Planiamo nello “spazio alternativo” come folgore dal cielo. Ario parcheggia alla barese: scende, sposta tre scooter e infila la macchina perpendicolare al marciapiede.
«Tanto i vigili a quest’ora sono in puttantour travesto.»
Dall’interno proviene musica. Risate uterine infoiano i nostri spermatozoi che sgomitano per l’assalto. Siamo bellissimi. Io camicia bianca da mercatino dell’usato, jeans Clayton vintage strappati a un magrebino durante la battaglia saldi estate, Superga rese splendenti da doppia dose di lavatrice. Intimo, boxer Armani rubato nei camerini dell’Auchan. Atza: polo della Lidl su cui la sorella ha cucito il coccodrillo della Lacoste ritagliato da una maglietta in disarmo, cintura 5 euro vinta a 4.50 dopo penosa contrattazione cinese, pantalone Nigi stile Charlie Chaplin, scarpe Puma ecopelle con suola e lacci anneriti a pennarello. Luca: maglietta bianca “Il paradiso del pneumatico di Tony Marangon”, giacca nera elegante sul cui taschino trionfa il logo AC MILAN, Levi’s a vita ombelicale, doccia di gel della COOP che dopo mezz’ora puzza di ascella, scarpa lucida da ballo requisita al padre maestro di tango che ha due numeri in meno. Ario: trench in ecopelle cinese che se si bagna emette una strana schiuma bianca, canotta bianca a coste con tribale d’oro, braghe della tuta, scarpa Nike rotta sulla piega del piede e riparata con graffettatrice.
Bussiamo tre volte, appena l’uscio scatta Ario lo spinge di forza e annuncia con tono imperioso “È L’ORA DEL CLISTERE”. La porta impatta contro una ragazza disintegrandole il bicchiere di sangria addosso.
«Ma che fai?!» strilla Atza, accucciandosi sulla poveretta.
«Hm, sono già scattate le prime risse, vedo» osserva Ario «camuffiamoci nel figame, non voglio problemi.»
«Elisa, Elisa, stai bene?»
Elisa è una biondina esile e puteolente sui ventiquattro. Si presentò al bar di Atza vestita da piratessa. Lui le chiese WTF e lei spiegò che doveva fare una manifestazione. Al cellulare coi compagni aveva capito lo slogan fosse “riprendiamoci il nostro porto” e pensò si dovesse protestare contro le grandi navi in laguna, in realtà lo slogan era “riprendiamoci il nostro corpo” e si doveva protestare contro i maltrattamenti sulle donne.
«Atza?» mormora lei, rialzandosi.
«Stai bene?»
«A parte il vestito ma vabbé, lo cambio. Sono i tuoi amici?»
«Luca, Nebo e Ario, quello che ti ha rovesciato il bicchiere sul vestito.»
«Ah, questa è tua morosa?» chiede Ario.
I due si guardano, arrossiscono.
«Bè, n-non proprio…» fa lei.
«Sì, cioè, per adesso ci vediamo e b
«Ecco, ci hai trascinati in ‘sto lupanare di sfollati solo per guadagnare punti anal, sei una merda!»
«Vi ho detto che c’è un’artista internazionale.»
«A quest’ora sul terraglio con trenta euro trovi artiste internazionali uguale!»
«Scusa?» fa Elisa, inorridita «stai dicendo che… sfrutti la prostituzione?»
«Ma dopo gli faccio le coccole.»
«STA SCHERZANDO» tuona Luca, lanciando chiodi roventi dagli occhi.
«Sì, figurati, è sposato, vedi la fede?» dico io, prendendo Ario per le spalle «piuttosto, perché non ci spieghi cosa fate qui?»
Elisa è incerta, poi si rilassa: «E’ uno spazio autogestito che abbiamo battezzato “riserva del gioco e della speranza”. Ospita artisti e performers internazionali che vogliono sensibilizzare il pubblico riguardo a tematiche sociali, offrendo un’alternativa a quella cultura di massa che propongono i media e che»
Ciò che vede lei.
Ciò che vediamo noi.
In realtà si tratta di un cacaio immondo con muffa alle pareti, rottami e catorci colorati a bomboletta, allacciamenti elettrici abusivi, acqua pagata dal comune. C’è una puzza di piscio e droga che fa girare la testa ma, in effetti, il buonumore dei presenti è contagioso. Tranne noi è tutto a tema. Impianto serio, uno che mette musica a ripetizione, gnocche comuniste, sorrisi, risate, due coppie che limonano, gli immancabili soggetti che abbassano l’asticella del degrado umano un paio di metri sotto le fosse ardeatine, minoranze etniche scopabilissime. L’età va dai diciotto ai quaranta e passa. Ci sono dredd, stempiature e
«Il gruppo dei pelati! Haha, Nebo, vagli vicino che faccio una foto!»
Il bello di noi trentenni è che non importa il credo politico: appena notiamo l’eliporto in cima alla testa ci rasiamo a zero, compensiamo facendo crescere pelame sulla faccia e in base al reddito ci iscriviamo in palestra o ci compriamo l’Harley Davidson per girare il mondo.
Io sono un reporter freelance.
Lunedì pettorali e tricipiti.
Veniamo portati al bancone del bar dove conosciamo il barista, un suo amico e due ragazze. Appena i miei occhi si poggiano su di lei ogni molecola del mio corpo trasmette odio. E’ lei. E’ Levante. Tutti conosciamo Levante. Dio un giorno ha guardato i giovani, ha capito che erano troppo belli, si è alzato la toga e ha cagato Levante. Mora, frangia, rossetto rosso, smartphone in mano, sguardo di chi merita di meglio e vorrebbe essere altrove. Quando tutti ordinano spritz lei vuole un caffè. Lo scrive persino nella sua biografia Twitter/Tumblr/Flickr come se fosse chissà quale medaglia al valore: lei beve molto caffè. Ha un blog minimal dove racconta quanto sia sarcastico essere donne in mezzo a uomini patetici che non la meritano, alternandolo a commenti di articoli del Fatto quotidiano. Tenta di sporgere le labbra il più possibile mentre dice che ha una vita di merda. Idolatra Frida Kahlo e Zooey Deschanel. Ascolta indie e qualunque cosa le dica Pitchfork. E’ così piena di sé che pare una matrioska residente a L’egoland. Veste metà hipster e metà Sex and the city, in occasioni eleganti opta per l’immancabile stile anni ’50 che piange così tanta miseria da ammosciare l’erezione dei manichini. Burlesque e Guzzanti. Aria incazzata e triste come se il dottore le avesse intimato di andare lì.
«Bevete qualcosa?» chiede il barista.
«Birra.»
«Birra.»
«Birra.»
«Mint julep» fa Atza.
«Eh?»
«Mintu Julep. Ghiaccio, menta, bourbon.»
«Cioè un mojito?» chiede il barista.
«No, il mojito ha il rum e il lime» scuote la testa Atza «il mint julep è un long drink tipico del sud degli Stati Uniti. Pesti la menta con le mani, poi…»
«MA IO PESTO TE CON LE MANI» sbotta Luca «ho le scarpe che mi stanno trasformando in una geisha, Atza, piglia una birra come tutti e andiamo a sederci.»
«Scusa, avrò diritto di bere quello che mi va?»
«Di solito bevi lo spritz col Tavernello dei cinesi, per cortesia» fa Ario.
«Non significa che io non abbia maturato…»
«Senti» ansima Luca, sudato «prendi una birra o quant’è vero Dio finisci al pronto soccorso con un Casio incastrato su per il culo e io mi addormento con l’avambraccio che odora di merda, menta e sud degli Stati Uniti.»
Con una Moretti in mano ci accasiamo su dei divanetti. Levante scompare dietro le tende in fondo al locale. Beviamo, parliamo del tempo, dopo qualche minuto Luca non ce la fa più e si toglie le scarpe gridandomi nell’orecchio
«Che me le son messe a fare?!» la musica tace «TROVAMI UNA DI ‘STE PUTTane che…»
Si blocca con la scarpa a mezz’aria. Atza si gira ad occhi sgranati.
I nostri ospiti lo imitano. Luca abbassa la scarpa.
«Buonasera a tutti» dice Levante «è un mio grande onore presentarvi Jana Tullifer, dal Brasile. L’artista che conoscete tutti per le sue opere provocatorie ha accettato di esibirsi nel nostro spazio occupato. Vi prego però di non applaudire, perché rovinerebbe l’atmosfera.»
Silenzio.
Dal buio emerge una mulatta figa come l’anima del Diavolo vestita di nero coi tacchi anni ’50. Si siede su uno sgabello. Il viso è coperto da un ombrello nero: alle estremità di ogni raggio c’è un uovo bianco. Il silenzio in sala è assoluto.
«Ma si spoglia?»
«Speriamo.»
«STATE ZITTI» sibila Atza «UN PO’ DI RISPETTO!»
«Dì, fa giochi strani, con quelle uova?»
«ARIO, PER FAVORE»
Di fianco alla performer un televisore proietta immagini delle sue mani che, su un prato, passano ago e filo dentro le uova e le cuciono sull’ombrello. Le casse mandano un suono di sassolini che cadono dentro un tubo. Man mano che nel video le uova vengono cucite, lei di fianco inizia a girare sullo sgabello. Alza le gambe e si inclina fino a toccare col piede un uovo appeso. Si alza in piedi. Nel video, lei è in un guscio nuda e sfocata che si contorce. Con gesti lenti e calcolati, afferra un uovo appeso e lo spreme. Poi un altro, poi un altro ancora. Tuorlo e albume cadono sul pavimento.
«Adesso entra Nacho Vidal, le spacca due uova in faccia a sberle, gliene appoggia uno sulla bocca e glielo spara dentro a martellate di minchia.»
Io e Luca abbassiamo la testa mordendoci le labbra.
Luca soffoca una risata con un colpo di tosse.
«Dai, te lo vedi Nacho, a maschiate sul viso che dice “dai, chupalo, chupame la piha, putaaah!“»
Emetto un guaito. Mi lacrimano gli occhi. Luca non è preso meglio. Atza è una statua di sale e rabbia cieca. La performer si rotola per terra smerdandosi del contenuto delle uova, tenendo l’ombrello in alto che le versa addosso i resti. Mentre si contorce si intravedono delle mutande rosso acceso.
«Con lei che risponde “no no yo estoy fasiendu arte” e lui che le infila uova in brogna e gliele tira fuori trombandola nel culo facendo il verso della gallina.»
Non ce la facciamo più. Ridiamo sommessamente, coprendoci la bocca e tenendoci la pancia. Ridiamo con fitte lancinanti alla gola. La performer ora appoggia dei gusci vuoti sul pavimento e li calpesta lentamente. Si infila due gusci sui tacchi e si appende a una trave invisibile, poi schiaccia anche quelli. La musica sale in un crescendo drammatico.
«Stai zitto, ti prego.»
«Oppure Rocco! Dio, Rocco sarebbe il migliore. Tipo con la slava che dopo l’inculata non voleva succhiarglielo e lui DON UORRI IZ ONLI SMELLZ, te la ricordi? IZ ONLI SMELLZ e giù cazzo in trachea, praticamente le ha rimesso la merda nell’intestino passando per l’esofago.»
Con un sibilo Luca esplode. Io mi piego in due. Si girano tutti. Corriamo fuori e ci appoggiamo alla parete, piangendo lacrime in preda alle convulsioni. Dopo qualche secondo dentro parte un applauso. Cerchiamo di riprenderci; non c’è verso. Quando sai che non devi ridere e ti viene da ridere è male, ma quando ridi è la fine. Dall’interno provengono voci concitate. Ario esce accompagnato da Atza furente.
«Voi due siete due stronzi, e tu» ansima «tu non sei più mio amico.»
«Oh, se non ci hanno pensato magari…»
«VAFFANCULO, tornatevene a casa, con voi non ci parlo.»
«E come torni?»
«AFFARI MIEI, ANDATEVENE»
Camminiamo verso la macchina.
«Che gli hai detto?»
«Niente, lei ha detto una roba tipo che aveva appena rappresentato lo scorrere del tempo e ha chiesto se avevamo domande, io le ho chiesto perché invece di buttare la roba da mangiare non la manda agli schelenegri del Ruanda, bam, frangetta sbrocca e gli altri dietro.»
«Oh, Dio, no» gemo «non l’hai fatto davvero.»
«Sìssì.»
Dieci minuti dopo siamo in puttantour che cantiamo a squarciagola l’inno del mio blog. Tettino e finestrini aperti. Ignoranti. Stupidi come bestie. Trentenni che urlano canzoni scritte da ventenni e che l’unica cosa che vogliono è che le donne facciano come l’ortolano. C’è poesia. Eternità. Un desiderio che ci accomuna al guerriero masai, il guerrigliero ceceno, il pescatore esquimese, il fisico cinese, l’ingegnere indiano.
«GUARDALE» urla Ario, suonando a un trio di slave «altro che le uova, uscite i meloni, brutte puttane, vi scopo tutteeeeee»
La polizia ci ferma all’altezza di Preganziol.