Kit Kat e Big dawg: una storia vera

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«Sei il moroso di Leonora?»
«Sì»
«Volevo conoscerti, parla spesso di te. Io sono Marco. Faccio kickboxing con lei»

Mi giro, ci guardiamo. Sono le due e mezza di mattina, a Trieste. La festa volge al termine. Birra spanta e cicche spente costellano la terrazza dove studenti e studentesse hanno ballato, bevuto, fumato e rimorchiato. La Leo, ciucca, intona canti popolari in dialetto con altre ragazze. Lui non sembra uno studente. Ventotto, forse ventinove anni. Fisico massiccio, occhio azzurro, sorriso sincero. Gli stringo la mano.

«Come se la cava?» chiedo.
«Eh, mena. Le ragazze si cagano a far sparring con lei»

Chiacchieriamo. Marco è una di quelle persone che ti piacciono a pelle. Esistono ‘sti tipi che li vedi, aprono bocca e ti sembra di conoscerli da tutta la vita. Siccome le ragazze stanno diventando moleste e berciano senza ritegno ci spostiamo dentro. Ravano tra gli avanzi.

«Resta poca roba» mugugno «faccio uno screwdriver»
«Nonono lascia, quella è birra ginger? Ti faccio un moscow mule»
Si mette all’opera. Fa due bicchieri e me ne porge uno.

«Za zdorov’je» dice, alzando il bicchiere.
Noto il tatuaggio sull’avambraccio.

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«Ah!» esclamo «sei gente che non fa niente e che non ha voglia di lavorar
Per un istante mi guarda confuso, poi scoppia a ridere.

«E’ stato una vita fa. Anche tu?»
«Manco per niente» scuoto la testa «ma ho molti amici nelle forze armate»
«Credevo tra studenti fossero tutti… uh, contrari»
«E gli studenti credono siate tutti, uh, nazi. Secondo me dovreste parlare di più»
«Non li vedo molto inclini al dialogo»
«E’ perché sono democratici»

Dal moscow mule passiamo allo screwdriver. Marco si smolla. Racconta di essere stato in Kosovo, chiedo dell’uranio impoverito, lui dice che ha fatto gli esami ma è risultato a posto.

«In realtà ho avuto un solo scontro a fuoco, il resto ho fatto il manovale. Niente di chissà che. Però visto che un po’ ci capisci posso raccontarti una storia figa sugli incursori. Ti va?»
«Spara» dico «CIOE’ DIMMI»
«Kosovo, ok? ONU, operazioni interforze. Il mio reparto era addetto alla sicurezza di un aeroporto militare, blindatissimo. Noi stiamo di guardia agli hangar dove tengono i caccia. Un giorno arriva il tenente e dice “da qui a quindici giorni una squadra di incursori farà un’esercitazione. Mineranno gli aerei e se ne andranno. Siete avvisati”. Chiedo al tenente se avremo munizioni a salve, quello risponde che non ce ne sono»

«Come sarebbe, scusa…»

«Siamo in piena zona di guerra, chi cazzo si sogna di portare proiettili a salve? Poi cosa facciamo, siccome ‘sti tizi devono esercitarsi teniamo un preservativo in canna? Se arriva il nemico cosa facciamo, gridiamo “tocco blu non gioco più” per cambiare le munizioni?»
«Mi sembra una stronzata lo stesso»

«Era un’idea degli americani, infatti. Gli incursori delle varie nazioni assaltavano le basi alleate. Una specie di braccio di ferro tra amici. Nel nostro caso c’erano i Col Moschin (esercito) e i GIS (Carabinieri). Il COMSUBIN non ha partecipato perché erano impegnati. L’Inghilterra metteva i SAS, gli Stati Uniti i Navy SEALs, i francesi e i tedeschi non so. Comunque, da noi vengono gli americani e noi andiamo da loro. Due caserme, due squadre. Ci sei?»

«Sì. Elite di Esercito e Arma contro Navy SEALs. Le fanno sempre, ‘ste robe»
«Bene. La seconda notte io sono di guardia all’interno. Fuori c’è Popoci. A differenza di quello che puoi pensare dal nome, Popoci è il terrone più grosso che io abbia mai visto in vita mia. Piantona l’hangar, quando alle sue spalle sente uno che lo tocca e gli dice qualcosa in un’altra lingua. Popoci si volta trovandosi davanti un tizio accovacciato e vestito di nero con in mano un coltello. Quello sibila con tono di voce più aggressivo “you’ve been killed, stay down”»
«E…?»
«E Popoci è un cazzo di terrone cresciuto nei quartieri spagnoli di Napoli che ora è in piena zona di guerra, secondo te cos’ha fatto? Gli ha tirato un calcio in faccia, gli è montato sopra e ha cominciato a massacrarlo di botte urlando “AHE’, ALLARME, CI STANN A FUTTERE L’ARRIUPLANI!”. Nel frattempo…»

«Oh, Dio»

«…nel frattempo io, dentro, sento un tonfo. Mi sporgo e vedo un tizio che è rimasto incastrato in una finestra con la corda, mentre uno tra gli aerei lo strattona. Punto il fucile e grido l’altolà. Quelli sparano tre colpi sopra di me, tipo tre metri, poi si nascondono dietro un aereo urlando in inglese. Io non capisco un cazzo e rispondo al fuoco dando l’allarme. Sento “you have been hit, please stay down”. Devi capire l’adrenalina di quel momento. Notte, piena zona di guerra, botti di mortai e ‘sti robi neri che ti entrano in casa sparando. Ti pare che mi metto ad ascoltarli?»

«No» dico, con le mani sulla faccia «suppongo di no»

«Mi sposto sotto le carlinghe per puntarli, ci sei? Vedo una gamba, sparo. Quello va giù e gli avrei pure sparato in testa, ma quando punti qualcuno per uccidere il cervello ha un millisecondo di esitazione. Non so spiegarti, è tipo una specie di triplo check di sicurezza. E’ quello che ti fa crepare, di solito, ma io non avevo mai sparato a qualcuno, prima. Se punti un fucile vero, anche se scarico, contro qualcuno… bè, fa effetto»

«Vai avanti»

«Eh, in quel check capisco che sono americani, mi ricordo l’esercitazione e non sparo. Quelli escono con le mani alzate, si apre l’hangar e piovono dentro i nostri che li circondano, tra cui vedo Popoci che si tira dietro il Navy SEALs uso sacco della monnezza. Esercitazione fallita. Gli USA, poi, hanno protestato dicendo che eravamo stati avvisati e tenevamo la guardia più alta del previsto»

Le luci della sera tremano nell’aria calda che si sprigiona dai palazzi di Trieste.

«Pensa che risate se invece non vi avvisavano. E i nostri?» chiedo.
«Allora, il Col Moschin ha minato gli aerei americani e ha tagliato la corda senza che nessuno si accorgesse di niente. I GIS invece hanno tutto un loro modo di fare. Sono sempre… spiritosi. Dopo aver minato tutti gli aerei si sono presi la briga di taggare le carlinghe coi loro soprannomi»
«Tag…?»
«Sì. Ci hanno scritto i loro nomi in codice sopra. La mattina dopo gli USA si sono trovati gli aerei con scritte cubitali tipo NOSTRADAMUS o REAL NIGGA o che ne so io. Tutti gli incursori hanno un soprannome. Di solito è in inglese così lo capiscono anche le forze speciali di altre nazioni. Tra loro si conoscono quasi tutti»

«Che storia» dico.

La Costa Concordia, dal momento dell’affondamento in poi, è stata pattugliata a vista per proteggerla da eventuali sciacalli giacché, legalmente parlando, è discutibile dire cosa sia di chi in un relitto. Nessuna nave o sommozzatore civile poteva avvicinarsi. Incursori del COMSUBIN e del GIS hanno fatto svariate immersioni, anche per recuperare la scatola nera. L’altroieri, durante le manovre di raddrizzamento, qualcuno ha notato dei misteriosi graffiti apparsi sulle paratie sommerse. Due calligrafie diverse dicono “Kit kat” e “Big dawg”.

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Alcuni colleghi si sono interrogati su chi li avesse fatti e cosa significassero, ma sono stati rimossi subito e c’era altro a cui pensare. Nessuno saprà mai chi sono gli autori e, dopotutto, è un dettaglio insignificante. Però mi ha fatto tornare in mente la storia di Marco.