Nelle sale giochi degli anni ’90, all’ingresso, spesso troneggiava il primo tentativo di gioco d’azzardo su minorenni. Era una bacheca con dentro un’orgia di gettoni ammonticchiati, che il padrone sadico si premurava di rendere gargantuesco. Piramidi di gettoni. Colonne di gettoni. Oceani di gettoni che venivano mossi da uno stantuffo: in teoria, gettandone dentro altri, sovraccaricavi quella specie di deposito e ne facevi cadere di più.
Nella realtà non succedeva quasi mai.
Quello al Pool&Company si chiamava Tropicana, un nome che ispirava viaggi ai Caraibi grazie alle corpose vincite.
Atza ne era ossessionato.
Scialaquava tutti i soldi sparando agli zombie di House of the dead e finiva col dover raccogliere i mozziconi alle fermate degli autobus, scartare la parte bruciata, svuotare il tabacco in un astuccio di cuoio che chiamavamo la busta dell’AIDS e se lo girava con le cartine da cannoni. Ogni volta che entrava al Pool, il Tropicana gli faceva brillare gli occhi, anche perché in sala giochi bazzicavano truzzette ruspanti che andavano in giro a elemosinarli.
La passione di Atza era Gienson – scritto così – una grezza seminuda di sedici anni che passava metà del tempo a cavalcioni del flipper a chiacchierare con le amiche e fare la questua.
Il gestore era un ex campione di pugilato dal passato oscuro nella malavita veneta, e bestemmiava scacciandole perché gli spaccavano il vetro. Poi aveva capito che il numero di gettoni aumentava vertiginosamente grazie a manodopera minorenne e le lasciava fare.
Atza, reso ormai pazzo dalle seghe, aveva giurato che avrebbe compiuto la rapina del secolo. Sognava di vedere i gettoni sgorgare dal Tropicana, così da poter sedurre Gienson. Siccome all’epoca faceva l’istituto tecnico, annunciò che avrebbe costruito una potente calamita. O meglio,
«Una poffente calamita.»
«Com’è che ti sei perso le S per strada?» domandò Luca.
«Mi hanno picchiato al fupermercato.»
«Di nuovo?»
«Fì. Ma feriamente, facciamolo. Penfate ai gettoni.»
«Io penso che tu non arriverai a trent’anni, Atza» gemetti.
Atza, va ammesso, ci mise dell’ingegno.
Faceva l’istituto tecnico e gli fu abbastanza facile costruire quello che aveva in mente, cioè una elettrocalamita. È una dimostrazione che viene fatta a tutti: avvolgi un filo di rame attorno a un chiodo, colleghi le due estremità a una batteria stilo e vedi che ci si attaccano le graffette.
Decise che bastava ingrandire le cose.
Segò la gamba di una sedia di scuola ottenendo un tubo di una ventina di centimetri, sventrò tutte le lampade di casa totalizzando metri di filo di rame e ce lo attorcigliò attorno, poi ci attaccò un interruttore sulla fase. Estrasse la batteria del motorino e li collegò, ottenendo una belva capace di sollevare senza problemi la coppa di ottone e marmo che suo padre aveva vinto in gioventù.
Pareva incollata. Ma Atza aveva fatto i test per tre, quattro secondi al massimo, quindi non aveva notato la grave carenza nel sistema, né la sua conseguenza. Era troppo impegnato a trovare un modo per occultare l’arnese.
Tra tubo e batteria del motorino, non si poteva tenere in tasca.
Quindi prese un marsupio dell’Invicta, lo sventrò e lo incollò sopra e attorno alla batteria. Rubò l’impermeabile in pelle nera della madre – ricordo di gloriosi anni ’70 – e decise che il travestimento era perfetto. Arrivò al Pool&Company un sabato sera, quand’era pieno di gente, tenendosi l’impermeabile ben chiuso davanti come un maniaco sessuale. Arrivato al tavolo si guardò attorno, poi ci fece vedere l’aggeggio.
«Dimmi solo quante possibilità ci sono che saltiamo in aria» disse Luca, già pronto a uscire.
«Neffuna. È folo una batteria.»
«Atza, in mano tua pure una Bic diventa un tasto di autodistruzione, sei tipo Rambo al contrario» disse Ario.
«Adeffo ferve che fate un diverfivo.»
«Un detersivo?»
Ci convinse ad andare a parlare con Ennio. Era burbero, ma gli faceva piacere scambiare quattro chiacchiere. Negli anni ‘90 non avevano ancora iniziato a dare i nomi alle generazioni, e le persone parlavano indipendentemente dall’età. Ennio vidde tre adolescenti arrivare con aria nervosa e attaccare bottone con scuse ridicole; impiegò meno di un minuto a capire che qualcosa non andava, eppure resse il gioco.
Ricordo la tensione tra noi, consapevoli che dall’altra parte del bancone stava per succedere, statisticamente, il dramma.
«Bè, insomma, Ennio, quand’è che ti fai il permesso per vendere alcolici?»
«Mai, sei pazzo? Se vuoi bere vai dall’altra parte della strada. Manca solo che vi ubriacate.»
THUNK, si sentì alle sue spalle.
«Bè-bè-bè però dai una birretta potrebbe starci, no? Magari mettiamo il bar lì in fondo» dico, indicando il lato opposto. Ario e Luca annuiscono con foga.
RR-R-R-RUNK
«harrcodd…» gemette Atza.
Ci fu una vibrazione elettrica, quelle minacciose e cupe che senti vicino ai tralicci dell’alta tensione e fanno vibrare le otturazioni. Noi tre eravamo sudati come cammelli, Ennio continua a passare da una faccia all’altra per capire come mai il suo campanello mentale stesse strillando. Poi aveva notato che vibrava tutto. Anche il bancone.
Alle spalle di Ennio vedemmo Gienson passare di fianco ad Atza, guardare in basso e vedere che il bacino del metallaro è incollato al bordo d’acciaio, come se si stesse scopando il Tropicana.
«Atza, ti sei innamorato?» domandò.
«GIENSONhaiuthami tira… premi i-il… oh Dio scottaAAAGLALA’.»
Gienson sgranò gli occhi e fece un passo indietro, poi l’insegna del Tropicana tirò due botti con scintille, la luce saltò contemporaneamente al boato di vetri infranti a cui seguì ferraglia e strilli dei presenti. Nel buio si alzò un odore acre di circuiti bruciati, Atza era dentro il Tropicana a pecora e non dava segni di vita. Gli stivali di cuoio penzolavano inermi, torso e braccia erano coperti di gettoni e schegge di vetro. Ennio lo afferrò privo di sensi e lo scagliò fuori dalla sala giochi, annunciando in dialetto «Se uno di voi teste di merda fiata si piglia una coltellata.»
Le macchinette come il Tropicana non esistono più perché illegali.
C’era un motivo se le colonne e le piramidi di gettoni stavano in piedi e nessuna moneta cadeva mai: le superfici erano magnetizzate. La spiegazione più razionale che trovammo è che quando Atza aveva puntato l’elettromagnete non aveva raccolto le monete, erano troppo distanti. In compenso s’era incollato al bordo metallico, milluplicando il magnetismo delle piattaforme e incollando le monete così forte che lo stantuffo s’era inceppato, fondendo il motorino elettrico. A questo problema si aggiungeva che Atza non aveva isolato il filo di rame, che si era surriscaldato ustionandogli le mani.
Mentre il suo scroto andava a fuoco aveva deciso di premere l’interruttore in un risibile tentativo di salvarsi la vita, ma essendo con il bacino incollato al vetro ne era impossibilitato. Il peso del torso aveva quindi sfondato la vetrina facendolo piombare dentro, mentre il motore interno esplodeva mandando in cortocircuito un gioco degli anni ’90, ovvero sprovvisto della presa a terra.
Atza indossava gli stivali di cuoio.
Si era quindi giustiziato con una batteria da motorino, e appena la corrente era saltata tutti i gettoni gli erano piombati addosso assieme alle schegge di vetro.
Era stato portato via dall’ambulanza mentre Ario e il resto della plebaglia saccheggiavano quel che restava del Tropicana. Aveva passato due giorni sotto osservazione e poi era stato dimesso, mentre Gienson recuperava senza fatica i gettoni. Venne bandito a vita dal Pool&Company – ovvero per oltre un mese – e passava i sabati sera in camera ad ascoltare Cemetery gates dei Pantera e a strimpellare il basso, mentre le ferite si rimarginavano.
Passavamo sotto casa sua a chiamarlo, ma non scendeva.
Il Tropicana venne sostituito da una colonnina di legno su cui troneggiava una felce, unico elemento d’arredo mai apparso in quel porcile. Qualche spiritoso ci appiccicò una di quelle targhette che si stampavano, e che recitava “per aspera ad Atza”.
Ennio la toglieva ma ricompariva il giorno dopo.
Alla fine la lasciò lì.