Disagio, Un altissimo momento di

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«Raga shkussate?»

Milano, una di mattina. Io e Leonora siamo all’Abnormal gallery per salutare un amico. Gente che conosco, fumettisti, birre, sigarette, vaffanculi vari. Ambientarsi in una città nuova è difficile. Non abbiamo ancora la nostra abbeverata personale, quindi vaghiamo alla ricerca di quello che un giorno diventerà il nuovo bar Verdi.

«Shkussate, oh? Raga?»

Non so chi stia facendo quest’imitazione femminile di Gollum. Al momento fingo di non sentire un baggeo impegnato a fare il monologo del cosmopolita con Leonora. Mi diverte grandemente quando ci provano con la mia donna, è come vedere i poeti che s’arruolano nella Legione Straniera: grandi progetti, grandi ambizioni, grandi discorsi al funerale.

«Raggazi shkussate vorrei dirvi… cose…»

Il monologo del Cosmopolita consiste nel riuscire a dire di essere stato a Londra, Parigi, Berlino, Barcellona e New York nella convinzione questo faccia scopare. Come tecnica d’approccio nel 1990 strappava le mutandine delle aratro renegade, ma ormai nel 2016 anche il vicebidello di Caltanissetta ha fatto un interrail e del tuo biglietto Ryanair superoffertissima non frega un cazzo a nessuno.

«Raggha vi possho dishturbare?»
Mi giro.

Entrambe bionde, entrambe sulla trentina, entrambe vestite di nero e rovinate di alcool.

«Shiamo thornate da un mathrimonnio no? E c’è una feshta da noi dietro l’angolo, no? Siccome shembrate delle persone a modo volevamo invitarvi, no? Shè il diggei con la consolle e la locashion è molto cool. L’indirizzo è via Burziburzi 32, shercatelo su Guglmàpsh. Venite, no?» si allontanano.

«Che cazzo ha detto?» chiedo.
«Festa, casa sciccosa, moroso DJ» riassume Leonora «tanto non andiamo.»
«Co… Perché?!?»
«Non conosciamo nessuno, tu sei brillo, quelle sono fatte come il Cosmopavone e ci ficcheremmo in situazioni dove disagio, imbarazzo da empatia e voglia di sotterrarsi dominano.»
«Hai riassunto le migliori feste della mia vita.»
«Dimmi UN SOLO buon motivo per andare» incrocia le braccia Leonora.

«…talia il turismo è proprio una merda, eh? Non sappiamo sfruttarlo. Invece prendi Parigi. Io sono stato mesi, anni, a Parigi, ho anche dei parenti a Parigi, praticamente vivo più a Parigi che qui, anzi, ho proprio la doppia cittadinanza, cazzo come sono Parigino. Le donne amano Parigi. O anche Manhatt’n» insiste il monologhista, improvvisamente affetto da pronuncia uso Bastianich «ho vissuto molti giowni in un appawtamento a Brookl’n, y’know? Sei mai stata a Brookl’n?»

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Plin plon.

Il padrone di casa si chiama Diego, avrà la mia età, jeans attillati col risvolto a metà polpaccio, fantasmini bianchi dentro Oxford distrutte, bretelle, camicia a scacchi neri e rossi, barba da sant’uomo, calvizie a spazzola. La casa sarà un centinaio di metri quadri, che vista la zona sarà costato 92 vergini.

«Shiete venuthi» esclama la tappa, venendoci incontro «shono conthentha!»
«Abbiamo portato questa» dico, mostrando una bottiglia di Jack Daniel’s comprata all’Abnormal a un prezzo che meriterebbe una bomba della camorra.
«Bravih. Venithe ke vi presentho agli altri. Io shono Kathia, hic! Katia. Con la kappa.»

L’arredo è quello classico uso stanza di adolescente: tende bianche, tappeti bianchi, pareti bianche e mobili bianchi su cui troneggiano 873645 colori e giocattoli che non mi sono mai potuto permettere. Quadri a cornice bianca recitanti ordini materni “Love everything you do”, sull’angolo cucina “eat your veggies”, in cesso “wash your hands”, mi domando se sulla testiera del letto ci sia “penetrate vigorously”. Divanetti blu elettrico e una ventina di persone che chiacchierano. La musica (Indie) proviene dall’angolo libreria dove un tizio in maglietta grigia, porkpie e baffi smanetta i CDJ.

«Tu sei quello di Uomini e donne?» mi domanda uno.
«No.»
Disinteresse.

Leonora chiacchiera con l’unica gnocca della festa. Non sento i discorsi ma dal linguaggio del corpo credo vertano sui tacchi di mia morosa. È tutto un risate e sorrisi, là nella valle della vagina, mentre il vecchio Jack non riscontra grandi successi. Bevono tutti ‘naBio, “birra biologica prodotta con metodi artigianali”. Appoggio il Jack, assaggio. Riprendo il Jack. A me questa cosa che abbiamo smesso di pensare al piacere in cambio del benessere angoscia. Biologico, sano, naturale. Ho paura che alle porte dell’inferno troverò una fila di uomini che non fumano e donne che non scopano. Il meccanismo del senso di colpa anni ’90 oggi è il dovere dell’eterna giovinezza. Caffè decaffeinato, birra analcolica, prosciutto sgrassato, sigarette elettriche, pasta senza grano, fritture senza olio, chiacchiere per sms e chiavate col preservativo. Ma perché?
Soprattutto, dove cazzo è finita Leonora?

«E insomma tu scrivi» dice uno «cosa? Libri? Saggi? Sei giornalista?»
«Alterno articoli di alto livello come Le sette cose da non dire mai al primo appuntamento ad aneddoti di prostituzione, risse, degrado.»
«Sei serio?»
«Sì. Ma anche un libro di Storia.»
Non può essere in bagno.
«Tu invece che fai?» dico, perlustrando la stanza.
«Lavoro nel cinema.»
Non può essere andata via.
«Ah, bello! E… e in che settore?»
«Bè, a me non interessa la sfera della produzione, io sono al vertice del prodotto finale. Secondo me oggi il mondo del cinema è un carrozzone dei soliti che produce solo merda. L’Italia proprio non funziona, infatti lavoro molto di più con il materiale estero. Americano, perlopiù.»
«E cosa fai, il proiezionistahahaha HAHA HAHAHA HAHAHA» rido, dandogli una pacca sulla spalla.
«Sì.»

 

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«Perché, secondo te quello non fa parte del cinema?!» chiede, piccato.
«Sìsìsìsì è che…»
«Eccolo qua, per lui solo quelli che hanno il nome sullo schermo lavorano nel cinema, vero?!»
«Non ho mai detto questo!»
«Lo pensi!»
«No!»
«Sei uno snob, come tutti i milanesi! Ma che ne sai, tu? Chi cazzo ti credi di essere?!»
«Io… io sono solo un drogato!»
La risposta lo confonde.

Alle quattro e mezza sono ormai tutti cotti, fumo una sigaretta sulla ringhiera della corte interna guardando Milano sullo sfondo. Katia con la kappa esce, ormai rigonfia di birra biologica come una zecca.

«Hai prohppio na bela ragassa» dice, barcollante.
«Sì, sarei curioso di sapere dov’è. Bella festa, comunque.»
«Oh, bah… una cosa così.»
«No, no, credimi. Dalle mie parti non c’è tutta questa civiltà.»
«No? E cosa succede?»
«BE’ UNA VOLTA HO Vun mio amico, dico, ha versato il latte di suocera nel vaporizzatore d’essenze. Era una festa etnica, incenso, spirali, candele, così la nube ha impregnato le tende indiane che hanno preso fuoco. Altri ti cagano nel cellophane, ci attaccano sopra l’etichetta SALAME AL CIOCCOLATO e te lo mettono in freezer. Nove volte su dieci i padroni di casa lo trovano due giorni dopo, lo credono un regalo e lo mettono a sgelare sul tavolo della cucina.»
«GWAH GWAH GWAH» ride lei «MA QUESTA È BELLISSIMAAAHAHAHA, BELLA, BELLAOURGH» conclude, sparando un fiotto di vomito oltre il parapetto a potenza idraulica di diecimila atmosfere. I liquidi disegnano romantiche volute nell’aria, poi si spiaccicano nel cortile.
Restiamo a osservare il prezioso arabesco.

«Bel tiro» commento.
«Sì» dice, traballando «comunque la vita è un frrrrrr-r-r-r» bramisce ruttando, poi il corpo ha un tremito, le si girano gli occhi e collassa all’indietro. Di riflesso allungo la mano per prenderla. La buona notizia è che i reggiseni sono più solidi di quanto credessi. Si allungano. In alcuni casi funzionano come corda da bungee. La cattiva notizia è che invece i vestiti di Liu Jo no. Ora Katia è svenuta sul terrazzino, ha le a gambe larghe, le tette di fuori e io stringo un reggiseno strappato misto brandelli di vestito. Solo a quel punto Leonora decide di uscire con un sorriso e una sigaretta.

 

 

 

 

Le cadono tutti e due.

 

 

 

 

«Ha sboccato, è svenuta, io ho cercato di prenderla» riassumo.

 

 

 

 

 
«Dimmi che è viva» fa lei.
Guardo. Katia con la K russa.
«Sì. Chiamiamo gli altri e portiamola dentro.»
«Non puoi portarla dentro così, coprila.»
«Con cosa? Il suo reggiseno pare l’imene di Lea di Leo.»
«Ho una spilla di sicurezza in borsa.»
«Non azzardarti a lasciarmi da solo! Sai cosa sembra, ‘sta scena!? Vedo già i titoli di Libero.it.»
«Diocristo, allora mettile il mio» dice, facendo per aprirsi la camicia e fermandosi: «…ah, no.»
«Come no? Quando siamo usciti ce l’avevi.»

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Ma affrontiamo un problema alla volta.

Mi tolgo il montone, glielo metto sopra e chiamo la ghenga hipster che accorre in massa mentre io mi cago addosso dal freddo. Diego non è così sicuro le cose siano andate come gli racconto, ma la pozza di vomito è innegabile così come l’alito raggelante della sua donna, le mutande le ha ancora, io non ho segni di colluttazione in faccia. Recuperato il mio raffinato soprabito possiamo tornare a casa.