E’ mattina. Apro gli occhi, scendo in cucina con cautela giacché l’87% della superficie calpestabile è occupata da cestini e devo muovermi in orizzontale uso South Park. Non so quando casa mia è diventata il merdaio di un barbone ossessivo compulsivo, ma sospetto la lappascroti che convive con me mi abbia buggerato per l’ennesima volta. Entro in cucina, accendo la macchinetta del caffè, mi giro per svuotare il filtro. Mi blocco. Quando vivevo da solo c’era un unico cestino dove buttavo la spazzatura senza razzismi: sacchetto dell’Auchan, giù calci fino all’estremo, un nodo, cassonetto. Fine. Ora c’è quello del vetro, della plastica, dell’alluminio, della carta, dell’organico. A volte mi trovo con un preservativo usato in mano e mi domando se devo spremerlo in uno e gettare il goldone nell’altro. In salotto c’è quello per la Caritas e quello del “non riciclabile” perché a tutti capita di dover smaltire dell’Uranio, di tanto in tanto.
Assonnato, butto i fondi in quello della plastica.
«Tesoroooo» bramisce la fica di sopra.
L’udito di tale creatura domestica è in grado di percepire il suono di ogni cestino, quasi fosse la pioggia nel pineto di D’Annunzio. Raccolgo a mani nude il fondo di caffè e lo butto nell’organico. Faccio il caffè. Bevo. Vado per cacare e invece del portariviste trovo un cestino rosa.
Apro per vedere se ci sono le riviste.
No.
Niente riviste.
Appurato che evidentemente in città c’è anche il cassonetto per gli assorbenti usati mi siedo per defecare. Pochi istanti dopo la fodera di carne-ciccipucci bussa alla porta. C’è da buttare l’umido, dice. In strada percorro il tragitto a passo svelto tenendo l’orrore ben distante dal corpo, come un autostoppista che porta in pegno un grumo di avanzi. Un vicino esce di casa, guarda il sacchetto trasparente. Sorride.
«Mangiato pesce ieri?» gongola, osservando il contenuto «stiamo facendo i soldi, eh? Io starei attento, con tutti i malintenzionati…»
Cinque metri.
«Ah, sono le ossa del polletto della rosticceria qui dietro!» nota «poca voglia di cucinare, eh?»
Sei metri.
«Non bisognerebbe comprare tutta quell’insalata se poi non si mangia, eh? Va a male, eh?»
Sette m
FRAP
I sacchetti per l’umido sono della stessa consistenza delle inchieste del Fatto quotidiano, basta esporli alla luce del sole per più di dieci secondi e si polverizzano. Ora la strada è cosparsa della mia vergogna, inclusi un paio di preservativi di cui uno con uno sbaffo di merda. Io e il vicino li osserviamo insieme.
«Non credevo a tua morosa piacesse nel culo» commenta, rapito.
La cosa strana è che io non uso i preservativi.
Raccolgo tutto a mani nude. Con gli arti che grondano materia in putrefazione apro il cassonetto dell’umido, tatticamente disposto sotto il sole. Appena apro il coperchio nel quartiere parte una sirena antiaerea e tutti indossano maschere antigas. Io non ne ho meco e vengo tramortito da afrori non appartenenti a questo mondo, visioni mistiche, intuizioni trascendentali. Satana esiste. Dio non è vivo. Tra le antiche mura di Ebla un pastore ha gridato il mio nome.
Richiudo.
Torno a casa barcollante e tutto ciò che voglio è non pensare a quanti anni mi restano da vivere in questo modo, ma sulla soglia la slabbrata mi sporge il sacchetto della carta. Del resto è quello che si riempie prima. Lo spam via mail è stato dichiarato fuorilegge nel 2004, mentre a tutt’oggi chiunque abbia una stampante è libero di cagarmi nella casella delle lettere senza venire per questo punito o giustiziato.
Appallottolo una busta contenente i vaniloqui di stronzi qualsiasi quando trilla il cellulare.
La fedifraga che sugge i miei testicoli mi comunica che anche la plastica è al limite. Riattacco. Giunto al cassonetto lo trovo ridotto a un cumulo bianco. Nel quartiere siamo talmente sovrastati da questa cazzo di pubblicità che le campane si riempiono in mezz’ora, poi diventa un totem attorno al quale depositare altra carta. A questo va aggiunto che anonimi sciacalli, nottetempo, profanano codeste piramidi pagane in cerca di libri integri da poter rivendere alle bancarelle. Per fotterli alcuni prima di buttarli strappano le pagine, così gli sciacalli s’incazzano e il giorno dopo trovi messaggi a pennarello contenenti parole quali “la povera gente”, “paese di merda”, “vergogna” tutte separate con un puntino e scritte in italiano a cinque stelle. Rovescio il sacchetto sopra altra carta. Una ragazza con il badge del comune si avvicina sorridente e si congratula per il mio impegno civico.
La uccido e ne profano sessualmente il cadavere.
Localizzare la campana della plastica è più facile, basta seguire le urla dei dannati che tentano invano di far entrare la roba a cazzotti. Mi metto in fila, tremante. A chi capiterà il WRAM? A me? A quello prima? Quello dopo? Al mio turno premo con tutta la forza che ho in un crescendo di scricchiolii finché, puntuale come la morte, WRAM. WRAM vuol dire che dall’altro buco della campana è detonato uno spruzzo di bottiglie che investe a valanga una vecchia di passaggio, tramortendola. Raccolgo merda dal selciato mentre gli altri si affrettano a riempire il buco. WRAM. Vengo investito da altre bottiglie. Ormai la strada pare un campo rom. Con l’anima che piange mi rimetto in fila, rassegnato. Dopo tre uomini tocca di nuovo a me. WRAM. La vita è una merda. Torno a casa alle undici di mattina e la tergisperma mi allunga un sacchetto ignoto.
«E questo quali innominabili nequizie contiene, Dio ti possa ghermire nel sonno?» domando.
«Secco non riciclabile»
Significa che non raggiungerà mai il suo destino.
Il comune di Venezia ha deciso, nella sua infinita saggezza, di blindare i cassonetti. Ora tutti i mondezzai del veneto hanno una chiave d’accesso digitale senza la quale non è possibile depositare i propri scarti. Per ottenere questo miracoloso manufatto è necessario presentarsi negli uffici del comune dalle 7.00 alle 10.00 dal lunedì a venerdì – ossia mai – fornendo carta d’identità, certificato di nascita, certificato di residenza, stato di famiglia, codice fiscale e attestato di verginità della propria figlia. In teoria questo permette di pagare la bolletta in proporzione a quanto si butta, in pratica fa sì che i mestrini gettino la propria merda in qualsiasi posto somigli a un contenitore, tanto che se ti addormenti su una panchina a bocca aperta al risveglio potresti trovarci una confezione di affettati vuota.
Appoggio il sacchetto vicino al cassonetto e me ne vado fischiettando.
«Senta lei» dice una voce, poi pretende 167 euro di multa.
Estraggo la Desert Eagle, gli sparo in faccia. Vuoto il caricatore sulla calotta e fuggo.
E’ notte, ora. Resto a fissare il soffitto mentre la traviata vicino a me dorme il sonno dell’infame. Ha lenito le mie proteste concedendomi l’accesso al suo sfintere e il mondo sembra meno cupo. La palpebra cala, il sonno mi avvolge lento, poi c’è un crash. Mi sveglio di soprassalto. Un altro crash. Un altro ancora.
«Tesormpf» mormora essa «in effetti c’è da buttare il vetro, vai tu?»
La legge del quartiere è che il vetro va buttato solo da mezzanotte in poi, cosicché il frastuono riverberi con maggiore enfasi nel silenzio della città. Apro la porta e mi trovo davanti a un bangla che mi sta infilando una pubblicità nella cassetta della posta. Sparo, ma lo manco di un soffio. Raggiungo la campana di vetro che odora di vino vecchio, birra spanta. Noto con la coda dell’occhio decine di oompa loompa che frugano tra le carte. Uno di loro lo conosco, ha il Porsche Cayenne comprato usato e immatricolato nel 2002. Mi fissa con odio. Chiede se sono io che strappo i libri. Rispondo che ci cago sopra, ai libri.
Dice che quello non è un problema.