Quelle domeniche di spesa bio e voglia di morire

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C’è stato un tempo in cui la domenica era il giorno del riposo. L’uomo si fermava, ricaricava le energie fisiche e mentali. Arrivava in spiaggia alle 10 e dormiva, faceva il bagno, dormiva, tornava. Adesso sto osservando un bagliore che potrebbe essere Marghera in fiamme o l’alba, ho dormito meno dell’indignazione di Internet e bevo il caffè in uno stato di quiete mongoloide, dove dimostro d’essere vivo perché emetto svogliate flatulenze. Oggi la domenica serve a ricordarci quant’è bello lavorare. Quant’è bello stare lontani dal curioso animale domestico che oggi pretende attività ricreative da postare su Facebook. Ha una vita sociale e sentimentale, lei, ed è migliore di quella dell’amica stronza. Guardate le foto stupende. I panorami meravigliosi. I sorrisi bellissimi. Dietro ognuno di questi c’è un uomo che sperava di dormire e invece ha camminato 2355 chilometri in montagna con 35 chili di zaino. Ma prima
«AMORE HAI FATTO I PANINI?»

 

 

 

 

 

 

Prrrrfff.
«AMORE?!»

 

 

 

 

 

Tr-tr-tr-rrrt.

 

 

 

 

 

 

«AMORE MI SENTI?»
Non ho fatto i panini.

Potrebbe avermi detto di farlo, come no. Non importa. I primi tre anni impari che non importa la tua argomentazione, la donna dirà che non è vero. I successivi tre impari che non servono registrazioni, filmati, sbobinature degli ultimi vent’anni: la donna dirà che non è vero. Dal sesto anno in poi non arriverai nemmeno a finire l’argomentazione, perché t’interromperà prima, dicendo che non è vero. Al settimo anno ti cazzierà perché la interrompi mentre t’interrompe.

«TI AVEVO DETTO DI FARLI»
Frrrbth.

«ADESSO BISOGNA FARE LA SPESA ALL’AUCHAN CHE COSTA COME IL FUOCO»

 

 

 

 

 

 

Ssssfft.
Adoro la T finale, quando l’ano si richiude. Sa molto di inchino del direttore d’orchestra.

«CAZZO L’AUCHAN APRE ALLE NOVE, PERO’ IN MONTAGNA ANDIAMO LO STESSO»

Entro in macchina. Lei bussa al finestrino. Devo mettermi sul sedile del passeggero, perché dopo essersi insediata nella mia casa, vuole imparare a guidare la mia macchina. Mi sposto, impugno il rosario e vedo l’albero davanti a me impallidire. Domando di aprire il finestrino perché fa così caldo che potrei covare un pulcino nel gomito.

«No, mettiamo l’aria condizionata.»

Calcolando i consumi, appena premo il tasto A/C parte la sigla di Transformers e non sono più alla guida di un’auto, ma di un condizionatore con le ruote. Suggerisco i finestrini, dopotutto se si abbassano c’è un motivo.

«Con l’umido che c’è? No, no, aria condizionata.»

Una parte del mio cervello vorrebbe spiegare alla slabbrata che umidità e temperatura non sono la stessa cosa, ma la sola idea mi fa sudare il sudore. Premo A/C. La macchina rallenta, sudo come un maiale nel forno e lo stereo fa partire una risata preregistrata del benzinaio.

«Dai, cinque minuti e si raffredda» sorride lei.
«E in quanto saremo all’Auchan?»
«COSA C’ENTRA»

Dopo quattro minuti e mezzo apriamo le portiere, sudati come cavalli dopo una lunga galoppata. Una decina di euro di aria tiepidina si dissipa immediatamente nell’aria torrida del parcheggio. C’incamminiamo verso l’ingresso. Dopo dieci passi la piega del culo è una grondaia di sudore. Dopo venti, sul selciato noto uccelli morti e piccoli predatori. Dopo trenta ho visioni mistiche, allucinazioni paranoidi e la suola di cuoio manda odore di bistecca. Parcheggiare nel sotterraneo ci avrebbe garantito un accesso più rapido e la macchina all’ombra, ma alla vagina i seminterrati fanno angoscia. Entriamo e ci dividiamo i compiti. Io pane e affettati, lei formaggio e verdura. Purtroppo si è dimenticata di prelevare. Dico che c’è il bancomat. Purtroppo si è dimenticata anche il portafogli.

 

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Dopo essere stato rapinato dalla mia consorte raggiungo il banco affettati. Qui il salumiere enuncia con tono epico i sublimi sapori del prosciutto X, elogia il sapore purissimo del prosciutto Y, ignaro del fatto che io sto solo guardando i prezzi sui cartellini.

«Due etti di quello» indico.
«Il Sauris da 560 euro all’etto? Ottima scelta» dice.
«No, quello sotto.»
«Ah, intende il San Daniele da 230 euro?»
«No, quello a destra.»
«Certo, lei vuole il meglio: prosciutto di Toscana, da allevamento biologico. 1200 euro in comode rate.»
Dalla tasca tiro fuori un puntatore laser e illumino il prosciutto Pezzenza elite. Il salumiere tentenna: «La vetrina fa riflesso, sta indicando il Parma da 732?»
Spacco la vetrina con il gomito, scavalco mozzarelle, terrine di insalata di riso, olive ascolane, arrivo al banco, afferro il prosciutto e glielo metto in mano.

«Questo» dico.
«È solo per esposizione.»
«Taglia o t’ammazzo.»

Malvolentieri, il malnato appoggia la carta sulla bilancia che da zero passa a sei etti. Ci respiro sopra e il quadrante segna il tonnellaggio della portaerei Washington. Il salumiere deposita due etti scarsi, squilla il telefono ed è la NASA che si congratula perché siamo riusciti a calcolare l’esatto peso della luna. Il salumiere fa la faccia di chi è buono e vuole farmi un regalino; affetta un impalpabile velo di prosciutto, lo prende con le pinzette da unghie e lo deposita, trionfante, sulla bilancia. Quella esplode e stampa uno scontrino riportante il debito della Grecia. Metto nel cestino, raggiungo il reparto pane.

«Buongiorno. Due rosette, per favore.»
«Al kamut? Integrali? Ai quattro cereali?»
«Pane bianco» tento.
«Senza glutine? Biologico?»

Immagino una carestia e milioni di italiani morti di stenti mentre scavano in una montagna di pane alla ricerca di cibo commestibile.

«N-normali…»
«Gallette di riso? Tofu?»
«Signora, il pane. Farina, lievito, sale. Pane. La prego.»
All’improvviso ha un guizzo: «Aaaah, quello anni ’80? No, no, finito. Sparisce in cinque minuti appena apriamo.»
«Non capisco, allora perché ne fate così poco?»
«Perché non ne vale la pena, non lo mangia più nessuno.»
«Ma se va via in cinque minuti!»
«È il mio negozio, ho il diritto di

Compro tre pagnotte ai quattro cereali, un grumo di granaglie che le galline scambierebbero per sassi tenuti vagamente insieme da una schiuma nerastra. Appena toccano il sacchetto le pagnotte si frantumano e uno sciame di piccioni le beccotta. Li allontano con l’afrore delle mie ascelle. Passo davanti allo scaffale delle b

 

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Una ragazza di una bellezza sconvolgente con due bombe da far provincia mi sorride come un’amante complice e mi porge un bicchiere di birra: «Posso offrirti un assaggio dSCOPARE SCOPARE SCOPARE SCOPARE SCOPARE SCOPAREale?

Afferro il bicchiere, mentre guardandola mi sale il mostro di Firenze. Bevo. A un tratto due energumeni mi afferrano le braccia, un terzo mi apre le mascelle a pugni e fa cenno a un camion spurgo pozzi neri di fare retromarcia. Stacca il tubo dal fianco, me lo infila in gola e apre i rubinetti. Mugolo disperato.
«Questa birra artigianale la producono dei ragazzi di Belluno spremendo i rifiuti della clinica per donatori di organi e le suole usate delle Geox» sorride l’angelo «è un’azienda agricola a chilometro 0, nel senso che non farà mai strada, ma intanto truffa gli hipster convinti che tre stronzi in garage abbiano standard qualitativi superiori a quelli di un’azienda che fattura milioni di euro.»

Deposito il bicchiere vuoto sul banchetto ostentando indifferenza, mentre in me c’è l’orrore e l’abominio, il disgusto e il disagio, la morte e il disprezzo.

«Ma tu… tu davvero assumi questa sostanza?» chiedo, appoggiandomi per non svenire.
«Sono donna, non mi servono ‘sti cilici da maschi etero bianchi» fa lei, bevendo una Heineken celata da un sacchetto di carta «e poi già mangio carne di soia, come occidentale ho già espiato le mie colpe e posso fare la spesa da H&M a testa alta.»

Mi allontano barcollando.

Trovo la consorte che sta contrattando col cassiere se estinguere il proprio conto corrente oppure garantire una prestazione sessuale. Sta quindi chiaramente pagando la verdura da agricoltura biologica chilometro 0 del farmer market, ossia gli scarti del contadino venduti al sestuplo del normale. Non oso intromettermi nella trattativa. La osservo sparire con lui nel bagno, ne escono pochi minuti dopo. Lei ha i capelli scarmigliati e dice che i soldi non sono serviti.

«Ah, allora puoi restituirmeli» dico.
No.