11. Dogana



Liguria, strada panoramica, ore 12.45
In coda per la dogana.



«Non me la sento»
«Al massimo ci mandano a casa con un.. una…»
«…condanna dai 2 ai 5 anni di riformatorio?»
«Denuncia per contrabbando di stupefacenti?»
«Seee, la mala del Brenta»
«Sentite, i miei mi massacreranno di botte appena scopriranno che fine ha fatto la busta con la pensione del nonno, io non ci torno indietro»

«…come, scusa?»
«Hai fottuto la pensione a tuo nonno» dice Ario, senza punto interrogativo.
«E allora? Tanto è morto nove anni fa»



«No Atza fammi capire, il piano era prendere i soldi di un mese di pensione e fuggire all’estero con noi tre per sempre?»
«Ma è un genio»
«E a quanto ammonta il bottino?»
«490.800 lire»
«Una somma favolosa»
«Io non ci volevo venire in Spagna»



Passare la frontiera nelle nostre condizioni non pare una buona idea, anche se al tempo la polizia non sapeva – o non gli importava – che i giovani si drogassero come assatanati. Grazie ad impegnativi corsi di aggiornamento nel loro cervello si era formato l’assioma felicissimo che se ha le Buffalo è drogato, il che ci lasciava ampio margine di respiro. D’altro canto sulla ganja i politici blateravano annoiati e le leggi cambiavano ogni giorno; oggi era legale averla ma non fumarla, poi era legale fumarla ma non averla, poi era illegale sopra tot grammi per uso personale, poi con altri grammi avevi una multa o forse una denuncia oppure un buffetto o la croce al valore militare, chissà chi lo sa. Se ti fermavano pensavi sempre “speriamo la prendano come dose personale”. 

Alla frontiera con un chilo e due potevi risparmiarti questo dilemma.

Per uscire da quella situazione non proprio felice le opzioni proposte erano: A) scavare una buca, seppellire lì lo zaino e riprenderlo al ritorno B) andare dritti come niente fosse assumendo una faccia da tonno mai vista sperando l’immancabile finanziere Locascio quella sera avesse avuto esperienze sessuali. C) detta per ridere… 

«La mettiamo sul furgone della famiglia crucca qua davanti, hahahaha»
«HAHAHAH, c’han pure gli zaini uguali ai nostri, ha ha ha»







«NO, DAI, NO, QUESTA NO, ONESTAMENTE, NO»
«…quanto tempo abbiamo?»

Strada costiera, Liguria, appena passata l’una. Incolonnati alla dogana utilitarie, moto, comitive, furgoncini guardano il mare fresco ed irraggiungibile sulla sinistra. Calzini bianchi e sandali da prete, pance rigonfie di birra, bambini, biciclette dietro ai camper, alcuni si sono fermati ai bordi per mangiare. In fila si prosegue a passo di lumaca ma costanti. Il furgone in questione è proprio di fronte a noi, ha borse che tra un po’ escono dal finestrino e quelli che sono i pezzi della tenda separati, piegati ed impacchettati nelle loro apposite borse tenute insieme da corda elastica fissata al retro. Uno zainetto là in mezzo potrebbe passare senza problemi, se i proprietari del furgone hanno un’aria abbastanza rispettabile ed è l’ora di pranzo.

«A occhio venti minuti»

All’interno un ciccione, una milf e tre bimbi cantano con entusiasmo “…ach zehn mal da! Da druben hast der Dracula! Auf wiedersen, adieu, goodbye, wir fahren ta ta ta” e nell’insieme danno una splendida impressione di rispettabile, ottusa innocenza. Perchè il nostro cavallo di Troia non dia nell’occhio bisogna renderlo omogeneo con i loro zaini, così prendiamo tutte le cose considerate illegali e le travasiamo in un Invicta nuovo fiammante che ora bisogna riuscire a posizionare senza farsi sgamare dal resto della fila, il che naturalmente è impossibile a patto qualcuno non abbia un’IDEA DELLA MADONNA, che in questo caso potrei essere io.


«Litighiamo» 
«? Eh?»
«Usciamo dalla macchina. Mettiamoci a far cagnara urlando, basta un secondo che tutti si girino e qualcuno ficca lo zaino tra le corde del furgone. Funziona, i prestigiatori fanno così»
«Fingendo risse?»
«Usando il culo delle assistenti»
«Nebo, è un’IDEA DELLA MADONNA»
«Sì ma fioi, a me pare che scordiamo qualcosa»
«Sì, sì. Chi fa rissa?»
«Io metto lo zaino» fa Solero.
«Ok, Nebo e Atza fuori si legnano, Solero ai tiri liberi, rapidi»


Usciamo dalla 127 in tre, Solero si sposta davanti e fa finta di guardare qualcosa sui fanali davanti. I crucchi marciano con calma. L’aria è bollente, rimandata dall’asfalto che fa da schermo. Solero stringe lo zaino tra le mani, sguardo concentrato. Vedo Ario con la mano sul volante che mantiene la sua aria di “tanto so che vuoi darmela, baby”. Inspiro aria, un grande respiro profondo. Il palco è pronto, il pubblico pure, manca solo la scena madre. Avanti. Tutti ti han sempre detto che dovevi fare l’attore. Dicevano che eri nato per il palcoscenico. Perché hai fatto il rapper, poi? Vabbè, fallo. Sii convincente. Dimostra ch *CIàK *

«PROVA A RIPETERLO! Oh, ma tipo che è sangue? Nebo?»


Il dolore è tutto.
Il dolore è un oceano rosso che mi mangia la vista. L’occhio sinistro è andato. Non vedo niente, solo rosso. Mi ha accecato. Quest’idiota mi ha accecato ed ora andrò in giro con la benda cantando quindici uomini come Long John Silver. Mi chiameranno Ray Charles che all’intervista dichiara “meglio cieco che negro”. Vedo solo rosso. Qualcuno mi ha piantato un ferro rovente in faccia. Sulla mano sinistra sento caldo e bagnato, con l’occhio destro vedo il mondo a pallini bianchi, mi gira la testa. Guardo per terra e c’è una pozza rossa. Abbasso le mani, vedo Atza e senza quasi volere gli tiro un calcio in pieno petto che lo scaraventa contro la 127. Mi accorgo di quello che ho fatto e comincio a preoccuparmi perché Atza barcolla, poi si siede per terra annaspando in una smorfia. Ario corre fuori dall’auto, sposta via Atza e guarda inorridito la portiera: «MA NOOOOOOOOOOOOOOOO» mentre la fila alle nostre spalle si blocca, due suonano il clacson.

Dieci minuti dopo siamo in macchina. Io ho un paio di calzini – gli ultimi – a mò di tampone per il mio sopracciglio sinistro. Atza è disteso dietro, respira come un asmatico e tiene la testa in grembo a Solero. Ario tira madonne per la portiera che ora ha la sagoma delle spalle di Atza.


«Ben fatta» dice Solero, solenne «perfetta»
«Hhh» fa Atza: «hhhnn»
«Sì, almeno hai sistemato lo zaino?»
Per tutta risposta seguo l’indice.


Lo vedo. E’ fatta. L’abbiamo fatto davvero. Solo guardando quello zaino davanti a noi che prosegue verso la dogana realizziamo cos’abbiamo fatto veramente, quali siano le reali implicazioni di tutto questo. In macchina c’è il silenzio assoluto, lo sguardo fisso sui tedeschi che lenti ma inesorabili arrivano sotto l’ombra della dogana, parlano con il finanziere che li guarda, guarda il furgone, pensa che a perquisire tutto quello che c’è dentro ci metterebbero giornate intere e li fa passare agitando la paletta con noia. Li guardiamo proseguire verso la frontiera francese duecento metri più avanti attraversando duecento metri di asfalto rovente.


«Buongiorno»


La saliva troppo liquida che sa di adrenalina, il fiato corto, il caldo, l’odore di sudore e la faccia del finanziere incredula. Mi ricordo il montare di orrore dentro di me, la palla da tennis che si forma dentro la gola e tutti i nostri occhi puntati su un tragico, catastrofico errore di valutazione.


«…ho detto, buongiorno»
Il furgone si ferma in fila alla dogana francese.

«Signori.. I documenti, per cortesia»
«S… ssssss…. sì»
Il furgone prosegue ed arriva alla dogana francese. Porgiamo con mani tremanti le quattro carte d’identità. Il furgone è fermo alla dogana francese.

«Motivo dell’espatrio?»
«Ah, eh… noomaguardi, noi stiamo andando in… in Spagna»
«In Spagna dove?» domanda il finanziere, incapace di capire se siamo in trance o altro.
«Aah…»
«Eeeeh…»
Il furgone passa la dogana francese.

«A BA-BARCELLONA… A Barcellona, possiamo andare?» fa Ario, girandosi finalmente a guardare l’omino in divisa.
«Come mai questa premura?»

Il furgone si allontana. Scompare dalla nostra vista.

«Sì, no, è che… eeeh…»
«Scendete e aprite il bagagliaio, per favore» fa il tizio alzando la paletta. 




Nello specchietto retrovisore Solero mi pianta gli occhi addosso. Non diciamo una parola mentre apriamo la portiera ed osserviamo i doganieri guardarci dentro il baule, tra gli zaini, nel portacenere. Fare domande sulle nostre condizioni fisiche. Guardarci male. Rifarci le stesse domande. Avete niente da dichiarare? No. Sotto il sole delle due, guardando un finanziere dall’altra parte del vetro che mangia tramezzini tonno e olive, sudiamo con aria chiaramente colpevole. Chiudersi in sé stessi è un ottimo indice di colpevolezza. Se durante i controlli ciaccoli come niente fosse ti mandano via subito. 

Il nostro inquisitore attende l’esito del controllo carte in attesa di chissà quali precedenti, invece con nostra grande sorpresa siamo tutti incensurati, Solero incluso. Nonostante ciò ci viene ordinato di affiancare la macchina in modo da far passare gli altri. L’accurata perquisizione dura un’altra mezz’ora mentre il nostro cuore attraversa tutti gli stati d’animo fino a planare nella radura della rassegnazione disperata verso le 15. A malincuore, non trovando niente, ci viene dato il via libera per la frontiera francese dove degli omini con un buffo cappello ci fanno passare senza quasi guardarci. Siamo in Francia.

«Cosa facciamo?»
«Non facciamo niente. E’ andato e basta» dice Atza con la voce di chi annuncia un decesso.
«Mi sa che è così. Solero, tutto bene?»

Al nostro fianco scorrono barche, un porto, un marciapiede e le grida dei gabbiani nel caldo. Una spiaggia che somigliava molto a barcola, a Trieste. Forse fu l’essere in un paese straniero per la prima volta, o il fatto di essere davvero lucidi dopo due giorni tra i fumi di ogni, però parlammo d’altro. Magari fu solo una reazione allo shock, sapete, quello di mettere istantaneamente da parte il problema e dimenticarsene, non lo so. Dopotutto quello zaino non era nostro ed ormai era andato.

«OCCHIO!»
La cintura mi tira un cazzotto in centro sterno, Atza si smalta contro il mio sedile. Solero tira una testata.

«Ahiahia, che fai?»
«Coda» dice Ario, indicando davanti «incidente, mi sa»




















«…secondo voi da quanto c’è coda? Mica due ore, vero?»