Il Terraglio. La nostra 8 mile. Una superstrada lunga 17 chilometri che unisce Treviso a Mestre, l’arteria polmonare dell’entroterra veneto. Su questa strada c’è tutto. Campi, ristoranti, paeselli, discoteche, paninari ambulanti, ospedali e carghi di mignotte. Sono cresciuto in una delle sue laterali, un quartiere in mezzo al nulla a 20 minuti di autobus da Mestre. Niente criminalità, solo tanti cantieri abbandonati. Cinema, centri commerciali, palazzoni iniziati e mai finiti. Nel 1990 pareva uno scenario post atomico.
C’era solo una discoteca, l’Area city, che raccoglieva scoppiati da tutta Italia. Di notte quando eri a letto sentivi in lontananza l’eco dei bassi, a volte grida. La domenica pomeriggio andavamo a curiosare nella zona lì attorno e trovavamo pacchetti di sigarette, stagnole e siringhe. Eravamo affascinati da quella cattedrale di cemento e vetro, visto che tutti sapevamo a memoria “Nella notte” degli 883.
«Ale, ancora un po’ e torniamo indietro nel tempo» dico.
Il contachilometri tocca i 120.
«Tranquillo, so guidare la bambina. Oh, te c’hai la patente?»
«Chiaro»
«Da quanto?»
«Er… Gennaio»
«Hahaha, neopatentato demmerda, come mai così tardi?»
«M’han segato ripetutamente»
«Teoria o pratica?»
«Una per sorte. Tipico mio»
«Gna ha haha ha ha, manco lì studiavi!?»
«Scherzi? Sono un rapper, non faccio queste cosIIIIIH» grido.
Il sorpasso a filo mi fa sbiancare. L’altra macchina lampeggia spaventata, lui ride. E’ su una giostra, felice, spensierato. Guida una macchina da un gozziliardo di lire come fosse uno slittino, col rombo del motore che strapperebbe le mutande a una suora, figurarsi alla mia ex. E per Cortina ci sono un sacco di rettilinei.
«Ale, se non vuoi che mi butti fuori in corsa rallenta»
«Lamadonna, mai fatto un sorpasso?»
«Ascolta, Airton, se vuoi diventare un quadro astratto di lamiere e interiora coi pompieri a farti da critico d’arte fallo da solo, io devo sfondare nel mondo della musica e morire intossicato di bamba e whisky tra due ragazzine ninfomani»
«Va bene, va bene, non chiamare la tua crew, yò?»
Arriviamo a Treviso, fuori dall’Avana. Parcheggia, chiude, si dirige a grandi falcate verso l’ingresso saltando la coda, un enorme stronzone di fica strepitosa e contadini ripuliti che ci guardano tra l’incuriosito e l’astioso. Vedo il buttafuori prepararsi all’impatto e già vedo la figura di merda. Ho il portafogli legato ai pantaloni oversize con una catena da biciclette. Sono la X nel gioco “trova l’intruso”. Ci fermerà a ceffoni, il gestore uscirà sparando, riattraverseremo la fila sanguinanti tra le risate. La gente ci sputerà addosso. Saremo sui i quotidiani di tutto il mondo.
«Sì?» barrisce mr. Wistrol all’ingresso.
«Sono Alessio Seguso»
«Ah! Sì, sì, prego. E lui?» mi indica.
«Non lo conosco» dice Ale, e se ne va dentro.
Valuto il seppuku.
Per un attimo io e il buttafuori ci guardiamo, quelli in fila mi fissano, i riflettori mi puntano e sulla mia maglietta cominciano a muoversi dei puntini rossi. Il pleistocenico incrocia le braccia, l’altro lo raggiunge. Io alzo l’indice e apro la bocca per dire le mie ultime parole da uomo con una dignità quando da dentro spunta la testa di Alessio.
«Bè? Che fai lì, ti muovi? Eddai ragazzi, sto scherzando, un pelo d’ironia, eh?» schiocca le dita con occhi sbarrati.
I colossi si disinteressano istantaneamente a me. Sgattaiolo dentro inseguendo Ale, uno che quando l’ho conosciuto era un asociale figlio di papà con la costante espressione di chi sta leggendo “lessico famigliare” della Ginzburg. Vedi cosa fanno gli anni.
«Mi sono cagato addosso» ansimo.
«Hahaha, fan brutto, eh?»
«Tra bicipite e torace non credo riescano a prendersi l’uccello per pisciare»
Fa un gesto frivolo con la mano: «Buoi d’allevamento consenzienti, lascia là. Facciamo una cosa: tu vai al banco e ordini un mojito per me e per te quello che vuoi, io torno subito»
«Non ci hanno dato la drink card, qui si paga direttamente in organi?»
«La barista si chiama Yelena, digli che sono per me»
«Fiuto il dramma»
«No, perché?»
«Eh, perché co’ ‘sta smania di fare il simpa che c’hai salterà fuori che Yelena è la madre del barista e in men che non si dica sarò l’ingrediente segreto della Simmenthal»
«Nebo, VAI» sogghigna.
Vado.
Il ripetitivo pulsare nella penombra, l’enorme mole di fiche stellari. Non è facile raggiungere il bancone, dove mi accoglie una bionda dallo sguardo di ghiaccio. Yelena non crea problemi, versa due mojito e torna dagli altri clienti. Butto le solite cannucce per terra e sto al banco a guardarmi attorno. Dopo dieci minuti che comincio a preoccuparmi Ale spunta dalla folla, piglia il mojito, saluta Yelena e mi fa segno di seguirlo. Arriviamo a un tavolino sul lato rialzato, ci aspettano due tizi qualsiasi sulla trentina accompagnati da due sventole sudamericane che polverizzano qualunque modella di Intimissimi da qui all’eternità. Sul tavolo c’è una cartellina, una penna, bicchieri da cocktail, due calici.
«Questo è Nebo, un mio carissimo amico» dice Ale, indicandomi.
«Ehilà» faccio.
Le tizie neanche si voltano. Una butta un’occhiata distratta.
«Nebo, loro sono Tony M, sai il DJ dell’Area, quella storica? E’ lui. Lui invece è Claudio C, il gestore di questo tempio del peccato»
«E’ un gran bel tempio» dico tentando d’ignorare le scollature.
«Grazie. Vuoi?» domanda mostrandomi la carta di credito.
Ora io non so voi, ma se mi offrono una carta di credito dico di sì a prescindere. E’ simpatico. Non hai idea di cosa cazzo significhi ma dire “no” sarebbe suonato male. Non sbagliato, solo male. Se invece dici “sì” hai un sacco di assist per cavartela con una battuta. Il problema diventa quando dal nulla salta fuori una bustina bianca, le tizie si voltano improvvisamente interessate, la carta di credito viene usata come Mosè sul Nilo e tu, tu hai appena detto “sì”. L’altro arrotola una banconota da 20 euro, in culo agli stereotipi cinematografici.
«Eeeh… Ale?» sussurro.
Si sporge senza guardarmi.
«Io non ho mai, diciamo, avuto l’occasione di… di.»
«Di…? Farlo prima? Mai fatto un pippotto?»
«Ecco»
«E allora perché hai detto sì?»
«Perché credevo di fare chissà che battutoni, non avevo colto…»
«Vabbè, prova. Guarda, è facile»
Gli porgono i 20 euro. Ale mi lancia uno sguardo, si china e con un gesto rapido esegue. Si tira su, gli occhi lucidi, si sistema il naso, inspira ed espira.
«Llllà. Sì. Polvere parlante splendidissima. Tè, segugio, attacca»
Le tizie danno segni di impazienza, se non altro mi guardano. Ho dai due ai tre secondi per fare una scelta importante. Mi chino pensando che chi se ne frega. Quando rialzo la testa il mondo è al suo posto, non c’è nessuna differenza e non provo niente di strano. Sto bene. Sono tranquillo. Prude un po’ il naso. Mentre un reattore nucleare all’interno del mio corpo stacca lentamente il circuito di raffreddamento, Claudio C. chiede ad Ale se fuma.
E tira fuori un pacchetto di Marlboro.