mille storie come la mia, quelli che hanno un gruppo rap, vanno sulla rambla a Barcellona perché la morosa li ha mollati e si sentono cittadini del mondo. Non voglio scoprire che è solo un disturbato mentale con il sussidio d’invalidità e la madre che lo cerca. Non voglio l’ennesima risata amara su uno che si crede Dio spogliandosi dietro i giornalisti TV. No, non è il tizio seduto là fuori a farmi paura. Mi fa paura quello che vedo nello specchio.
E ora che le carte sono tutte sul tavolo mi chiedo chi dei due dovrò affrontare dietro quella porta.
«Nebo, stavamo perdendo le speranze» dice Ale vedendomi arrivare.
«E’ che pisciare diventa complesso quando sei infortunato.»
«Qui stanno per chiudere.»
«Bè, mostrami la roba per cui siamo venuti qui, Ale.»
Mi indica con la testa le ragazze dietro di lui: «Le molliamo?»
«Se vuoi puoi pagare da bere a tutti e magari sei più a tuo agio» sorrido.
«Già fatto.»
«Ma scherzi? Son due discreti pezzi di fica, eh.»
Tituba.
«A patto tu non sia un mitomane squilibrato, in quel caso sono testimoni scomodi, ammetto.»
Mò vediamo come risponde.
[continua]